Una contraddizione tra materia e forma
- Sull'importanza della produzione di plusvalore relativo ai fini della dinamica della crisi -
di Claus Peter Ortlieb - 12 settembre 2008 - pubblicato su Exit!
* 1 - L'ultima crisi del capitale? Una controversia; * 2 - Produttività, valore e ricchezza materiale;
Mentre l'economia politica in carica ritiene di stare osservando solo il lato materiale del modo di produzione capitalistico, e si interessa di magnitudini quali la crescita "reale" del prodotto interno lordo, oppure del reddito "effettivo" - tutte cose che, tuttavia, sono mediate dai loro valori in denaro - la maggioranza dei testi che si legano alla teoria del valore lavoro analizza il medesimo processo di produzione in relazione alla massa di valore e di plusvalore che viene realizzata in quel processo. Entrambe la parti, sembrano partire implicitamente dal principio secondo cui si tratti solo di differenti unità di misura della ricchezza. Viceversa, questo testo parte, con Marx, dal duplice concetto di ricchezza nel capitalismo, storicamente specifico, che viene rappresentato nel duplice carattere della merce e del lavoro. Il valore, come forma dominante di ricchezza nel capitalismo, si contrappone alla ricchezza materiale, alla cui forma specifica il capitale è di fatto indifferente, ma alla quale continua ad essere indispensabile in quanto portatore del valore. Ora, con l'aumentare della produttività, queste due forme di ricchezza entrano necessariamente a far parte di un'evoluzione divergente; ed era a partire da questo che Marx poteva parlare del capitale come «contraddizione in processo». Ed è tale contraddizione che vado qui ad esaminare. L'obiettivo è quello di mettere alla prova le argomentazioni del saggio di Robert Kurz (del 1986), che ha fondato la teoria della crisi dell'ex Krisis, contro quanto meno alle argomentazioni più serie contrarie a quelle formulate da Kurz. Secondo quel testo, il capitale ci starebbe conducendo verso una crisi finale perché, a causa dell'aumento della produttività, a lungo termine la produzione sociale totale, o globale, del plusvalore dovrà diminuire, e alla fine la valorizzazione del capitale dovrà cessare del tutto. Per quel che riguarda tale diagnosi, questo testo sostanzialmente non differisce da quello di Kurz (1986), ma si basa su una prospettiva leggermente diversa per quel che riguarda la rappresentazione della massa di plusvalore sociale totale. Questa può essere determinata, da un lato, come fa Kurz (1986 e 1995), partendo dal plusvalore creato da ciascun lavoratore, attraverso la somma del plusvalore prodotto da tutti i lavoratori produttivi, ma anche, come avviene qui, partendo dal plusvalore realizzato in un'unità materiale, attraverso la somma di tutta la produzione materiale. Le due rappresentazioni non si contraddicono, ma piuttosto evidenziano quelli che sono aspetti differenti di un medesimo processo. Inoltre, l'approccio qui scelto consente di stabilire un legame tra la dinamica della crisi finale e la tendenza del capitale a distruggere l'ambiente, già analizzata da Postone (nel 2003). [...]
1. - L'ultima crisi del capitale? Una controversia
La teoria della crisi della vecchia Krisis ha subito una forte opposizione e una critica, entrambe di un genere che in gran parte non potevano essere prese sul serio, in primo luogo perché - continuando a seguire solo la propria linea - non prendevano neanche nota dell'argomentazione avanzata. In questo quadro vanno incluse quelle idee dogmatiche secondo cui il capitalismo sarebbe sempre risorto dalle successive crisi, come la Fenice dalle proprie ceneri, in modo che tutto possa sempre essere come in passato. Altre idee negano l'aspetto oggettivo della dinamica capitalistica in generale, e sostengono che il capitalismo può essere abolito solo attraverso una rivoluzione, o perfino con un «atto volontaristico». In mezzo a tutto questo, diventa indubbio che la transizione verso una società liberata, qualunque essa sia, presuppone l'agire consapevole degli esseri umani. Ma da questo non ne deriva che, in assenza di una tale transizione, il capitalismo possa continuare allegramente allo stesso modo. Può anche verificarsi una fine del terrore.
La diagnosi in tal senso, presentata per la prima volta da Robert Kurz nel suo saggio "La crisi del valore di scambio" (KURZ, 1986), stabilisce per linee generali che il capitale - attraverso l'aumento compulsivo della produttività (o delle forze produttive) indotto dalla concorrenza del mercato - si scava la propria fossa, dato che elimina dal processo produttivo creatore di plusvalore sempre più il lavoro, e insieme ad esso la propria sostanza. In questo contesto, gioca un ruolo speciale la «forza produttiva scienza» in generale, e la «rivoluzione microelettronica» in particolare. Il testo può essere letto come un'elaborazione ed un aggiornamento di una famosa constatazione fatta da Marx e contenuta nel frammento sulle macchine dei Grundrisse: «Il capitale è, esso stesso, la contraddizione in processo [perché] si sforza, da una parte, di ridurre il tempo di lavoro a un minimo, e dall’altra stabilisce il tempo di lavoro come l'unica fonte e la sola misura della ricchezza.» Nei Grundrisse, Marx ammette che questa contraddizione è tale da «far saltare in aria» quella che è la base ristretta del modo di produzione capitalistico.
Tra i critici di questa tesi di una crisi finale del capitale, Michael Heinrich svolge un ruolo particolare, nella misura in cui si lascia coinvolgere, almeno in parte, nell'impianto argomentativo per mezzo del quale viene sviluppata questa tesi. E poiché intende ignorare quella che è la tendenza al collasso del capitale, deve schierarsi e prendere posizione contro il Marx dei Grundrisse, e lo fa giocandogli contro il Marx del Capitale (HEINRICH, 2005):
« Ne Il Capitale, la prospettiva di valore del suddetto processo - ovvero che nel processo di produzione di ogni prodotto dev'essere impiegato sempre meno lavoro - non viene analizzata come se si trattasse di una tendenza al collasso, ma piuttosto come se si trattasse di una basa per la produzione del plusvalore relativo. L'apparente contraddizione della quale Marx appariva così impressionato nei Grundrisse, per cui il capitale "si sforza, da una parte, di ridurre il tempo di lavoro a un minimo, e dall’altra stabilisce il tempo di lavoro come l'unica fonte e la sola misura della ricchezza", diventa, per Kurz, Trenkle ed altri rappresentanti del gruppo Krisis la "autocontraddittoria logica del capitale", la quale condurrebbe inevitabilmente al crollo del capitalismo. Ma nel I Volume de Il Capitale, Marx di sfuggita decifra tale contraddizione come un vecchio enigma dell'economia politica, con cui già nel 18° secolo l'economista francese Quesnay aveva tormentato i suoi avversari. Questo enigma, secondo Marx, è facile da comprendere qualora si tiene conto che per i capitalisti ciò che conta, o che interessa, non è il valore assoluto della merce, ma piuttosto il plusvalore (ossia, il lucro) che questa merce rende loro. Pertanto, il tempo di lavoro necessario alla produzione di ciascuna merce può continuare ad essere tranquillamente ridotto, a patto che cresca il plusvalore, ossia il lucro prodotto dal loro capitale.»
Innanzitutto, va osservato e sottolineato che qui Heinrich evidentemente confonde i due livelli nei quali si può avere contraddizione: in realtà, Marx decifra un enigma che appariva agli economisti come una contraddizione logica e un difetto della sua teoria. Con ciò, tuttavia, ovviamente non scompare la "contraddizione in processo" che si trova situata sul piano reale e che è una contraddizione forse spiegata, ma non superata. Secondo il Marx dei Grundrisse, tale contraddizione consiste nel fatto che il capitale, nella sua dinamica inconscia, prosciuga la fonte della quale vive. A questo Heinrich
obietta che per il Marx del Capitale l'aumento della produttività sarebbe la base della produzione del plusvalore relativo, come se questo, nella sua progressione, non fosse compatibile con la tendenza al collasso. Sarebbe così? Esiste un'incompatibilità tra la produzione del plusvalore relativo e l'autodistruzione del capitale?
KURZ (1986) afferma al contrario che « il capitale stesso diventa il limite logico e storico assoluto alla produzione di plusvalore relativo. Il capitale non ha alcun interesse e non può essere interessato alla creazione assoluta di valore; esso si fissa soltanto sul plusvalore nelle forme in cui appare in superficie, vale a dire sulla proporzione relativa - nel valore appena creato dal valore della forza lavoro (i costi della sua riproduzione) - alla quota del nuovo valore di cui il capitale si appropria. Non appena il capitale non può più incrementare la creazione di valore in termini assoluti, estendendo la giornata lavorativa, ma può solo incrementare per mezzo dell'incremento della produttività la componente relativa alla sua stessa quota di valore appena creato, questo allora provoca nella produzione di plusvalore relativo un contro-movimento, il quale deve consumare storicamente sé stesso e deve portare ad una battuta d'arresto nel processo della creazione di valore. Con lo sviluppo della produttività, il capitale incrementa l'entità dello sfruttamento, ma così facendo mina la base e l'oggetto dello sfruttamento, ossia la produzione di valore in quanto tale. Dal momento che la produzione di plusvalore relativo, inseparabile com'è dalla progressiva fusione della scienza moderna con il processo materiale di produzione, include la tendenza all'eliminazione del lavoro produttivo, vivente, immediato, in quanto sola fonte di creazione del valore sociale totale. Il medesimo movimento che incrementa la quota di capitale del nuovo valore, attraverso l'eliminazione del lavoro produttivo direttamente vivente, decrementa le basi assolute della produzione di valore.»
Qui la produzione di plusvalore relativo, non solo non appare essere minimamente in contraddizione con la tendenza del capitale al collasso ma, al contrario, sembra essere addirittura lo strumento per mezzo del quale il capitale stesso diventa il suo stesso «limite logico e storico assoluto». In tal caso, però, il Marx de Il Capitale non avrebbe affatto corretto il Marx dei Grundrisse, come pretende Heinrich, ma gli avrebbe solo fornito quella che è una spiegazione più dettagliata della «contraddizione in processo».
A quanto pare (e senza sorpresa alcuna) qui si tratta di una controversia. Si può andare fino in fondo, a tale controversia, dal momento che gli avversari condividono un punto di partenza comune, vale a dire, la categoria del «plusvalore relativo» introdotta da Marx nella critica dell'economia politica, ma finiscono per trarne delle conclusioni del tutto differenti, e persino mutuamente contraddittorie. Pertanto, il tentativo che segue e che vuole contribuire al chiarimento, deve tornare, ancora una vola, a quello che è il punto di partenza comune. Il dibattito, cui ci si è sovente riferiti nel contesto delle controversie intorno alla teoria della crisi della vecchia Krisis - tra TRENKLE (1998) ed HEINRICH (1999) - qui non servono come riferimento, poiché Trenkle, al contrario di KURZ (1986), nella sua argomentazione a proposito dell'avvicinarsi di una crisi finale, non fa affatto menzione della produzione di plusvalore relativo.
2. - Produttività, valore e ricchezza materiale
Si parla di un aumento di produttività quando, nello stesso tempo di lavoro può essere prodotta una maggiore quantità materiale di prodotto oppure - il che è lo stesso - quando la stessa quantità materiale di merci può essere prodotta impiegando meno lavoro, riducendo così l'ampiezza del valore, La produttività è, pertanto, la proporzione tra la quantità dei beni materiali ed il tempo di lavoro necessario per produrli. Per meglio comprendere la produttività e la sua evoluzione, si rende pertanto necessario distinguere tra dimensioni del valore e ricchezza materiale.
Quando Marx dice (vedi sopra) che il capitale «stabilisce il tempo di lavoro come unica misura e sola fonte di ricchezza», egli sta parlando della ricchezza sotto forma di merce. Tale forma di ricchezza storicamente specifica, valida solo per la società capitalista e che ne costituisce il suo «nucleo interno» (si veda POSTONE, 2003), per il Marx dei Grundrisse cade progressivamente in contraddizione con la «ricchezza reale»:
«Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta — questa loro powerfull effectiveness — non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione.»
Ne Il Capitale, Marx, anziché di «ricchezza reale», parla di «ricchezza materiale», la quale è formata dai valori d'uso. Questo uso del linguaggio appare più adeguato perché nella società capitalista sviluppata, perfino la ricchezza materia non è la stessa di quella nelle società non capitaliste, ma le forme che essa assume sono a loro volta segnate dalla ricchezza sotto forma di valore. A questo punto, basta constatare che nella società capitalista esistono due forme distinte, e concettualmente distinguibili, di ricchezza: «La ricchezza delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, si presenta come un'immensa collezione di merci» (MEW 23: 49). E nel duplice carattere delle merci, in quanto portatrici di valore e in quanto valori d'uso, si riflettono quelle che sono le due forme differenti di ricchezza esistente in queste società.
Nel capitalismo, il valore è la forma predominante e non materiale di ricchezza, dal momento che non interessa la forma materiale di ricchezza sotto forma di valore. L'economia capitalista mira solo a fare accrescere questa forma di ricchezza (valorizzazione del valore) che trova la sua espressione nel denaro: un'attività economica che non prevede plusvalore, anche se può produrre molta ricchezza materiale, non ha alcun senso. Perché mai qualcuno dovrebbe investire il proprio capitale nel processo di produzione, se alla fine dovesse ottenere solo un valore tutt'al più uguale a quello inizialmente impiegato?
La ricchezza materiale - che secondo POSTONE (1993/2003: 296 sg.) è una caratteristica delle società non capitalistiche come forma dominante di ricchezza - al contrario, si misura a partire dai valori d'uso disponibili, i quali sono molto versatili e possono servire a scopi assai diversi. In questo senso, 500 tavoli, 4.000 paia di pantaloni, 200 ettari di terra, 14 lezioni sulle nanotecnologie o 30 bombe a frammentazione saranno ricchezza materiale. Da questi esempi deve essere chiaro quanto segue: innanzitutto, la ricchezza materiale non viene necessariamente generata dal lavoro, e non è neppure vincolata alla forma della merce (come, ad esempio, l'aria che respiriamo), per quanto essa venga spesso posta in questa forma (come, per esempio, avviene con la terra). In secondo luogo, la ricchezza materiale non consiste necessariamente di beni materiali, ma può includere anche la conoscenza, le informazioni ecc. e la conseguente divulgazione. In terzo luogo, nella ricchezza materiale non va visto quello che è il «bene» puro e semplice. Gli è che, sebbene la ricchezza materiale non rimanga legata alla forma della merce e nonostante il fatto che il lavoro non sia la sua unica fonte, dall'altro lato, nel capitalismo essa ne costituisce il «supporto materiale» (MEW 23:50) del valore, il quale, a partire da questo, rimane perciò vincolato a sua volta alla ricchezza materiale. Nella produzione delle merci, il suo obiettivo, vale a dire, la mera accumulazione di sempre più plusvalore, deforma in maniera quasi naturale la qualità della ricchezza materiale, i cui produttori non sono allo stesso tempo anche i suoi consumatori: qui non si tratta mai di raggiungere l'obiettivo della massima soddisfazione, nell'uso della ricchezza materiale, ma nell'economia imprenditoriale si tratta sempre e solo dell'obiettivo della massima efficienza. L'abolizione della società capitalistica non potrà quindi consistere solo nel liberare la ricchezza materiale dalla costrizioni che le vengono imposte dalla valorizzazione del capitale, ma implica anche l'abolizione delle sue deformazioni indotte dal valore.
Tuttavia, esiste anche una differenza tra le due forme di ricchezza in termini di valutazione qualitativa. Sotto l'aspetto materiale, la cosa decisiva consiste solo nell'uso che delle cose si può fare. Sotto la prospettiva della ricchezza nella forma del valore, tuttavia, per esempio - nella questione di sapere se io in quanto imprenditore preferisco produrre 500 tavoli o 30 bombe a frammentazione - ciò che conta è solo il plusvalore che riesco ad ottenere in ciascuno dei due casi.
Il concetto di produttività astrae rispetto alla qualità della ricchezza materiale, ed è per questa ragione che in un tale contesto preferisco parlare di unità materiali, piuttosto che di valori d'uso. Questa limitazione quantitative è problematica perché, ad esempio rispetto ai 500 tavoli e ai 4.000 paia di pantaloni, non si può dire in quale delle due produzioni la ricchezza materiale sia maggiore, poiché non sono comparabili sul piano materiale, a causa della differenza qualitativa. Ne consegue che anche il concetto di produttività, che pone in relazione reciproca le due forme di ricchezza, dev'essere differenziato, a seconda della qualità che la ricchezza materiale può assumere: la produttività nella produzione di tavoli è differente rispetto alla produttività nella produzione di pantaloni, ecc.
In seguito, l'attenzione si concentra sulle relazioni quantitative tra le due forme di ricchezza create nella produzione di merci; relazioni che per quanto siano fissi in ogni momento, sono, come dice Marx (MEW 23: 60 sg.) costantemente in flusso:
« Una quantità maggiore di valore d'uso costituisce in sé e per sé una maggiore ricchezza di materiale, due abiti sono più di uno. Con due abiti si possono vestire due uomini, con un abito se ne può vestire uno solo, ecc. Eppure alla massa crescente della ricchezza di materiali può corrispondere una caduta contemporanea della sua grandezza di valore. Questo movimento antagonistico sorge dal carattere duplice del lavoro. Naturalmente forza produttiva è sempre forza produttiva di lavoro utile, concreto, e di fatto determina soltanto il grado di efficacia di una attività produttiva conforme a uno scopo in un dato spazio di tempo. Quindi il lavoro utile diventa fonte più abbondante o più scarsa di prodotti in rapporto diretto con l'aumento o con la diminuzione della sua forza produttiva. Invece, un cambiamento della forza produttiva non tocca affatto il lavoro rappresentato nel valore preso in sé e per sé. Poiché la forza produttiva appartiene alla forma utile e concreta del lavoro, non può naturalmente più toccare il lavoro, appena si fa astrazione dalla sua forma concreta e utile. Quindi lavoro identico rende sempre, in spazi di tempo identici, grandezza identica di valore, qualunque possa essere la variazione della forza produttiva. Ma esso fornisce nello stesso periodo di tempo quantità differenti di valori d'uso: in più quando la forza produttiva cresce, in meno quando cala. Dunque quella stessa variazione della forza produttiva che aumenta la fecondità del lavoro e quindi la massa dei valori d'uso da esso fornita, diminuisce la grandezza di valore di questa massa complessiva aumentata, quando accorcia il totale del tempo di lavoro necessario alla produzione di quella massa stessa. E viceversa.»
Ricordo la distinzione tra ricchezza materiale e ricchezza sotto forma di merce; una distinzione che qui si basa su una tesi che è centrale per la critica dell'economia politica di Marx, poiché essa è per noi tutt'altro che ovvia, e che parla di soggetti imprigionati nel feticcio della merce che in essa si riproducono. Nella nostra quotidianità sotto forma di merce, entrambe le forme della ricchezza appaiono essere ugualmente «naturali» e, in genere, perfino identiche: Non solo perché il valore ha bisogno di un supporto materiale, ma anche perché l'appropriazione dei valori d'uso normalmente avviene attraverso l'acquisto, dando perciò valore ad essi sotto forma di denaro. L'ignoranza della distinzione tra ricchezza nella forma del valore e la ricchezza materiale, nella vita quotidiana moderna può anche non essere problematica, e può persino arrivare a facilitare le attività di ogni giorno. Ma qualsiasi teoria che ignori una simile differenza, o che non la prenda sul serio, non può necessariamente fare altro che rimuovere il nucleo storicamente specifico del modo di produzione capitalistico.
Ciò vale - si potrebbe dire, naturalmente - per la dottrina dominante dell'economia nazionale neoclassica, per la quale l'obiettivo storico di ogni attività economica risiede nella massimizzazione del profitto per il singolo, il quale a sua volta consiste nella combinazione ottimizzata di quelli che sono i «pacchetti di beni», mentre la ricchezza astratta viene vista solo come se fosse il «velo del denaro», che si limita solo a coprire e nascondere la ripartizione della ricchezza materiale e che, pertanto, ai fini di una maggior chiarezza, dev'essere eliminato e rimosso dalla teoria economica.
Ma lo stesso vale anche per l'economia politica classica, come nel caso di David Ricardo, il quale nell'introduzione al suo "On the principles of political economy and taxation" (1821) scrive:
«I prodotti della terra - tutto quello che si ottiene dalla sua superficie attraverso l'applicazione congiunta di lavoro, macchinari e capitale - vengono ripartiti fra tre classi sociali, vale a dire, i proprietari della terra, i proprietari di quei beni o del capitale necessario alla sua coltivazione e i lavoratori la cui attività la coltiva. Le quote provenienti dal prodotto totale della terra - che sotto i nomi di rendite, profitti e salari toccano a ciascuna di queste classi - saranno tuttavia assai differenti nei vari stadi di sviluppo della società... Il problema principale dell'economia politica consiste nel ricercare le leggi che determinano questa distribuzione».
Qui, si tratta unicamente della distribuzione della ricchezza materiale, mentre non si parla della forma particolare che assume la ricchezza nel capitalismo, della quale probabilmente non esiste nemmeno la consapevolezza. Sembra che anche il marxismo tradizionale sia andato raramente oltre questa visione. Per esso, il «lavoro che crea tutta la ricchezza» è un fatto naturale astorico, così come lo è la ricchezza da esso creata. La sua critica, che non va al di là di quello che è il piano della circolazione, viene rivolta contro la distribuzione della ricchezza in sé, ma non contro la forma storicamente specifica di quella che è la ricchezza nel capitalismo. C'è da notare, con Moishe Postone, che così facendo si tiene nascosta una parte importante della critica di Marx (POSTONE 2003: 55/56):
«Molte delle argomentazioni che si riferiscono all'analisi di Marx sulla singolarità del lavoro in quanto fonte di valore, non riconoscono la distinzione da lui fatta tra la "ricchezza reale" (o, la "ricchezza materiale") ed il valore. La "teoria del valore lavoro" di Marx, tuttavia, non è in alcun modo una teoria della qualità singolari del lavoro in generale, ma piuttosto un'analisi della specificità storica del valore, visto come forma di ricchezza e come forma del lavoro che quella ricchezza costituisce. Di conseguenza, per lo sforzo di Marx è irrilevante se si argomenti a favore o contro la sua teoria del valore, come se essa fosse una teoria (trans-storica) del lavoro e della ricchezza - ossia, come se Marx avesse scritto un'economia politica, anziché una critica dell'economia politica».
Nel frattempo, sull'equivoco a proposito dell'approccio di Marx, che è stato qui criticato da Postone, sono state costruite intere montagne teoriche. Ne fornisce un esempio particolarmente impressionante Jürgen Habermas, il quale assume per la precisione il citatissimo passaggio del frammento sulle macchine dei Grundrisse, come se fosse un'opportunità per poter infliggere a Marx un «pensiero revisionista» (HABERMAS, 1978: 256):
«Nelle "Bozze [Grundrisse] della Critica dell'Economia Politica" c'è un'idea assai interessante, la quale mostra che proprio Marx avesse visto lo sviluppo scientifico delle forze produttive tecniche come una possibile fonte di valore. La premessa della teoria del valore lavoro, secondo cui la "quantità di lavoro applicato è il fattore decisivo nella produzione della ricchezza", viene per lui qui limitata, vale a dire: "Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione". Tuttavia, Marx ha poi di fatto abbandonato questo pensiero "revisionista" che non è così entrato nella versione finale della teoria del valore lavoro».
Ovviamente, qui Habermas, senza parlarne con Marx, identifica la ricchezza «reale» con la ricchezza sotto forma di valore. Solo così facendo può supporre che Marx qui avesse «visto lo sviluppo scientifico delle forze produttive tecniche come una possibile fonte di valore». Egli ignora deliberatamente che Marx, in questo contesto del frammento sulle macchine, solo una pagina dopo - come citato - parli del capitale come «contraddizione in processo»; che è quasi il contrario del «pensiero revisionista» menzionato da Habermas. Come dimostra POSTONE (2003: 345-393), questa identificazione implicita (senza alcuna ulteriore riflessione) della ricchezza con il valore, ed insieme ad essa l'ontologizzazione del valore e del lavoro visti come patrimonio della specie umana, in modo non storicamente specifico, costituisce la fondamentale premessa da cui dipendono tutte le critiche habermasiane a Marx, e ai suoi tentativi di superarlo.
Ma perfino un preteso teorico del valore come Michael Heinrich, al quale la distinzione tra ricchezza materiale e ricchezza sotto forma di valore è perfettamente familiare non sempre rimane immune all'equiparazione tra le forme di ricchezza: la sua argomentazione centrale contro la tesi sviluppata da KURZ (1995), - secondo cui il lavoro «produttivo» (creatore di plusvalore) si dissolve e fa crescere costantemente quella parte di lavoro «improduttivo» che viene finanziato a partire dal plusvalore prodotto dalla società nel suo complesso, e che pertanto fa diminuire la produzione di plusvalore disponibile per l'accumulazione di capitale - è la seguente (HEINRICH 1999: 4):
«La crescente capacità produttiva garantisce che la massa di plusvalore prodotta da una forza lavoro "produttiva" crea continuamente e che, pertanto, una forza lavoro "produttiva" riesce a mantenere una massa continuamente crescente di lavoro improduttivo».
Sul piano della ricchezza materiale - a cui si riferisce esclusivamente la crescente capacità produttiva - questo argomento (in quanto possibilità) potrebbe naturalmente essere corretto, solo che non ha niente a che vedere con la "massa di plusvalore prodotta da una forza lavoro produttiva", dal momento che questa massa viene misurata solo in base al tempo di lavoro impiegato, ragion per cui la massa di plusvalore prodotta in un giornata di lavoro, da una forza lavoro, per quanto produttiva possa essere, non potrà mai essere maggiore di quella di una giornata di lavoro.
Lo stesso errore, forse tratto da Heinrich e solo portato fino all'estremo, lo si trova in ISF [Initiative Sozialistisches Forum] (2000):
«Supponiamo che tutto ciò che una simile società abbia bisogno, a livello di attrezzature, grazie all'enorme produttività del lavoro possa essere prodotto con un minimo sforzo, diciamo, che equivalga in tutto il mondo a 100.000 ore di lavoro nell'anno X. Che cosa impedisce che così venga generata una massa di plusvalore che possa permettere di coprire, a livello produttivo in questo anno X, tutto il denaro che 10 miliardi di fornitori di servizi potrebbero forse risparmiare e mettere in conto agli interessi? Denaro che sarebbe tuttavia concentrato in meno di 10 miliardi di mani, diciamo 10 milioni, e che potrebbe essere in parte usato come capitale speculativo finanziario, ma anche in parte come capitale competitivo rispetto ai produttori di plusvalore che lavorano quelle 100 mila ore - in modo da poter così assicurare il potere di metterlo a disposizione della società? E ad essere in discussione è proprio questo potere di mettere a disposizione della società, dal momento che in fondo continuiamo a vivere ancora in una società di classe, sebbene che le classi. come dice Adorno, siano evaporate, realizzando un "concetto super-empirico". Le relazioni di dominio continuerebbero a dipendere dal potere di disporre di questo lavoro, il quale produce le attrezzature in una società così costruita; e in questa lo fa molto di più ancora.»
Tralascio la questione di sapere se una simile società sarebbe o meno possibile, ma di sicuro non sarebbe capitalista, vista l'impossibilità di valorizzazione del capitale: quei 10 milioni, nelle cui mani si dovrebbe concentrare il capitale, non potrebbero sfruttare più di 100 mila ore di lavoro l'anno, vale a dire, ciascuno di essi solo una centesima parte di un'ora di lavoro, cioè, 36 secondi, il che è niente se paragonato alla giornata di lavoro di circa 8 ore, moltiplicato per circa 200 giorni di lavoro l'anno e per 10 miliardi di «mani» in grado di lavorare. Per quale motivo, qualcuno di quei 10 milioni di proprietari di capitale dovrebbe buttare i suoi soldi nel processo di produzione? Anche qui, l'errore risiede nell'equiparare le due forme di ricchezza: in fin dei conti, possiamo certo concepire che possa essere sufficiente un tempo di lavoro equivalente a 100 mila ore di lavoro l'anno, per rifornire in maniera soddisfacente una popolazione di 10 miliardi di persone. Solo che tutto ciò avrebbe smesso di passare per la cruna dell'ago della valorizzazione del valore, a causa della mancanza di una massa di plusvalore.
Non è affatto un caso che simili errori, da parte delle persone che in fondo sono quelle che conoscono meglio l'argomento, si verifichino quasi inevitabilmente quando polemizzano contro la possibilità di una crisi finale del capitalismo. Questo, perché la diagnosi del necessario verificarsi di una tale crisi - come vedremo - è dovuta essenzialmente alla differenza tra le due forme di ricchezza citate, ed al fatto che esse si differenziano sempre più. [...]
- Claus Peter Ortlieb - 12 settembre 2008 - pubblicato su Exit!
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