giovedì 24 dicembre 2020

Costruire Arche

Il mondo dopo la pandemia
- di Raúl Zibechi -

«Il periodo compreso tra il 1990 ed il 2025/2050, sarà probabilmente un periodo di poca pace, di poca stabilità e di poca legittimità», scriveva nel 1994 Immanuel Wallerstein [*1]. Nei periodi di turbolenza e confusione, si consiglia di consultare le bussole. E, come bussola, lui era una di quelle più straordinarie e, inoltre, era anche uno di noi. A rigore, i grandi eventi globali, come sono le guerre e le pandemie, non creano mai delle nuove tendenze, ma piuttosto approfondiscono ed accelerano quelle già esistenti. In questo momento, ci sono tre tendenze fondamentali - che con ogni probabilità sono emerse come risultato della rivoluzione del 1968 - le quali si stanno sviluppando in maniera formidabile:

- la crisi del sistema-mondo, con una conseguente transizione egemonica da Occidente ad Oriente;
- la militarizzazione delle società, a fronte dell'incapacità da parte degli Stati-nazione di integrare e controllare le classi pericolose;
- le molteplici insorgenze dal basso, e che in questo periodo sono l'aspetto centrale.

Coloro che ritengono che sia centrale il conflitto tra Stati, l'egemonia e la geopolitica, possono essere certi che la tendenza ascendente del blocco Asia-Pacifico - in particolare la Cina - e il declino degli Stati Uniti, durante la pandemia, stia accelerando. Il Pentagono e le altre agenzie, faranno di tutto perché si renda possibile il rallentamento di questo processo, dal momento che anche attraverso le misure più diverse - ivi compreso anche uno scontro nucleare non conclusivo che ritengono di poter vincere - non possono invertirlo. Neppure qualcosa di così sinistro può essere in grado di modificare le tendenze di fondo.
Quelli di noi che sono coinvolti nella lotta contro il patriarcato, il colonialismo ed il capitalismo non possono certo fare affidamento sugli Stati che stanno militarizzando rapidamente le nostre società. Ragion per cui, intendo concentrarmi su come l'attuale situazione influisca sulle persone/società in movimento.

In primo luogo, ad accelerarsi è la crisi della civiltà, la quale si sovrappone alla crisi del sistema-mondo: non ci troviamo di fronte ad una nuova ulteriore crisi, ma ci troviamo all'inizio di un lungo processo (Wallerstein) di caos sistemico, che verrà attraversato da guerre e da pandemie, e che durerà per diversi decenni, fino a quando non si stabilizzerà un nuovo ordine.

Questo periodo che - insisto - non è una congiuntura o una crisi tradizionale, bensì qualcosa di completamente differente che può essere definito come un collasso, a condizione che non lo si interpreti però come se fosse un evento isolato, ma piuttosto un periodo più o meno prolungato. Nel corso di questo collasso, o caos, si produce una forte concorrenza tra gli Stati ed i capitali: un violento conflitto tra classi e tra popolazioni di queste potenze che avviene nel bel mezzo di una crescente crisi climatica e sanitaria. Qui, per collasso intendo (secondo Ramón Fernández e Luis González) [*2] la riduzione drastica della complessità politica, economica e sociale di quella che è una struttura sociale.
Sistemi complessi che perdono la loro resilienza, nella misura in cui aumenta la loro complessità, per poter così rispondere alle crisi che si trovano a dover affrontare. «Le società basate sul dominio tendono ad aumentare la propria complessità come risposta alle sfide che vanno affrontando» (p.26, t.I).
Ad esempio: sprecano energia, diventano più gerarchiche e rigide e non possono evolvere. Concretamente, la grande città appare molto più vulnerabile di un quanto lo sia una comunità rurale. Quest'ultima è autosufficiente, usa l'energia che le è necessaria, non inquina, è meno gerarchica e, pertanto, è più efficiente. La prima non ha alcuna via d'uscita, tranne il collasso.

In secondo luogo, durante tutto questo lungo processo di collasso, che assomiglia ad un grosso masso che rotola giù per un pendio, piuttosto cha ad un sasso che precipita in un dirupo, si verificherà un'enorme distruzione materiale e, purtroppo, un’enorme perdita di vite umane e non umane. È questa la condizione per poter passare dal «complesso, grande, veloce e centralizzato, al semplice, lento, piccolo e decentralizzato» (p. 337, t. II). Ciò che ci tocca,  in quanto popolazioni e classi, è un processo di imbarbarimento che implica la cannibalizzazione delle relazioni sociali e nei confronti della natura. Sopravvivere come popolo, sarà altrettanto difficile di quanto lo per fu quelle antiche popolazioni originarie nei confronti dell'invasione coloniale spagnola. Un cataclisma che venne chiamato «pachakutik».

La terza questione, riguarda al come agire in quanto movimento anti-sistemico. La cosa fondamentale è essere consapevoli che viviamo all'interno di un campo di concentramento: un qualcosa di evidente in questi giorni di confinamento obbligatorio. Come si può resistere e trasformare il mondo da dentro un campo? Organizzarsi, è la prima cosa. Farlo con discrezione, per fare in modo che le guardie (da destra e da sinistra) non lo scoprano; poiché si tratta di una condizione di sopravvivenza. Poi, tutto quel che ne consegue: lavorare collettivamente ( Minga [in lingua quechua “azione collettiva, comunitaria”] / Tequio [Il lavoro collettivo non remunerato che ogni indigeno deve alla sua comunità] ) comunitariamente, per garantire autonomia alimentare, acqua, salute, in una parola: riproduzione della vita. Decidere collettivamente, in assemblea.

Possiamo farlo. Lo fanno quotidianamente tutti i popoli indigeni in movimento: zapatisti, mapuche, nasa/misak, tra gli altri. Così come lo fanno i compagni delle Comunità Acapantizingo di Iztapalapa (Città del Messico), nel ventre del mostro. Possiamo costruire arche. Gli esempi non mancano.

- Raúl Zibechi -  Pubblicato il 22/12/2020 su BlogDaConsequencia -
- originariamente pubblicato su  La Jornada, il 27-03-2020.

NOTE:

[*1] - “Paz, estabilidad y legitimación”, in “Capitalismo histórico y movimientos anti-sistémicos”, Akal, 2004.
[*2] - “En la espiral de la energia”, Libros en Acción/Baladre, 2014.

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