Una bella amicizia salva la vita, letteralmente. Dopo il fumo, la scelta delle amicizie è il fattore che più incide sulla mortalità umana e il numero di amici che abbiamo interviene non solo sulla nostra felicità ma anche sul modo in cui noi e i nostri figli ci ammaleremo e moriremo. Robin Dunbar, dopo decenni di ricerche, può dirsi un'autorità in materia d'amicizia; è suo il «numero di Dunbar», cioè una misura del «limite cognitivo del numero di individui con cui ogni persona può mantenere una relazione stabile». Con questo libro, scritto con una penna felice e non accademica, Dunbar svela i meccanismi che costituiscono quel marchingegno così essenziale e infallibile che è l'amicizia, di cui diamo per scontata l'esistenza ma che non conosciamo fino in fondo e su cui si basa la nostra vita.
(dal risvolto di copertina di: "Amici. Comprendere il potere delle nostre relazioni più importanti", di Robin Dunbar. Einaudi, pagg. 440, € 21)
L’amicizia
- Se il contatto sociale diventa una rete da remoto -
di Paolo Legrenzi
Robin Dunbar, professore a Oxford, dal 2007 dirige l’Istituto di Antropologia cognitiva ed evoluzionista. L’Istituto, costruito a sua immagine e somiglianza, mostra come siano da tempo saltate le suddivisioni classiche nello studio di animali e uomini (anch’essi animali, almeno per uno psicologo evoluzionista). Dunbar è giunto a questa nuova area di ricerca dopo un lungo percorso caratterizzato sempre dall’interesse per le relazioni sociali. Dopo essersi laureato nel 1969 a Oxford, per circa un quarto di secolo Dunbar osserva i comportamenti delle scimmie, delle antilopi africane e delle capre selvagge delle isole scozzesi. Alla luce di questi studi, negli anni Novanta, Dunbar ipotizza che 150 sia la dimensione massima di una comunità di «amici», e non solo nel caso di umani. «Amico» è termine vago. L’attore e regista inglese Stephen Fry una volta spiegò nel corso di una trasmissione della BBC che Dunbar intendeva per amico «tutte le persone a cui vi avvicinereste senza esitazione per sedere loro accanto se vi capitasse di vederle alle tre del mattino nella sala d’attesa dell’aeroporto di Hong Kong». Non possiamo avere 150 amici «veri»: troppi, almeno secondo l’uso consueto del termine. Quale è allora il confine tra amico e conoscente? Dunbar ha cercato la risposta partendo sempre dall’ipotesi che 150, la quantità divenuta nota come «numero di Dunbar», sia correlata alle dimensioni del cervello di una specie. Questa ipotesi ha fatto colpo anche al di là del mondo ristretto degli specialisti. Spiegare la quantità di amicizie soltanto con le dimensioni del cervello e non con le circostanze della vita è contro-intuitivo. L’idea può piacere nella sua semplicità, ma è vaga e controversa. Il 5 maggio 2021 sulle Lettere di Biologia della Royal Society tre ricercatori – Lindenfors, Wartel, e Lind – hanno mostrato che la correlazione delle dimensioni del cervello di una specie con le sue capacità sociali è debole e, soprattutto, varia molto a seconda dei criteri e dei metodi di misura. Peraltro è vero che le comunità umane, dai villaggi del neolitico alle bande dei cacciatori nomadi fino alle unità di base degli eserciti, non hanno mai superato le dimensioni del numero di Dunbar anche da quando la tecnologia permette non solo di parlarsi ma anche di vedersi da lontano.
Proprio con l’avvento delle reti, sempre più utilizzate durante la pandemia, Dunbar ha modificato la sua ipotesi originaria sostenendo che il limite sta nella quantità di risorse. Possiamo dedicare queste risorse per molto tempo a pochi amici oppure intrattenere rapporti meno stretti con una comunità più ampia. Dunbar si rifà allo psicologo sociale Stanley Milgram che, negli anni Sessanta, mostrò che bastavano solo sei contatti per collegare due persone scelte a caso negli Stati Uniti. Chiese a residenti nel Midwest di raggiungere una persona sconosciuta, per esempio a Boston, rivolgendosi a un conoscente che, a sua volta, avrebbe chiesto di scrivere una lettera a un altro. Se conoscete qualcuno che ha a che fare con Boston gli scrivete in modo che lui possa proseguire la catena. Si scopre così che non si è mai a più di sei anelli di distanza da chiunque altro (Sei gradi di separazione, dal nome di un film di Fred Schepisi del 1993). Dunbar ha modificato l’esperimento originale lasciando libera la prima persona di inviare il messaggio a più conoscenti scoprendo, ancora una volta, che questi non superano mai i 150. Studiando le sempre più diffuse comunicazioni da remoto, Dunbar ha messo a punto un modello basato su cerchi concentrici che vanno dalle persone a cui siamo molto legati fino ai conoscenti più lontani. Sorge così la questione di quale sia il cuore di questi cerchi concentrici. Dunbar si ispira al lavoro pionieristico di Fritz Heider (Psicologia delle relazioni interpersonali, 1958) che vede nella coppia o nella triade il cuore delle reti sociali. Unità vulnerabili perché devono mantenere equilibri talvolta difficili come nei film Jules et Jim di Truffaut (1962) o nel western Butch Cassidy (1969): il triangolo finisce perché è la donna a uscire di scena.
Il libro compendia i lavori di una vita appassionata ma mostra anche i limiti nell’uso dei dati sperimentali. Poniamo che siate interessati, come Dunbar, alle differenze tra i sessi nelle relazioni sociali. Fin che studiate grandi numeri di conoscenti potete scoprire differenze statisticamente significative nei comportamenti di femmine e maschi. Non troverete però differenze assolute, che valgono cioè in tutti casi. Immaginate variabili semplici come l’altezza o il peso:gli uomini in media sono più alti e pesanti delle donne ma questa differenza non vale per ogni donna e uomo presi a caso. Analogamente, nel caso di amicizie intime, le differenze emerse da grandi numeri possono dar luogo a spiegazioni errate di un caso specifico e, più in generale, a pregiudizi e stereotipi. Per capire veramente come funzionano, o non funzionano, le amicizie, la statistica non basta: libri e film, se buoni, mostrano più cose.
- Paolo Legrenzi - Pubblicato su La Domenica del 20/2/2022 -
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