Il procedimento di Hugh Kenner, in "The Stoic Comedians", il suo libro del 1962: a partire da una problematizzazione di ordine tecnico, arriva poi ad approfondire una situazione di disperazione che è invece di ordine filosofico; in altre parole, le innovazioni tecnologiche avvenute nella dimensione della scrittura (dalla stampa a caratteri mobili, fino alla macchina da scrivere) si sono sovrapposte all'arcaica dimensione disperante relativa alla parola sulla "pagina bianca", ossia, la condizione esistenziale sempre relativa alla mancanza propria di chi si occupa di linguaggio. Cosa che, alla fine – Kenner lo fa notare già subito nella prima pagina del libro - si riduce a disporre e a mettere in ordine "ventisei lettere", sempre le stesse.
Lo stoico, intende Kenner, è colui che riconosce che il campo di possibilità a disposizione (per l'arte, per il linguaggio o per la vita) è sempre e comunque limitato; precisamente proprio come lo è la scatola a caratteri mobili dello stampatore del tempo di Gutenberg, o la «scatola tipografica delle cose dimenticate» di cui parla Sebald in "Austerlitz". Lo stoico è, in un certo senso, immune alle sorprese, sebbene non conosca in anticipo la totalità degli esiti possibili; e questo perché egli assume la limitazione materiale delle risorse disponibili per la sua arte.
I tre autori definiti come «comici stoici» - Flaubert, Joyce e Beckett - sono quelli che esplorano con "umorismo" una tale ambivalente condizione dell'arte: parlare continuamente di sé stessi, sospinti dalla consapevolezza dei propri limiti, sospettosi e diffidenti circa e proprie pretese e possibilità, senza poter tornare indietro sui passi del proprio «impegno» produttivo. Kenner descrive Flaubert come il «comico dell'Illuminismo», dei «Lumi», dell'Aufklärung, il quale, come suo «impegno produttivo», si assume il compito di categorizzare le folli imprese intellettuali delle società occidentali; Joyce, dal canto suo, viene definito da Kenner come il «Comico dell'Inventario», il cui impegno è legato alle liste, alle corrispondenze, al cosiddetto rigore «strutturale» del romanzo (uno stile, un colore, un cibo, una figura mitologica...); Beckett, infine, diventa il «comico dell'Impasse», il produttore di vicoli ciechi, che poco a poco scarnifica progressivamente il racconto (a proposito di "Aspettando Godot", al suo debutto, in teatro, nel 1953, un critico dell'epoca scrisse: «Non succede niente, due volte!»).
fonte: Um túnel no fim da luz
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