L'antimperialismo di Putin
- In che modo il regime autoritario mette in scena sé stesso come resistenza all'Occidente -
di Ernst Lohoff
«Il nemico principale si trova nel nostro stesso paese». Così scriveva Karl Liebknecht nel corso della prima guerra mondiale, con una frase che è rimasta profondamente impressa nella memoria collettiva della sinistra. La volontà, espressa dalla sinistra metropolitana, di rifiutare la mobilitazione contro il nemico esterno non è affatto casuale. La società capitalista mondiale è un ordine assolutamente imperiale, nel quale il potere e l'influenza si trovano distribuiti in maniera assai ineguale tra le diverse regioni del mondo. Di conseguenza, sono gli Stati capitalisti centrali a stabilire il ritmo per la periferia del mercato mondiale, e a determinare in genere anche i modelli egemonici di interpretazione. La guerra condotta dagli Stati Uniti contro il regime di Saddam Hussein nel 2003, ha seguito anch'essa questo ben noto scenario. Ma allo stesso tempo ha anche segnato una svolta storica. Per quanto gli Stati Uniti e i loro alleati siano riusciti in un batter d'occhio ad abbattere militarmente la dittatura irachena in via di sviluppo, la riorganizzazione politica si è tuttavia trasformata in un fiasco. La consapevolezza della missione ideologica, a partire dalla quale l'Occidente, negli anni '90, era ancora impegnato nelle sue «guerre per i diritti umani», in quanto autoproclamatosi gendarme globale, da quel momento in poi è stata via via profondamente perduta.
Non è che l'Occidente non sia più in grado di imporre su scala globale la supremazia dei suoi interessi economici! E su questo terreno, i Putin, i Lukashenko e gli Erdogan stanno ben attenti a non sfidare gli Stati Uniti e i paesi dell'Unione Europea. Ad esempio, persino i talebani vittoriosi, dopo il loro trionfo dello scorso anno, si sono subito trasformati in accattoni e hanno chiesto aiuti umanitari al governo tedesco; eppure la loro apparizione sul terreno della politica dell'identità è stata molto più marziale. Gli autocrati di ogni genere, si atteggiano a combattenti anti-imperialisti e si oppongono a gran voce a qualsiasi tutela occidentale, mentre allo stesso tempo cercano di fare affari con l'Occidente.
Se l'unico prezzo da pagare per questa strana forma di cooperazione e di confronto fosse la perdita di prestigio dell'Occidente, si potrebbe tranquillamente considerare il tutto come una farsa che non desta alcun interesse nella sinistra emancipatrice. Ma purtroppo, le vere vittime dello scontro si trovano altrove. I leader autoritari giocano secondo le regole. Essi cercano il conflitto con l'Occidente al fine di assicurarsi il controllo sul proprio popolo. Facendo ricorso al confronto con l'Occidente, i regimi di «ladri e corrotti» (secondo il modo in cui, Alexei Navalny e altri oppositori definiscono "Russia Unita", il partito al potere) cercano di riacquistare, in Russia e altrove, quella legittimità che in una società afflitta da corruzione e miseria sociale hanno perso da tempo. Si vogliono fondare le relazioni sui seguenti principi commerciali: l'UE e gli USA devono rinunciare alla retorica dei diritti umani e della democrazia, e consentire ai regimi autoritari di esercitare il loro potere e disporre liberamente del proprio popolo. Ed ecco che a quel punto, l'equilibrio pacifico degli interessi non sarà più un problema.
Nel caso dell'ex grande potenza russa, la situazione si trova a essere complicata dal fatto che il regime di Putin non si accontenta di mantenere il proprio paese chiuso in una morsa. Per riuscire a convincere la popolazione russa che la resistenza non è necessaria, il regime di Putin sta perseguendo una sorta di strategia di democrazia zero riguardo al territorio dell'ex Unione Sovietica. Per paura del contagio, la Russia di Putin si è trasformata nel covo di quella che è una controrivoluzione preventiva. Che si tratti del Kirghizistan, della Bielorussia, o più recentemente del Kazakistan, non appena una cleptocrazia dell'ex impero sovietico vacilla, la salvezza arriva sotto forma del sostegno politico russo, se non addirittura dell'esercito russo. Gli Stati baltici sono assai difficili da recuperare, e così anche l'Ucraina è sfuggita al controllo russo grazie alla «rivoluzione arancione». Pertanto diventa assai importante quanto meno destabilizzarlo. Senza il meccanismo della destituzione, la Crimea non sarebbe mai stata annessa, e oggi non avremmo lo spiegamento di truppe russe.
Di fronte al conflitto ucraino, una parte della stampa borghese scrive che si tratta di imperialismo neo-sovietico. Questa etichetta cela assai più di quanto spieghi, se non altro a causa del fatto che non è chiaro il paradosso che caratterizza la relazione tra la Russia e i suoi vicini. La spiccata aggressività della politica della leadership russa è conseguenza della debolezza del regime, e rispecchia lo stato di disfacimento della società russa. Inoltre, l'uso del termine «imperialismo» lascia intendere il fatto che la leadership russa sta cercando di prendere il controllo diretto di altri paesi, e delle loro risorse, per rafforzare il proprio potenziale economico. In realtà, il sostegno al regime bielorusso, che era stato colpito dalle sanzioni occidentali, e l'annessione della Crimea sono operazioni di sovvenzione che non hanno alcuna prospettiva di rendimento. Se la leadership russa dovesse effettivamente tentare di annettere l'Ucraina, ciò sarebbe rovinoso per la potenza occupante, perfino anche a prescindere dalle sanzioni occidentali.
Ci sono alcuni, a sinistra, che amano anche parlare di imperialismo. Tuttavia, di solito non si riferiscono alla Russia, ma piuttosto all'Occidente. Si dice che l'espansione verso est dell'UE e della NATO sia il risultato di un'occupazione pianificata del territorio. Questa interpretazione proietta quelle che sono state le regole della politica mondiale della fine del XIX secolo sull'inizio del XXI secolo. Va da sé che ci sono alcuni ambienti della NATO e dei paesi dell'UE che si trovano impegnati in un allargamento a est, e che alcuni capitali privati ne hanno beneficiato. Tuttavia, le forze motrici di questo non si trovavano affatto nei paesi metropolitani occidentali, quanto piuttosto negli Stati periferici. Nei paesi baltici e in Ucraina, la partnership junior con gli USA e con i paesi centrali dell'UE era e rimane per molti l'unica prospettiva, dopo il crollo del socialismo reale. Essa avrebbe dovuto portare a delle istituzioni corrispondenti. Ma in Occidente l'entusiasmo era tutt'altro che unanime. Nell'UE in particolare, i vecchi membri vedevano quelli nuovi come un potenziale problema. La coscienza della missione democratica, da una parte, e dall'altra il timore che l'allargamento avrebbe gravato troppo sulle casse del club, e avrebbe messo in pericolo il funzionamento dell'UE, si equilibravano.
Per quel che riguarda la NATO, con la fine del conflitto e dello scontro tra i due blocchi, essa aveva già ormai perso la sua ragion d'essere. Avrebbe pertanto dovuto sciogliersi all'inizio degli anni '90, o offrire alla Russia l'adesione. Finché continuava ad esistere come un'alleanza militare effettivamente occidentale, era logico che i paesi che cercavano di ancorarsi all'Occidente si precipitassero nella NATO. Se vogliamo parlare di imperialismo in un contesto simile, allora dobbiamo anche sottolineare la sua forma paradossale. Esso è assai meno il risultato della sete di conquista e di espansione dei vecchi membri, ma costituisca più il desiderio dei "nuovi" di venire ammessi nel club degli eletti. Nel frattempo, perfino anche gli Stati Uniti hanno seppellito il loro sogno di un mondo unipolare. Vogliono concentrarsi su quello che è il loro principale avversario, e questo non è a Mosca, ma a Pechino. La propaganda russa ci vuole spiegare che l'orientamento verso ovest degli ex paesi del socialismo reale è il risultato di una sistematica «politica di accerchiamento». In tal modo, così facendo, può pertanto fare appello all'identità nazionale, e distogliere così l'attenzione dall'effetto deterrente che il capitalismo mafioso di stampo russo alla Putin abbia su una gran parte della popolazione degli Stati ex sovietici. Tuttavia, l'approccio aggressivo del governo russo dimostra che esso incolpi l'Occidente proprio del contrario di ciò di cui lo accusa. Cerca il conflitto, solo perché il regime di Putin è ben consapevole di quanto sia limitato l'interesse dell'Occidente per quanto riguarda la sua periferia orientale. Verrà ripagata da un tale calcolo? In ogni caso, la politica tedesca non sarà per lui un ostacolo. In Germania c'è un'ampia alleanza informale e trasversale di persone che comprendono Putin.
Una sinistra radicale che entri in questa ampia coalizione per opporre resistenza al bellicismo occidentale in materia di diritti umani appare del tutto superflua. Le forze emancipatrici hanno di fronte una sfida del tutto diversa. L'universalismo dei valori occidentali, che abbiamo sempre negato, è stato abbandonato. In Occidente, sia che si vada a braccetto con Putin, o che si voglia giocare il suo gioco allo scontro entrambe le parti si ritrovano unite da un atteggiamento di realpolitik. Aver rinunciato alla coscienza della missione liberal-democratica, lungi dal rendere il mondo un posto migliore, ne fa un luogo ancora più spaventoso. Dopo il collasso del socialismo reale, la favola liberale consisteva nel raccontare che la democrazia e l'economia di mercato avrebbero aperto, per i membri della società globale, la strada alla libertà e alla prosperità. Una tale illusione è diventata pietosamente ridicola. Ma ciò non deve però significare che la rivendicazione dell'autodeterminazione, e della partecipazione di tutti alla ricchezza della società, debba essere gettata nella pattumiera della storia.
- Ernst Lohoff - Pubblicato il 17/2/2022 su Jungle Word 2022/07 -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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