La fortuna critica di Minuetto all’Inferno fu irta di ostacoli. Avversato da Elio Vittorini che dirigeva da Einaudi la collezione dei “Gettoni” dove poi uscì nel 1956, nei tre anni precedenti era passato al vaglio di Calvino, Fruttero, Fenoglio e altri lettori editoriali rischiando di venir rispedito al mittente inedito. Vinse lo Strega per l’opera prima e la buona stella del «giovane in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo» sfolgorò quella sera. Qualche altra volta si sarebbe oscurata per ribrillare ancora mentre la vita di quel giovane, che nel frattempo non era più tale, correva verso il suo fine e la sua fine. Chi legge o rilegge, oggi, questo romanzo opera prima vive la doppia esperienza di transitare per un’epoca senza contatto col mondo odierno incontrandovi tipi dalla consistenza di larve, ma anche di scovare lì dentro gli indizi, i presagi dello scrittore e del pensatore che Zolla sarebbe diventato quando le croste della blanda infezione che fu per lui la scrittura narrativa cascarono via. E con essa le tracce degli esercizi di pittura e al pianoforte, in una casa dove il padre faceva il pittore e la sorella, la madre e la nipote erano tutte per la musica, e degli studi di Legge e Psichiatria all’Università di Torino.
(dal risvolto di copertina di: Elémire Zolla, "Minuetto all’inferno", Aragno editore,2004, € 14)
Lo scrittore torinese che esordì "sataneggiando"
- di Mario Baudino -
Che mai potrebbe succedere se due polarità supreme, poniamo Dio e Satana, unissero le loro forze per danneggiare (o educare, non ci sarebbe molta differenza) i protagonisti di un romanzo? È un'idea del tutto fantastica, o cela una segreta analisi del nostro vivere?
Se lo chiese un Elémire Zolla ventiduenne e ne nacque, anche a cagione di una malattia e quindi di una lunga e forzata inattività fisica, il romanzo d'esordio, destinato anche a essere sostanzialmente l'unico. Vide la pubblicazione nel 1956, dopo anni di incertezze e serrati confronti einaudiani, nella collana dei Gettoni, guidata da quel Vittorini che "Minuetto all'inferno" detestava, e dal suo punto di vista non aveva nemmeno torto. Il giovane Zolla era agli antipodi rispetto alle poetiche correnti, legate al neorealismo, in quel tumultuoso dopoguerra. Il suo era un romanzo fantastico nutrito (anche) dal decadentismo d'inizio secolo; persino, volendo, un romanzo snob, dal tono supremamente distaccato, dal linguaggio raffinato e ironico increspato da termini arcaici o semidimenticati, come il «rugliare» attribuito a un ladro o le «pareti imporrite sotto la tappezzeria», o una dantesca «burella» per indicare un cupo corridoio; ma anche solcato da potenti inserzioni di dialetto piemontese. Vinse lo Strega-giovani - un premio istituito allora per pochi anni, diverso dall'attuale - , un po’ a sorpresa. Vittorini lo aveva pubblicato con un risvolto in cui manifestava tutta la sua incomprensione per gli scrittori che «amano sataneggiare». E che Zolla «sataneggiasse» un poco, ma non nel senso dell'esoterico, del mistico e del magico, è indubbio.
"Minuetto all'inferno", prezioso incunabolo, ha avuto una lunga vita; è entrato sicuramente nel canone del Novecento, a poco a poco, talvolta ristampato. Ora lo propone Cliquot, con introduzione di Grazia Marchianò, la compagna dello scrittore, estetologa e custode della sua eredità culturale, scomparsa nell'aprile scorso: che lo situa storicamente e fornisce anche qualche materiale d'archivio sulla vicenda editoriale. Il romanzo è diviso idealmente in due parti. Nella prima si sviluppa per capitoli alterni la vicenda dei due protagonisti, Lotario e Giulia, fino al loro fatale e altero incontro, un amore ben presto privo della volgare «tetraggine della passione». Nella seconda compaiono Satana e «il Dittatore», ovvero un Dio prepotente e brutale nella tradizione gnostica e dualistica, cara all'autore, che vede la creazione come l'effetto di un demiurgo malvagio e beffardo. Satana è più simpatico: è un anziano, elegantissimo dandy che cita volentieri Seneca, mentre il Dittatore è un beone corpulento, a cavalcioni di un tavolo macchiato di birra, torso nudo e mammelle grasse, calzoni da cavallerizzo e cinturone di cuoio, circondato da una soldataglia di angeli; che semmai ricorda Mussolini. Sono com'è ovvio in conflitto (il Dittatore brutalizza Satana a più non posso) ma anche complementari. Uniscono le forze, se pure in gara tra loro, ai danni di Lotario e Giulia, per portarli alla rovina (e quindi sottometterli finalmente ai loro voleri, ciascuno dal proprio punto di vista più o meno infernale). Le invenzioni narrative e linguistiche sono veloci, imprevedibili. Il disprezzo per i luoghi comuni, per la socialità insensata, per i vizi privati e le pubbliche virtù disegna personaggi piuttosto emblematici sia di una volgarissima Torino fascista, dove anche gli intellettuali e artisti sembrano caricature, sia di un'altrettanto insignificante Italia del primo dopoguerra.
Il romanzo fu anche un gesto di ribellione. Era antimoderno e fuori tempo, ma davvero fuori da ogni tempo, al di là degli umori francesi o britannici che traspaiono nella prosa di Zolla, da Baudelaire a Huysmans, forse a un William Beckford, senza dimenticare un italianissimo Pitigrilli. Lo si rilegge ora come fosse stato ieri, o nel Settecento. Zolla, di formazione britannica, studiò legge ma divenne anglista alla scuola di Mario Praz, di cui poi ereditò la cattedra alla Sapienza di Roma: frequentava le lezioni il giovane Roberto Calasso, che poi pubblicò o ripubblicò gran parte delle sue opere per l'Adelphi, da "Lo stupore infantile" alle "Uscite dal mondo", alla "Storia dell'alchimia". La vocazione narrativa durò poco e si mutò nella saggistica dei grandi viaggi nelle religioni, nell'antropologia, nella storia della spiritualità. Ma senza questo romanzo, forse, non capiremmo del tutto i mille risvolti dello studioso scomparso nel 2002, la sua sorridente elusività, il senso del suo essere molto problematicamente anti-moderno ma attentissimo alle nuove tecnologie informatiche, la critica feroce alla borghesia, un certo straniamento, quasi una forma di sonnambulismo. Il libro, al di là dei modelli goticheggianti, ha forse un solo lontano parente in Italia, e cioè "Gli indifferenti" di Alberto Moravia, o al più, curiosa coincidenza anche temporale, un racconto di Guido Morselli scoperto qualche anno fa dall'editore De Piante, dove lo scrittore varesino, poi suicida nel '73 dopo reiterati rifiuti editoriali, immaginava un incontro segretissimo tra Stalin e il Papa Pio XII, «viventi emblemi per innumerevoli moltitudini»: quasi un minuetto a San Pietro.
- Mario Baudino - Pubblicato su TuttoLibri del 13/7/2024 -
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