giovedì 10 luglio 2025

Allucinati dalla Shoah !!

Il fantasma della Shoah
- di Sandrine Aumercier -

«Guardati allo specchio. Io sono te, sono il tuo passato, e uccidendo me stesso è te stesso che stai uccidendo.» R. Alareer

Contro il potere del significante, non c'è nulla che possa essere fatto! Già, il solo fatto di menzionare la parola “Gaza”, evoca le camere a gas.. Saranno in pochi, probabilmente, ad avere il coraggio di pronunciare apertamente questa sinistra omofonia, ma non lo faranno senza tuttavia lavorare inconsapevolmente su un'equazione assunta da alcuni secondo cui: «Gaza è Auschwitz» (Thierry Ardisson). Consentiremo che l'orrore di Gaza si lasci assorbire all'interno della memoria delle camere a gas? Che cosa hanno mai fatto i palestinesi al Cielo, per meritare che la loro tragedia venga sistematicamente giudaizzata? E cos'hanno fatto al Cielo i gassati di Auschwitz, perché ottant'anni dopo si continui ancora, nelle circostanze più remote, a invocare la loro memoria?

   Ma questa associazione è così talmente intima, così onnipresente -  da essere spesso suggerita dagli stessi israeliani o palestinesi, come fa il poeta palestinese citato in epigrafe e ucciso in un attacco israeliano il 6 dicembre 2023 – da essere in grado di dire qualcosa che noi non riusciamo a vedere. L'attuale situazione sta svelando quello che prima sembrava un'allucinazione antisemita: tutti gli abitanti ebrei e arabi della regione, la cerchia dei loro rispettivi sostenitori, dei loro osservatori e dei critici internazionali - tutti quanti noi, alla fine - continuiamo a essere allucinati dalla Shoah. La storia che gira intorno alla morte di Refaat Alareer, ci porta al cuore della questione: una "fake news" raccontata dal presidente di una ONG israeliana, secondo cui il 7 ottobre sarebbe stato trovato  un bambino «bruciato in un forno», ha raggiunto quindici milioni di visualizzazioni, e ha dato vita a una battuta di pessimo gusto, da parte di Alareer, su X: «Con o senza lievito in polvere?». Si racconta che a causa di questa battuta egli sia stato preso di mira dall'esercito israeliano. Questa storia rivela il vorticoso meccanismo che intrappola ognuno di noi in quelli che sono i significanti della Shoah. Refaat Alareer, ha altresì paragonato l'attacco di Hamas alla rivolta del ghetto di Varsavia. Si potrebbe pensare che le persone coinvolte nella tempesta appaiano accecate, ma noialtri, estranei alla scena, capiamo la differenza. Chi ci dice che non siamo noi che li stiamo trascinando in una spirale sterminatrice curando a loro spese quella che è la nostra cattiva coscienza? Se grattiamo la superficie dei dibattiti sul «conflitto israelo-palestinese», in primo luogo vedremo come stiano cercando tutti di mettersi al sicuro dallo spettro della Shoah.

   È come se ci fosse un odore che non va via, un soffio di mostruosità che si attacca alla nostra pelle. Non prendiamo posizione su Israele, prendiamo posizione sulla Shoah. Le traiettorie di dislocamento sono sottili, numerose e non immediatamente evidenti. Servono a organizzare l'intero discorso sul conflitto israelo-palestinese. Per ciò che è contemporaneo, risulta insopportabile venire associato al semplice ricordo di un evento storico che non smette mai di sfidare la rappresentazione, e "smascherare tutti i fondamenti etici e politici della modernità". Come ci si potrà mai liberare da un evento simile? Non che sia l'unica manifestazione del male moderno! Ma esso costituisce il nucleo incandescente di quella che costituisce la lunga lista di atrocità del XX secolo. Ha finito per assumere il significante paradigmatico del male radicale. Prima di allora, mai l'omicidio era stato organizzato su una tale scala e con una simile precisione industriale, eseguito con la complicità di tanti Stati e Istituzioni a partire dal semplice motivo di appartenere a un gruppo umano. E tuttavia, nel mondo laico, raramente Auschwitz viene collocato all'interno del sistema di relazioni che lo ha reso possibile. Il più delle volte si tratta di isolare Auschwitz, collocandola nello spazio evocativo di un evento separato che poi servirà come standard supremo della crudeltà umana. A partire da quel luogo speciale, qualsiasi male può essere misurato. Così, la sua eccezione metafisica non è affatto incompatibile con il suo abuso quotidiano. Si può solo trattare di sbiancare moralmente sé stessi, misurandosi con questo ideale negativo. "Il sistema che ha reso possibile tutto ciò", e il posto speciale che l'antisemitismo occupa in esso, possono quindi continuare entrambi a funzionare liberi dalla morale borghese. I rituali di memoria e di commemorazione, trasformati in mormorio universale, non attestano il fatto che la rimozione sia stata portata a compimento. Operano come un nuovo strumento di rimozione della relazione tra l'individuo e la colpa. Al servizio del regolare funzionamento della valorizzazione capitalistica - "la quale non conosce alcun limite etico" - la politica contraddice a ogni istante i suoi propri autoproclamati ideali egualitari e universalisti. Questa civiltà ha fatto crollare tutte le vecchie barriere simboliche in grado di contenere la diffusione della violenza. È questo è il motivo per cui la sua violenza è senza limiti. Ma per la soggettività borghese, i propri "valori" valgono in sé e per sé, senza che essi pregiudichino loro trasgressione strutturale. L'elenco delle fosse comuni e delle distruzioni di cui questa civiltà - e nessun'altra - si è resa colpevole può continuare ad allungarsi sempre più, all'ombra della sua immaginaria purezza: niente riesce a smentirla. Le citate dichiarazioni di intenti vengono ritenute sufficienti. Questa soggettività sopravvive ad ogni e qualsiasi orrore, attribuendoli tutti a una malvagità di fondo che viene poi incarnata in atti e in gruppi umani isolati dal loro contesto generale. Mai e poi mai, attribuisce queste distruzioni ai principi strutturanti quella civiltà di cui pretende di essere custode. Se lo facesse, Auschwitz cesserebbe allora di essere un oggetto metafisico banale e abusato e diventerebbe un elemento chiave del campo storico che include pienamente la democrazia liberale, e non la sua esteriorità. Lasciamo quindi la parola agli «ipocriti della civiltà» (Sigmund Freud), a coloro che non mettono mai in discussione i fondamenti della loro civiltà.

   Tuttavia, la coscienza borghese si misura con la colpa collettiva i cui effetti si stanno chiaramente accumulando intorno ad essa. Qualunque cosa essa sia, sa di essere legata al sistema che ha realizzato tutto questo - la colonizzazione di tre quarti del pianeta e la distruzione di tutte le società precedenti, lo sterminio industriale degli ebrei d'Europa, la bomba atomica, il riscaldamento globale, la distruzione di ogni base della vita, ecc. Sa di non essere così pura come insiste a proclamare. Freud aveva già rilevato ne "Il disagio nella civiltà" la crescita storica del senso di colpa, le cui conseguenze vedeva nello sviluppo di un “super-io culturale”. Essendo morto nel 1939, egli non ebbe l'opportunità di vivere in prima persona il parossismo dell'antisemitismo che sterminò il suo popolo (sebbene due sorelle di Freud siano morte nei campi di concentramento). Lo ha persino sottovalutato! Né vide quei patrimoni di rispettabilità che furono esibiti all'indomani della guerra per poter ristabilire i diritti inalienabili della coscienza borghese infranta. Ma egli aveva correttamente individuato la connessione - in ogni caso particolare - del super-io individuale a un super-io culturale che si trasmette attraverso il super-io genitoriale, "nonostante gli ideali genitoriali consapevoli". Ecco perché, mentre la famiglia borghese continua a vantarsi di trasmettere alla propria prole i valori cardinali dell'Illuminismo, "la formazione del super-io obbedisce invece a una logica di trasmissione completamente diversa". La negazione del coinvolgimento di tutti nel buon funzionamento della macchina di morte capitalista, si svolge dietro il paravento della moralità civile e della buona coscienza borghese. Ciascuno si vede costretto a gestire - "indossando la maschera della sua propria morale borghese" - la trasmissione di una colpa collettiva che viene continuamente negata da quella stessa morale borghese, dal momento che quest'ultima vuole una sola cosa, vale a dire, stare dalla parte giusta della storia. È facile capire il motivo per cui sia Auschwitz il punto dolente di tutta questa impalcatura. Dato che Auschwitz è diventato il paradigma del male radicale, ecco che allora tutto ciò che ricorda Auschwitz, rischia di far saltare la costruzione della morale borghese. Ma che cos'è che ricorda Auschwitz, se non l'esistenza reale degli ebrei, l'esistenza di Israele, l'esistenza del conflitto geo-politico a esso associato, e la figura contigua dei palestinesi? L'intero conflitto israelo-palestinese, così come tutto ciò che a esso è connesso, anche se rappresenta solo una contiguità immaginaria, è permeato dell'odore e della puzza del ricordo di Auschwitz. Subito, immediatamente, possiamo sostenere che Israele è nato realmente, e non in maniera immaginaria, sulle ceneri di Auschwitz, e che ha accolto molti dei suoi sopravvissuti. Ma non esiste tuttavia alcuna relazione causale diretta tra Israele e la Shoah. Qui, bisogna distinguere tra cause finali, cause materiali, contingenze storiche e, infine, quella che costituisce la loro dialettica. E se in questo insieme di "cause" si rimane interessati al segmento delle cause soggettive, ecco che allora si deve dire che prima della guerra la maggioranza degli ebrei non era favorevole alla "soluzione" sionista, e che il sionismo è stato, simultaneamente, tanto una risposta all'antisemitismo quanto alla moderna crisi di identità dell'ebraismo, così come attestato da quei cinquant'anni di dibattiti sionisti che precedettero la creazione di Israele.

   Materialmente, stavolta Israele deve la sua esistenza tanto al sionismo cristiano, alla morsa coloniale delle potenze europee nella regione così come al voto di spartizione dell'ONU, quanto alla determinazione del movimento sionista. Infine, è probabile che - senza alcuni eventi imponderabili come la caduta dell'Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale, o senza l'inaspettato voto dell'URSS alla decisione dell'ONU - questo piano di spartizione non avrebbe mai visto la luce. E cosa sarebbe accaduto allora? La negazione di questo groviglio di cause dirette e indirette, trasforma l'esame dei fatti storici in ideologia. Senza trascurare l'antisemitismo come una motivazione del sionismo, è impossibile ridurre la creazione di Israele solo a questo attore causale. Anche una volta riconosciuto dalla comunità internazionale, questo Stato non poteva fornire “sicurezza” agli ebrei se non con le armi, e quindi a prezzo di sacrifici patriottici. Infine, il fatto che la creazione di Israele abbia agito da calamita per i sopravvissuti alla Shoah o per le vittime di persecuzioni ed espulsioni dai Paesi arabi può essere tutt'al più un ripensamento. Le persone fuggono dove possono e se possono; la creazione di Israele non è, ad esempio, la prova a posteriori che avrebbero dovuto o potuto fuggire in Israele, se Israele fosse esistita prima, se non altro perché i ghetti e le leggi antiebraiche in tutta Europa hanno gradualmente reso impossibile tale fuga. Oppure, si deve difendere l'ideologia sionista secondo la quale l'unica patria legittima degli ebrei è ora Israele; e che fa giustamente replicare agli ebrei scettici che il popolo ebraico sarà ancora più vulnerabile se metterà tutte le uova in un solo paniere. Nel suo libro Être un peuple en diaspora (Essere un popolo in diaspora), Richard Marienstras ha sostenuto che è stata proprio la diaspora a permettere al popolo ebraico di sopravvivere storicamente. Per tutte queste ragioni, l'affermazione di un legame univoco tra Israele e la storia dell'antisemitismo merita di essere definita ideologica, in quanto non si basa sull'analisi di fatti contraddittori, ma sul discorso di legittimazione sionista. Questa osservazione non è rivolta ai sentimenti delle persone che possono giustamente sentirsi legate a Israele o che vi hanno trovato rifugio, per non parlare di tutti coloro che sono israeliani in virtù del fatto di esservi nati. Si tratta della traduzione di questo sentimento soggettivo in un discorso di legittimazione politica. Tuttavia, poiché questo discorso non si basa sulla legittimazione politica ma su quella morale, esso attira immediatamente la sua controparte palestinese: anche i palestinesi rivendicano l'infinita sofferenza della Nakba (termine scelto per rispecchiare la Shoah). All'ombra della Shoah, la contabilità dei pregiudizi suggella finalmente un gioco a somma zero. Il riconoscimento reciproco di due aspirazioni politiche che possono essere formulate nei termini del diritto internazionale del dopoguerra - se è ancora valido, ma questo è un altro livello di analisi - dovrebbe oggi costituire la base per una soluzione che abbia la massima probabilità di sfuggire a queste insidie ideologiche. Almeno dal punto di vista giuridico. Non si può quindi fare affidamento sul vantaggio morale di questo o quel pregiudizio storico soppesato rispetto ad altri pregiudizi, tutti segretamente tarati sul significante di Auschwitz. D'altra parte, anche se Israele è svincolata da un nesso causale inequivocabile con la storia dell'antisemitismo moderno, resta il fatto che Israele non cessa di concentrare su di sé tutte le associazioni immaginarie legate all'Olocausto. È la superficie di proiezione del complesso di colpa genocida. Appare nella coscienza collettiva, che non si preoccupa di esaminare i dettagli, come la logica conseguenza dello sterminio degli ebrei d'Europa. Questo potente legame è costituito da contiguità cronologiche, demografiche, ideologiche e affettive che continuano ad agire in tutti i tipi di configurazioni. In un certo senso, ci permette di immaginare che gli ebrei abbiano effettivamente ricevuto una qualche forma di riparazione per gli atti mostruosi che avevano subito; o che si siano dati i mezzi per evitare il ripetersi della stessa storia. Questa visione ignora completamente le realtà della diaspora ebraica e le realtà israeliane e palestinesi, dove gli individui si arrangiano con la loro storia come meglio possono – perché la vita va avanti – senza mai compensare l'irreparabile. Anche il “mai più” rimane un incantesimo senza garanzia. Si può quindi scegliere di avvicinarsi a Israele attraverso le associazioni mentali che sorgono dalle tragiche circostanze della sua creazione o, più sobriamente, di avvicinarsi al sionismo come a un'utopia nazionalista nata dal grande movimento dei nazionalismi del XIX secolo. Questa seconda opzione ha il merito di politicizzare la creazione di Israele, e di collocarla nel movimento generale delle aspirazioni alla sovranità dello Stato, senza pregiudizio delle sue giustificazioni morali. Una tale comprensione della politicizzazione implica la presa in considerazione dell'intero contesto di fattibilità e non del semplice desiderio soggettivo. Prendere in considerazione l'intero contesto di fattibilità porta agli approcci delle impossibilità sistemiche del mondo moderno, le cui promesse sono commisurate alle sue lacune. Questa scelta metodologica libera Israele dalla prelazione morale che la storia moderna degli ebrei sembra imporle. Libera anche gli ebrei dal loro status di vittime assolute, prendendoli al livello della loro molteplice azione politica e ideologica (il sionismo è solo una delle risposte politiche adottate dagli ebrei). Rifiuta di assegnare paternalmente al sionismo una quasi-irresponsabilità di principio. Infine, allenta l'analisi degli eventi in Medio Oriente dell'associazione automatica tra Israele e la Shoah, alla quale ora mostreremo a quali aberrazioni conduce. Il moderno complesso di colpa non vorrebbe niente di meglio che continuare a “inchiodare” Israele alle sue circostanze traumatiche, facendo di Israele il suo oggetto elettivo per procura. Non è solo la propaganda israeliana che continua a raccogliere tali benefici secondari. L'associazione affettiva della coscienza borghese giudica tutto ciò che circonda Israele con il metro del significante organizzatore, ma per lo più nascosto, della Shoah ; Lacan lo direbbe un significante maestro. E questo vale per tutto ciò che circonda Israele per contiguità metonimica: lo Stato di Israele, la storia del sionismo, la storia del popolo ebraico, la storia della colonizzazione, le guerre moderne, l'antisemitismo, la Shoah, gli ebrei, i palestinesi... Israele, appare allora come il supporto della coscienza storica. Si offre come un mezzo affettivo, per la coscienza borghese, per poter affrontare in una volta sola, spostata su un'unica costellazione oggettuale, la sua oscura relazione con tutti gli orrori moderni di cui la Shoah è diventata il significante cardinale. Dal sostegno incondizionato al rifiuto viscerale e passando per l'ossessione filo-palestinese, la sindrome del senso di colpa genocida viene declinata in un'ampia varietà di posizioni, il cui l'oggetto centrale ha talvolta subito trasformazioni irriconoscibili. E si avrebbe torto a  credere che la cosa risparmi gli ebrei, i quali, pur essendo vittime storiche della Shoah, non sono meno costretti a collocarsi al loro posto e secondo quelle che sono le loro presunte conseguenze.  Si vedrà pertanto un considerevole numero di ebrei dimostrare un odio per Israele che farebbe diventare verdi di invidia i peggiori antisemiti. La cosa importante è che queste proiezioni non sono mai interessate a distinguere la morale dalla politica. Quale trionfo morale più grande di quello che accusa di genocidio la vittima storica paradigmatica del genocidio; dell'israeliano identificato con i discendenti delle vittime della Shoah? Quale trionfo più grande che accusare di genocidio o di intento genocida - in uno di quei rovesciamenti morali per i quali la logica della colpa ha un segreto - il palestinese che sottoporrebbe così gli ebrei alla continuazione ininterrotta della loro storia di antisemitismo? Mentre le due tragedie continuano a rafforzarsi a vicenda in immagini speculari, offrono a ciascuno la scelta della superficie di proiezione più adatta alla propria fantasia. Una fantasia che è sempre il risultato di una serie di modifiche sintattiche, di cui Freud ha dato un esempio in Un enfant est battu. Chi viene picchiato? Chi lo picchia? Qual è il rapporto tra l'osservatore della scena e il bambino picchiato? Allo stesso modo, le inversioni e le trasformazioni dell'identificazione proiettiva legate al conflitto israelo-palestinese sono tutte radicate nella coscienza di colpa di cui il genocidio degli ebrei è il paradigma e la cui matrice è la civiltà di cui non smettiamo mai di celebrare il progresso. Non si tratta quindi mai di un sentimento “puro” di giustizia disprezzato dallo spettacolo dell'ingiustizia. Questo sentimento è esso stesso un prodotto storico che viene espresso con una sintassi che spesso rende l'oggetto irriconoscibile. Rimane inseparabile dal significante storico della Shoah, che da ottant'anni tiene in ostaggio il teatro delle operazioni in Medio Oriente.

   A partire dal 7 ottobre il fenomeno ha raggiunto il suo apice. Mostrerò una sequenza significativa. Il 2 novembre 2023, la rivista comunista in lingua francese Contretemps ha pubblicato la traduzione di una lettera di dimissioni, inviata ai suoi superiori il 28 ottobre 2023, da Craig Mokhiber, direttore dell'Ufficio di New York dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. L'autore della lettera ha definito Gaza “un caso da manuale di genocidio” e ha chiesto che venga preso in considerazione “uno dei genocidi più atroci del XX secolo, quello della distruzione della Palestina”, perché ingiustamente dimenticato. Un caso da manuale è un caso incontrato nella realtà che corrisponde esattamente al suo concetto. Secondo questo esperto di genocidi, il “genocidio palestinese” del 28 ottobre 2023 corrisponde pertanto esattamente al concetto di genocidio. Che cos'è il genocidio? È lo sterminio pianificato e sistematico di un popolo a causa della sua identità. Tre settimane dopo il 7 ottobre, la risposta israeliana alla dichiarazione di guerra costituita dal massacro di Hamas è stata quindi definita “genocidio”. Certo, questa risposta poteva già essere considerata sproporzionata, ma qual è stata la portata del giudizio che ha permesso di definirla “genocidio” in questa fase della guerra? La frase seguente lo spiega: i palestinesi hanno subito un genocidio per quasi ottant'anni. Non è la situazione attuale di Gaza a essere definita genocida, ma la creazione di Israele. L'elenco delle colpe imputate a Israele, nella lettera di Craig Mokhiber e altrove, è impressionante. Oltre a essere essenzialmente “genocida”, Israele è anche “razzista”, “imperialista”, “etno-coloniale”, “teocratica”, “apartheid”, e così via, e concentra su di sé tutte le critiche del mondo contemporaneo.

   È straordinario avere tanti orrori in un unico luogo. Se potessimo eliminare questo luogo tutto in una volta, il mondo sarebbe certamente un posto migliore. Non dobbiamo più interessarci agli orrori in cui siamo immersi e che partecipano pienamente alla distruzione del mondo. Perché, ad esempio, non strappiamo i nostri passaporti, la cui esistenza è responsabile di tanta sofferenza umana ai confini dell'Europa, dell'America e altrove? Sarebbe meglio incolpare Israele per sempre di un problema di rifugiati reso insolubile dal rifiuto dei Paesi arabi di concedere la cittadinanza ai discendenti dei rifugiati del 1948 (a seguito di una risoluzione della Lega Araba del 1952). No, davvero, l'elenco delle carenze israeliane sopra citate è ancora troppo lungo. In effetti, le parole stanno finendo. Rima Hassan, che non è nata apolide a causa di Israele, ma a causa dello Stato siriano - cosa che non dice mai - non ha forse descritto Israele come una “mostruosità senza nome”? Ora l'altra metà della sequenza. Due giorni dopo, il 30 ottobre 2023, il rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, si presentò a una riunione del Consiglio di Sicurezza con una stella gialla sulla giacca con la scritta Mai più. Per protestare contro l'imbarazzo del Consiglio di Sicurezza nel qualificare e denunciare gli eventi del 7 ottobre, Gilad Erdan sostenne quel giorno: “Come i miei nonni, e i nonni di milioni di ebrei, d'ora in poi io e la mia squadra indosseremo stelle gialle”. È stata una cosa talmente grossa che il presidente Yad Vashem lo ha rimproverato. Ciò che è considerato inaccettabile e antisemita in qualsiasi altro contesto, ad esempio nelle manifestazioni anti-Vax, qui viene sfacciatamente esibito. Con questo atto, Gilad Erdan ritiene che il 7 ottobre costituisca la continuazione dello sterminio hitleriano e invoca esplicitamente la memoria di tutti i discendenti degli ebrei europei. Così facendo, riprende il discorso dell'estrema destra israeliana, che paragona il 7 ottobre a una mini Shoah al fine di legittimare politicamente non solo l'annientamento di Hamas - impossibile con i soli mezzi militari, data la natura stessa della sua struttura terroristica - ma anche quello del popolo palestinese, che ostacola il completamento della Grande Israele. Poiché nessuna risposta può essere troppo forte, nell'immaginario nazionale israeliano, contro un evento come la Shoah. La continuazione della Shoah sotto la maschera di Hamas richiedeva quindi una risposta almeno equivalente: Gaza non è altro che un enorme cumulo di polvere, rovine e sangue, dove vagano milioni di persone affamate. Dal giorno successivo al 7 ottobre, il governo israeliano ha iniziato a tenere in ostaggio la memoria e l'identità di tutti gli ebrei del mondo, in nome dei quali viene portata avanti la sua politica. La posta in gioco sarebbe la sopravvivenza del popolo ebraico malgrado le azioni di Hamas, ma secondo la dottrina della “negazione della diaspora”, formalizzata con il Programma di Gerusalemme del 1951 e rafforzata nel 1968 al XXVII Congresso sionista, Israele è il custode - avendo fallito magistralmente - di tale sopravvivenza. Si potrebbe obiettare che il legame tra la Shoah e il 7 ottobre è soprattutto un effetto di alcune persone che hanno vissuto entrambi gli eventi, loro stessi o i loro genitori. Le associazioni individuali sono inevitabili: è impossibile impedire a chiunque di associare certe esperienze ad altre. Tuttavia, non costituiscono una prova di identità tra i due eventi che possa essere utilizzata come base per un discorso politico. Raffigurandosi come vittima di un pogrom in previsione di un genocidio, il governo israeliano ha potuto liberare gli ultimi argini e sterminare i gazari, se necessario, fino all'ultimo uomo, con tutte le giustificazioni di sicurezza, intensificando al contempo l'occupazione e l'oppressione dei palestinesi in Cisgiordania. Non è insignificante che Craig Mokhiber e Gilad Erdan si rivolgano entrambi agli organi dell'ONU, che ha creato il problema – o che ha ratificato il problema creato dal suo predecessore, la Società delle Nazioni – e che da allora ha continuato a voler ritrattare moltiplicando vane dichiarazioni. L'ONU si configura come un grande Altro che dovrebbe decidere nell'accusa reciproca di genocidio. Il "conflitto israelo-palestinese" intrappola così i suoi protagonisti e le loro camere di risonanza ideologiche globali in un'equazione vittimistica che blocca qualsiasi compromesso politico. In questo contesto, il riferimento cospirativo al genocidio nazista funge da paravento per gli atti genocidi israeliani, così come il termine "genocidio" è diventato l'invocazione rituale della sinistra morale, che sta solo aspettando di cogliere Israele nell'atto di genocidio per confermare ciò che ha sempre saputo. Intanto, i protagonisti del conflitto stanno risalendo la scala delle atrocità per mettersi al livello del loro referente storico, sotto gli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Le atrocità riecheggiavano negli infiniti commenti che questo conflitto provoca. Come in una sala degli specchi, il mondo moderno, alla fine della sua traiettoria di crisi, sta rispecchiando la propria mise en abyme sulle spalle di israeliani e palestinesi. La memoria dell'Olocausto è strumentalizzata; o per sussumere la causa palestinese sotto un'eredità nazista che traccia una linea retta tra Hitler, il Gran Mufti di Gerusalemme e Hamas (cosa che il popolo tedesco anti-tedesco fa senza complessi), o, al contrario, per fare di Israele stesso uno stato essenzialmente nazista fin dal suo primo minuto di esistenza. In entrambi i casi, l'avversario politico deve essere nazificato. Due modi che servono anche per negare le due aspirazioni alla sovranità statale in un mondo che tuttavia riconosce solo questa forma di "emancipazione politica" (checché se ne pensi altrove). Il conflitto viene così ridotto al suo minimo comune denominatore morale: il significante del genocidio. L'Olocausto continua a distillare il suo veleno attraverso l'interminabile sforzo di localizzarlo su nuovi colpevoli, se possibile legati al complesso israelo-palestinese preso come superficie sostitutiva. La mostruosità morale che perseguita la soggettività moderna è alla ricerca di un portatore di responsabilità per il quale il significante "Israele" è il centro di gravità.

   Che nessuna soluzione politica possa emergere da una simile spirale ideologica è ovvio. Ma è ancora più disastroso che i non israeliani e i non palestinesi che sono coinvolti in questa spirale non riescano a vedere il loro contributo criminale ad essa, quando non stanno nemmeno vivendo il conflitto in prima persona. D'ora in poi, il “conflitto israelo-palestinese”, comprese le sue dimensioni storiche, non dovrà essere affrontato sulla base di una legittimazione morale, diretta o inversa, legata al nazismo e ai suoi significati. Questo nonostante la schiacciante realtà dell'antisemitismo negli eventi del XX secolo. Il fatto che il sionismo abbia legittimato il suo progetto statale attraverso la persecuzione antisemita o che molti ebrei, alcuni dei quali non erano affatto sionisti, abbiano trovato rifugio nella Palestina mandataria, e poi in Israele, non deve più essere invocato come argomento politico a favore di Israele. Come tutti i migranti per secoli, gli ebrei andarono ovunque potessero. Alcuni non tardarono a partire nella direzione opposta. Conosciamo tutti il witz ebraico sulle due barche che si incrociavano in direzioni opposte nel porto di Giaffa durante il periodo mandatario, e i cui passeggeri giravano le dita sulla fronte, in segno di follia, rivolti alla barca di fronte... Quando si tratta di considerare politicamente le prove del caso, la realtà dell'antisemitismo non rappresenta alcun privilegio morale. Come è stato detto, questa storia non ha alcuna attinenza con l'obiezione palestinese: come potrebbero gli ideali politici sionisti (la fede in una soluzione sionista alla "questione ebraica") o la persecuzione e l'emigrazione ebraica giustificare l'espropriazione della sovranità degli abitanti della Palestina? È sufficiente che una coscienza palestinese storicamente arretrata nella competizione delle aspirazioni nazionali trascuri l'orizzonte politico di questa esistenza palestinese? Questo nesso storico è l'unico che merita di essere chiamato politico, perché tratta le due aspirazioni - e l'impossibilità originaria di risolverle nello stesso territorio - come ugualmente legittime da un punto di vista politico, indipendentemente dai loro discorsi di legittimità. Ma la legittimità non è fattibilità. Questa impossibilità si riflette nel fatto che lo Stato proclamato nel 1948 era di fatto uno Stato binazionale. La logica degli eventi non poteva che portare, e necessariamente, alla pulizia etnica per adeguare il concetto di Stato ebraico alla sua realtà demografica. Gli arabi palestinesi potevano solo essere sottoposti a una sovranità straniera, inevitabilmente percepita come coloniale, o essere espulsi. Non esisteva una terza possibilità materialmente realizzabile nel contesto di questo piano di spartizione. Affermare il contrario è ancora una volta puro pensiero borghese. Benny Morris è uno dei pochi storici che lo dice apertamente. Il costante riferimento alla storia nazista distorce pertanto la valutazione politica delle azioni di Israele, e delle azioni di Hamas o Hezbollah, così come distorce il bilancio di un secolo di conflitti regionali. L'Olocausto non può essere un argomento incriminante per i palestinesi, e un argomento di difesa per gli israeliani. E viceversa. Non costituisce una giustificazione morale per la creazione di Israele, dal momento che il sionismo è inteso come un movimento politico, giudicato a partire dalle sue condizioni di fattibilità politica e non dal metro di una franchezza morale fornita dalla tragedia degli ebrei d'Europa. Né questa tragedia ci permette di screditare moralmente il rifiuto del piano di spartizione del 1947 da parte dei paesi arabi, nonostante la collaborazione del Gran Mufti con i nazisti e nonostante tutte le ideologie antisemite panarabe e islamiste. Questo rifiuto merita la stessa considerazione politica dell'aspirazione alla sovranità dello Stato ebraico. O entrambe le posizioni vengono riconosciute come politicamente legittime all'interno della lotta per gli interessi capitalistici, o nessuna delle due, il che sarebbe molto curioso in un mondo organizzato da stati-nazione. Questa trattazione teorica renderà più evidente l'impossibilità storica di risolvere le due aspirazioni in questione sullo stesso territorio. In altre parole: era impossibile evitare un'ingiustizia. Da questa impossibilità reale non ne consegue che l'una o l'altra delle aspirazioni politiche sia inammissibile per il diritto, come gli eserciti di ideologi di ogni colore tendono a dimostrare. La sovradeterminazione ideologica offusca questa dichiarazione minima di trattamento politico. Sia che cerchi di costruire moralmente gli ebrei di oggi come vittime permanenti della Shoah, sia che cerchi di costruire i palestinesi come vittime permanenti, viste “come conseguenza” delle ex vittime del nazismo diventate cinici coloni (come se i palestinesi non fossero anche vittime dei Paesi arabi e dei movimenti islamisti che promettono loro la salvezza divina usandoli come scudi umani, e come se i palestinesi non fossero anche responsabili delle loro disastrose scelte politiche), non vuole avere nulla a che fare con una posizione politica sul problema. Si aggrappa al suo feticcio storico, il significante nazista. Ma non si può discutere - per una valutazione equa del conflitto - di concedere ad alcuni la franchezza morale che è negata ad altri, qualunque sia il “campo” in cui si pretende di individuare il grande tema dell'oppressione. I palestinesi non sono mai stati consultati sulla loro autodeterminazione. Per più di un secolo, sono stati coinvolti in una spirale di manipolazione araba e sionista. Ma non possono aspettarsi una soluzione politica dal perpetuarsi di una disputa che nega l'esistenza di Israele come Stato: Israele si è affermato nella pratica, si è consolidato nel tempo e ha sviluppato una cultura nazionale. L'ingiustizia su cui si basa non è più riparabile dell'ingiustizia di cui il sionismo si dichiara responsabile.

   Si può anche trovare l'esistenza di Israele odiosa e lontana da una reale emancipazione, come fanno molti ebrei nel mondo: questo è un altro discorso. Questa valutazione non cambia il fatto che il sionismo è un'espressione tra le altre delle aspirazioni nazionali moderne, che deve essere trattata alla luce della matrice politica che ha visto la sua nascita e non alla luce di principi di giustizia derivati da un'idealizzazione dell'ebraismo. Anche i palestinesi vedono allontanarsi l'evento fondante da cui traggono la loro identità politica. Anche in questo caso, la trasmissione del trauma non è una franchigia morale perpetua. In Portées du mot “juif” (2005), Badiou ha descritto la prelazione nazista del significante ebraico nel mondo contemporaneo. Ma si è limitato a diagnosticare la perversione del “nome ebraico” al servizio di una rendita morale derivata dal nazismo per meglio negare sia il carattere specificamente antisemita dello sterminio hitleriano sia l'esistenza di un significante “ebraico” che resiste alla definizione hitleriana degli ebrei. Proponendo di dissolvere il “nome ebraico” nell'universalismo paolino, Badiou non fa che ripetere la più antica accusa degli antisemiti, secondo cui gli ebrei coltivano una specificità ebraica inassimilabile, aperta o nascosta, decuplicata dalla loro storia di persecuzione. In breve, Badiou prescrive agli ebrei di essere buoni cristiani. Ma possiamo rifiutare l'eccezione morale legata al nome ebraico nel contesto di una discussione politica senza negare agli ebrei il diritto di gestire soggettivamente e nella pluralità delle risposte - come qualsiasi altra minoranza - le contraddizioni identitarie nate dall'incontro tra ebraismo e modernità. Badiou non è antisemita quando chiede la fine dell'eccezionalismo morale degli ebrei, ma quando sgombra il mondo europeo, e lui stesso con esso, dal complesso di colpa che sovra-determina il “nome ebraico” e “Israele” al di là del pathos ebraico e israeliano. Lo fa dissolvendo la storia dell'antisemitismo in quella delle esazioni razziali e smussando la dimensione paradigmatica del male radicale aperta da Auschwitz. Ma sottrarre il “nome ebraico” all'eccezionalismo morale non significa negare la particolarità della sua storia all'interno della storia europea. Si tratta di due linee di argomentazione diverse, una prescrittiva, l'altra descrittiva. È molto lontano dal concludere che la Shoah sia stata eccezionale (nel senso di un'estremizzazione del normale funzionamento capitalistico), ovvero assumere l'eccezionalismo morale di Israele o degli ebrei o dei palestinesi che, per inversione, sono talvolta visti come gli “ebrei” degli israeliani. Nella competizione per la memoria, tra la storia dell'antisemitismo e la storia della colonizzazione, l'intenzione non è quella di esaminare criticamente le rispettive storie, quanto piuttosto di assegnare il titolo di vittima assoluta a una delle figure identificative del conflitto israelo-palestinese. Questo conflitto diventa così automaticamente il tribunale della storia; per la gioia degli antisemiti e dei razzisti che tengono il conto. Il compito è ora quello di liberare i veri israeliani e palestinesi da questo sequestro collettivo. Questo vale per tutte le sinistre che non hanno altro progetto politico se non quello di dimostrare la propria innocenza morale, cospirando unilateralmente contro l'imperialismo “sionista”. E vale anche per i nuovi guerrafondai che sostengono che Israele e l'Occidente hanno il diritto di difendersi dagli “infami” - l'islamismo o il regime iraniano - a costo di gettare il mondo intero nell'inferno. La vittimologia sionista e il martirologio palestinese - e la loro miriade di inversioni e configurazioni identificative - devono essere identificati come componenti a sé stanti della mancata politicizzazione del conflitto. Alla fine, si risolvono in una lotta all'ultimo sangue che esegue nella realtà l'impossibilità inscritta fin dall'inizio in un atto di forza basato sul ricatto morale. Spetta a noi rompere con questo approccio, non cercando di legittimare gli attori, facendolo con i mezzi con cui essi stessi spiegano le loro azioni. In particolare, è sbagliato attribuire la sovra-rappresentazione geopolitica di questo conflitto all'antisemitismo onnipresente. Questa sovra-rappresentazione si presta a ogni tipo di aggancio antisemita, certo, ma è soprattutto radicata nel complesso di colpa occidentale. È tempo di portare Israele nel mainstream culturale. Ed è una rinuncia pesante per la coscienza ebraica. Ma è una rinuncia ancora più grande per la coscienza occidentale. Questa precauzione metodologica ripristinerebbe le condizioni per un trattamento politico del conflitto, depurandolo dalla riserva emotiva che deriva dalla memoria storica. Il fatto che la costellazione delle crisi mondiali metta in dubbio una tale soluzione politica, non deve portare a una cancellazione paternalistica della responsabilità degli attori. Né l'astratto israeliano né l'astratto palestinese, sono le vittime assolute a cui aspira la nostra fantasia di colpevolezza. Dovremo pertanto rinunciare all'idea di “dimostrare la Shoah” in ogni cosa che facciamo. Per noi che non viviamo lì, il conflitto deve prima essere liberato dalle grinfie di una coscienza di colpa che rimarrà aperta, incurabile. Non sarà lavata via dalla posizione che assumiamo - spesso con malizioso piacere - nel denunciare gli orrori perpetrati in loco gettando nel dibattito parole enormi che comprendiamo a malapena, che non ci costano nulla e che non rendono servizio a nessuno, come “il pogrom del 7 ottobre” o “il genocidio”. Abbiamo tutti notato il modo in cui qualcuno ha recentemente annunciato di aver finalmente adottato il termine genocidio con un tono di “ora è deciso”, come se dopo una lunga riflessione interna si fosse arreso all'orrore inconfutabile delle immagini. Dato il ruolo ideologico che questo termine svolge specificamente in questo conflitto, e che abbiamo appena delineato, è più opportuno resistere a questo appello. Alla parola è negato lo status di metafora. Significa solo sé stessa nella costellazione inconscia del discorso: “Gaza è Auschwitz”. Possiamo perciò lasciare questo termine agli storici e ai giuristi, i quali avranno il compito di descrivere i fatti. Gli eventi non sono meno mostruosi solo perché viene loro negato un termine che funge da diversivo morale e da divieto di pensare. Questa riserva - temporanea - non ci impedisce di vedere il livello stupefacente di distruzione e di barbarie scatenato a Gaza, come tenta di fare Jean-Pierre Filiu, per esempio, nel suo resoconto di una visita di un mese a Gaza alla fine del 2024, anche se non parla di genocidio. Ci vorrà molto tempo per trovare le parole e le analisi giuste per descrivere questo episodio storico in modo adeguato e dignitoso.

- Sandrine Aumercier- , luglio 2025 Pubblicato su GRUNDRISSE. Psicoanalisi e capitalismo -

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