Gangs of New York. Ebrei e neri negli Stati Uniti
- Come spiegare la convergenza, apparentemente spontanea, nei campus americani, tra antirazzismo e antisionismo? Seguendo il processo di radicalizzazione del movimento per i diritti civili, Christian Voller traccia in questo testo la genesi del legame tra Black Lives Matter e Free Palestine. La storia che segue, passa per Brooklyn, dove l'incontro tra afroamericani ed ebrei tradizionalisti ha assunto a volte la forma di una guerra tra bande -
di Christian Voller, Febbraio 21, 2024
Pochi giorni dopo i pogrom mortali avvenuti il 7 ottobre 2023, nelle università americane hanno avuto inizio delle proteste pro-palestinesi, le quali hanno riguadagnato rapidamente slancio, fino ad avere influenza internazionale. Oltre ai già esistenti "Comitati di Solidarietà con la Palestina", il tono della situazione è stato dato dai gruppi antirazzisti, i quali fino ad allora erano stati principalmente dediti alla causa afroamericana. In tal modo, la liquidazione dello Stato ebraico sulle rive del Mediterraneo è diventato chiaramente una rivendicazione fondamentale per le molte iniziative che si erano organizzate sotto lo slogan "Black Lives Matter": improvvisamente, quasi subito dopo gli eventi del 7 ottobre, è stata subito presa una posizione radicale, e spesso con una totale mancanza di tatto, o addirittura di decenza. Ascoltando le loro analisi e i loro appelli, si ha come l'impressione di una connessione quasi naturale tra le lotte dei neri in America e quelle degli arabi nell'ex mandato britannico della Palestina. Questa connessione tra attivismo antirazzista e antisionismo, non è nuova, ma segna tuttavia in modo inedito le proteste e i dibattiti in corso, sia nella forma che nella sostanza, e questo è sempre più vero man mano che arriva in Europa. Tuttavia, questa connessione non è affatto evidente. Chiunque voglia capirla, deve distogliere per un attimo l'attenzione dagli attuali eventi del Medio Oriente, e guardare indietro agli anni '70. O, più precisamente, su quel periodo che ha avuto iniziò negli Stati Uniti il 2 luglio del 1964, con la firma del Civil Rights Act. Tale legge, simboleggia il perpetuarsi del successo del movimento per i diritti civili, ma il fatto che sia stata firmata, ha anche suggellato la fine di quel movimento. L'uguaglianza giuridica era stata raggiunta, e per quanto la discriminazione razziale non era affatto una cosa del passato, essa era ora vietata. All'interno del sistema liberale, ciò che doveva essere raggiunto era stato raggiunto, e il raggiungimento dell'uguaglianza così raggiunta, era ora responsabilità della polizia. Molti protagonisti e sostenitori del movimento, hanno ritenuto pertanto di aver vinto la loro causa, e di conseguenza le proteste hanno perso la loro forza. Ma altri invece dubitavano, giustamente, che, in una società prevalentemente bianca, la piena uguaglianza potesse essere raggiunta. In una tale società, e nelle sue istituzioni, il razzismo sembrava troppo radicato. Inoltre, sembrava probabile che il capitalismo di ispirazione liberal-americana avrebbe fatto sì che le persone senza capitale o ricchezza rimanessero povere per generazioni. Per i discendenti degli schiavi, in una società in cui si diventa milionari solo eccezionalmente lavando i piatti, e dove il vecchio denaro determina il destino e la politica, questo significava un notevole svantaggio strutturale.
Fu in questo contesto che il movimento per i diritti civili subì una radicalizzazione in termini di politiche identitarie; cosa che avrebbe segnato il tumulto politico e intellettuale che avrebbe attanagliato gli Stati Uniti, sulla scia della guerra del Vietnam. I gruppi del Black Power che si stavano formando in quel periodo, sostenevano di far parte della rivoluzione sociale, odiavano il liberalismo, e quello che era iniziato come un movimento per i diritti civili - e quindi come un progetto genuinamente liberal - proseguì anche con l'attivismo militante. Gli studenti bianchi, molti dei quali ebrei, mostrarono solidarietà, e formarono i Weather Underground, così come anche parti del movimento hippie impegnate nella lotta a fianco delle Pantere Nere, sotto il nome di White Panthers e inizialmente, in generale, le azioni dirette contro il governo, la polizia e l'imperialismo statunitense godevano di un notevole sostegno tra gli americani liberal. L'ebraismo liberal in particolare, che si era già dimostrato un importante alleato del movimento per i diritti civili, simpatizzava con la lotta degli afroamericani, con i quali sembrava condividere una storia di privazione dei diritti civili e di oppressione. Tuttavia, l'alleanza era fragile. Questo lo si vedeva nei quartieri poveri delle principali città americane, come New York, Chicago, Detroit o Boston. Alla fine del XX secolo, i vari gruppi della popolazione, i quali si consideravano, ed erano visti, come alieni (irlandesi, polacchi, ebrei, russi, tedeschi, ecc.), si erano in gran parte fuse con questo strato sociale bianco, al quale precedentemente solo i protestanti bianchi anglosassoni potevano appartenere. In tal modo, le loro comunità erano diventate in gran parte un affare folkloristico del passato, e questo sforzo di adattamento aveva dato i suoi frutti, per la stragrande maggioranza. Poi ebbe inizio la fuga dai centri cittadini, verso la periferia. Interi quartieri vennero abbandonati; rimasero soprattutto i poveri, e coloro che non erano pronti a mimetizzarsi in tutto e per tutto nella popolazione maggioritaria, e diventare così americani senza trattini. Questo portò a una distanza tra assimilati e tradizionalisti. Distanza, che era particolarmente netta nei circoli ebraici. Infatti, mentre per una parte significativa della popolazione ebraica l'assimilazione era direttamente correlata alla mobilità verso l'alto, e al trasferimento in quartieri migliori, i rappresentanti delle comunità dei centri urbani, molti dei quali erano dei sopravvissuti all'Olocausto, si rifiutarono di abbandonare le proprie tradizioni e rimasero riconoscibili come ebrei a partire dalla loro lingua, habitus e abbigliamento. Erano significativamente più poveri della maggior parte degli ebrei assimilati, e attiravano su di sé l'antisemitismo. Tuttavia, erano ben organizzati nei quartieri in cui vivevano. Erano sovra-rappresentati nel sistema scolastico, ben integrati nell'amministrazione e nella polizia, e molti edifici in affitto erano di proprietà di famiglie ebree. Quando iniziarono i grandi movimenti migratori intra-americani, dal Sud al Nord, e milioni di afroamericani vennero a cercare lavoro e fortuna nelle metropoli industriali del Nord, i nuovi arrivati incontrarono per la prima volta questi ebrei. Spesso, essi costituivano il più grande gruppo omogeneo di bianchi che erano rimasti nei quartieri più poveri, e sembravano prosperi quando venivano guardati dal punto di vista di coloro che venivano dal Sud, ed erano indigenti. Le stesse persone che avevano rifiutato di fondersi nella società a maggioranza bianca, ne divennero invece in tal modo i diretti rappresentanti. Harlem e Brooklyn, quartieri di New York che sono entrambi molto ebraici, e la cui popolazione afroamericana era cresciuta notevolmente dagli anni '50, sono gli esempi emblematici di questo caso. La convivenza, nel piccolo spazio di quelli che erano quartieri sempre più fatiscenti, causò ben presto tensioni, e pertanto si stabilì un antisemitismo assai specifico, che era rivolto tanto agli ebrei locali quanto ai bianchi; o visti almeno come dei potenziali bianchi. Infatti, secondo le argomentazioni, gli ebrei, in qualsiasi momento, avrebbero potuto mimetizzarsi nella maggioranza della popolazione; un privilegio che i neri non avevano a causa del colore della loro pelle.
Questo antisemitismo assai specifico - legato a un ambiente non generalizzabile, e a certe esperienze - è ben attestato. Ad esempio, l'Harlem che James Baldwin ha descritto nei suoi romanzi e saggi, e che negli Stati Uniti sarebbe rapidamente diventata una metonimia per il "ghetto", è sempre popolata da dei personaggi secondari grottescamente esagerati. Alcuni di essi possono essere troppo facilmente decifrati in quanto caricature antisemite, eppure, allo stesso tempo, devono essere intesi come un'espressione autentica dell'esperienza afroamericana di vivere ad Harlem e in dei quartieri residenziali simili. Baldwin notò e spiegò l'esistenza di un antisemitismo specificamente afroamericano, ma egli non voleva essere visto come uno dei suoi rappresentanti. Infatti, nel 1967, in «I neri sono antisemiti perché sono anti-bianchi» aveva affrontato il fenomeno. Il suo saggio attribuisce l'antisemitismo nero soprattutto all'esperienza per cui i neri, nei ghetti, venivano sfruttati dagli ebrei, i quali, nel particolare contesto storico degli Stati Uniti, sono così diventati bianchi: «Nel contesto americano, la cosa più ironica dell'antisemitismo nero è che si sta davvero condannando l'ebreo per il fatto di essere diventato un uomo bianco americano»[*1]. L'assimilazione riuscita - o potenzialmente realizzabile - all'America bianca, diventa così il motivo per un risentimento che Baldwin riproduce e critica allo stesso tempo; l'argomento decisivo è quello secondo cui la sofferenza, sofferta dagli ebrei come gruppo, è un'esperienza essenzialmente europea, e quindi, contrariamente all'oppressione dei neri, non è veramente americana: «Non è qui, e non è ora, che l'ebreo viene massacrato, e non viene mai disprezzato qui, come lo è stato lì, perché qui è un americano»[*2]. Alla fine, Baldwin rispose all'antisemitismo afroamericano per mezzo del suo universalismo, basato sul cristianesimo, e con il rifiuto di ogni razzismo: quella che si prospetta è una conciliazione, se l'America riuscirà a integrare tutti in un'identità americana in cui le sofferenze e i contributi degli afroamericani siano finalmente riconosciuti appieno. Questa enfatica professione di fede a favore del melting pot americano fu per molti un'ispirazione, ma a Baldwin valse anche aspre critiche. Nel suo libro polemico "The Crisis of the Intellectual" (1967), Harold Cruse attaccò Baldwin definendolo «un intellettuale piuttosto innocente e provinciale», il quale «si faceva in quattro per evitare di criticare gli ebrei che fingevano di essere arrabbiati con i bianchi», e lo rimprovera di minimizzare quello che in America era il potere degli ebrei. Se non in quanto «amante degli ebrei», sarebbe stato almeno come «apologeta degli ebrei»[*4], dicendo che Baldwin si sarebbe lasciato trascinare in un complotto, dove gli ebrei sono certamente impegnati per l'integrazione degli afroamericani, però con l'obiettivo di ostacolare la loro lotta per un'identità, per una cultura e, in definitiva, per una nazione propria. Quando invece essi hanno creato tutto questo per sé stessi. In quanto "nazionalismi" rivali all'interno degli Stati Uniti - il cui destino comune è quello di non essere in grado e di non voler fondersi facilmente nell'America integrata dei bianchi - gli ebrei e gli afro-americani vengono collocati agli antipodi di Cruse, la cui lotta per una propria identità collettiva è modellata in modo essenzialmente agonistico. Ma laddove l'identità ebraica, come identità culturale, sembra chiaramente definita per Cruse, e dove la fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, ha creato una patria per gli ebrei, cosa che dà loro una grande capacità di affermarsi anche negli Stati Uniti; ecco che invece l'unità culturale degli afroamericani e la loro richiesta di un proprio stato nazionale sono rimasti lettera morta. Ed è proprio la rivendicazione dell'integrazione e dell'assimilazione dei neri americani – difesa anche e soprattutto dagli ebrei americani – che, secondo Cruse, si oppone alla realizzazione di questi due ideali di unità culturale, e di uno Stato-nazione appartenente alla nazione nera. A differenza di Baldwin, il cui uso letterario di immagini e tropi antisemiti è spesso ambiguo, Cruse presenta quindi una narrazione che nel suo insieme è basata sull'antisemitismo. Sullo sfondo del pluralismo etnico a favore del quale egli sostiene, la richiesta dell'integrazione dei neri nel modo della loro assimilazione nella società maggioritaria americana può essere concepita solo come un tradimento della causa di un'identità e di una cultura risolutamente afro-americane; ed è soprattutto l'ebraismo americano che Cruse identifica come il potere sinistro che favorisce questo tradimento, proprio perché ha accompagnato e sostenuto attivamente gli sforzi per integrare i neri durante il movimento per i diritti civili. Ciò che è decisivo qui non è tanto il risentimento antisemita che Cruse nutriva chiaramente come individuo (e che è il filo conduttore della sua potente polemica), ma è piuttosto il fatto che questo risentimento si manifesta nel contesto di una concezione fondamentalmente diversa di ciò che significherebbe in definitiva avere l'emancipazione nera in America, rispetto a quella di Baldwin. Laddove l'universalismo di Baldwin rimane attaccato all'ideale della produzione di un'identità americana integrata e integrativa, Cruse rifiuta questo progetto di integrazione multilaterale a favore del pluralismo etnico.
L'antisemitismo di Cruse non passò inosservato ed è stato criticato fin dall'inizio [*5], ma la sua diagnosi della crisi del modello di integrazione americano ha funzionato da precursore. E mentre, di fronte all'approfondirsi delle tensioni tra bianchi e neri, l'universalismo "innocente" di Baldwin sembrava romantico e obsoleto, il pluralismo etnico - sostenuto da Cruse - divenne il paradigma della politica identitaria all'interno del movimento Black Power. Gruppi del nazionalismo nero, come i musulmani neri, notoriamente antisemiti, guadagnarono rapidamente sempre più influenza all'interno del movimento, e il risentimento antiebraico - che si può ritrovare in molti punti negli scritti corrispondenti - ebbe effetti che vennero avvertiti soprattutto da quegli ebrei dei quartieri poveri che, da un lato, erano riconoscibili come ebrei e, dall'altro, vivevano tra i neri, cosa che non accadeva agli ebrei assimilati delle periferie. Alla fine degli anni '60, gli Stati Uniti sperimentarono un'ondata di violenza urbana, in cui la rabbia contro la "classe bianca sfruttatrice" nei quartieri misti, veniva regolarmente scatenata contro gli ebrei e le loro proprietà. Fu in questo contesto che a Brooklyn, nel 1968, venne fondata la Jewish Defense League, oggi quasi dimenticata, ma non priva di importanza per la storia dell'ebraismo negli Stati Uniti. Raggruppato attorno al carismatico rabbino Meir Kahane - il quale rappresentava una miscela, peculiare e profondamente americana, di conservatorismo culturale, di autoaffermazione militante e di politica identitaria ebraica - si formò tutto un ambiente di giovani ebrei particolarmente bellicosi, e spesso armati. Il fatto che Kahane sia fosse ovviamente ispirato alle Pantere Nere, dalle quali aveva preso in prestito non solo il logo della sua truppa (completo di una stella gialla), ma anche gran parte della sua retorica, gli valse il soprannome di Panther Reb. Anche i suoi uomini, con i loro "jewfros" [i capelli, tagliati con i boccoli laterali e un ciuffo lasciato dietro ciascun orecchio], le giacche di pelle e i berretti, imitavano spavaldamente lo stile delle Pantere. Ma, allo stesso tempo, fu proprio con i gruppi urbani appartenenti al movimento del Black Power che, fin dall'inizio e in maniera duratura, entrarono in conflitto. La ragione di ciò, non andava ricercata tanto nel razzismo di Kahane, diventato un elemento predominante del suo pensiero solo negli anni '80, quanto piuttosto nei concreti disaccordi locali sorti intorno a questioni di politica scolastica. Nei quartieri, ora prevalentemente afroamericani, secondo la richiesta politica dei loro residenti neri, l'istruzione doveva essere fornita da insegnanti afroamericani; una richiesta che godeva di grande sostegno tra i liberali, e persino tra gli ebrei liberali. Tuttavia, la sua realizzazione si scontrò con i piani di vita e di carriera degli insegnanti che avevano precedentemente lavorato a Brooklyn e in quartieri demograficamente simili, e che erano in gran parte ebrei. Kahane si schierò con loro, e divenne il portavoce di un ambiente ebraico economicamente arretrato e tradizionalista, in nome del quale polemizzò con forza, e usando una retorica di lotta di classe contro l'establishment ebraico, che, in nome della causa nera, non si preoccupava né dei poveri né degli ebrei tradizionali che vivevano in questi quartieri e che vi si guadagnavano il pane quotidiano. Allo stesso tempo, divenne il sostenitore militante di una politica identitaria ebraica, che fu spesso accusata di essere razzista, perché gli ebrei di cui cercava di organizzare l'affermazione erano concepiti e percepiti dagli attivisti del Black Power come dei bianchi, e quindi come parte di quella società maggioritaria che doveva essere combattuta in quanto razzista. In altre parole, affermando un'identità ebraica, agli occhi degli attivisti del Black Power, gli ebrei affermavano un'identità bianca. Detto ciò, è innegabile che, nel contesto dei conflitti tra questi due gruppi, siano state pronunciate frasi razziste. Le polemiche antirazziste, presumibilmente dirette contro gli oppressori bianchi, puzzavano regolarmente di antisemitismo e, in alcuni luoghi, sfociavano in aperto antisemitismo. Questo diede a Kahane l'opportunità di indurire il suo tono, e pertanto, gli effetti dell'ebraismo combattivo che egli cercava di rafforzare, vennero avvertiti soprattutto dagli afro-americani che dovevano condividere il quartiere con i suoi chayas (in ebraico: bestie). L'alleanza tra ebrei americani e afroamericani, formatasi nella lotta comune per i diritti civili nel Sud, rischiava così di rompersi a New York. Inoltre, la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni aveva bruscamente posto il sionismo al centro dell'agitazione antimperialista, che poneva un problema a molti ebrei di sinistra, un numero significativo dei quali in seguito si schierò con i neoconservatori. I gruppi del Black Power, da parte loro, cercavano di avvicinarsi a quegli arabi che nelle grandi città americane sembravano soffrire a causa degli stessi bianchi per i quali soffrivano i loro "fratelli", vale a dire, gli ebrei. I pregiudizi razzisti e antisemiti, che in precedenza esistevano già in entrambi i gruppi della popolazione, si trasformarono in un odio aperto che esplose alla fine degli anni '60 in una serie di violenti scontri tra attivisti neri ed ebrei, che attirarono ben poca attenzione in Europa, e che nella memoria degli americani lasciarono un ricordo piuttosto pallido. Tuttavia, questi eventi non sono stati privi di conseguenze.
Kahane pose fine al suo progetto di radicalizzazione dell'identità degli ebrei americani nei primi anni '70, e chiese l'aliyah collettiva, ossia un "ritorno" a Israele: «È ora di tornare a casa» era il titolo del suo pamphlet del 1972. Avrebbe intrapreso una seconda carriera politica in Israele, agendo in modo così radicale e regolarmente razzista che alla fine venne espulso dalla Knesset, e il suo partito Kach fu infine bandito. Quindi, l'integrazione non è riuscita proprio laddove avrebbe dovuto essere realizzata senza ostacoli, secondo quelli che erano i criteri della politica identitaria. Fu così che Kahane divenne un odioso critico degli arabi in Israele, adulato da un numero relativamente piccolo di sostenitori radicali, ma bandito dalla scena politica. La lotta che condusse rimase comunque americana. Profondamente radicato, non nell'Israele liberale, ma piuttosto nell'identitaria Brooklyn degli anni '60, Kahane non è stato in grado di inserirsi nel panorama politico dello Stato ebraico; e questo vale ancora oggi per i suoi sostenitori, i quali sono in gran parte immigrati ebrei dagli Stati Uniti. L'eredità ideologica del Panther Reb, viene ora gestita dai coloni armati e molto aggressivi della Cisgiordania, dei quali parlano (o dovrebbero parlare) coloro che denunciano la violenza dei "coloni": «Kahane aveva ragione» era e rimane ancora il loro grido di battaglia. Tuttavia, in Israele i kahanisti sono sempre stati un gruppo radicale, in gran parte isolato, con cui nessuno che abbia a cuore la cultura politica del paese vorrebbe avere a che fare. Solo Benjamin Netanyahu ha cercato di avvicinarsi a loro, per rimanere al potere, e dopo la nomina di Itamar Ben-Gvir – il cui partito Otzma Yehudit è nella tradizione diretta del partito Kach di Kahane – a ministro della sicurezza, in Israele si è parlato di un ritorno al kahanismo e si è parlato dei pericoli che derivano dalla sua partecipazione al governo. Negli Stati Uniti, invece, sono molti i rappresentanti e sostenitori del movimento Black Power che sono riusciti a fare carriera nelle università. La loro integrazione ha avuto un tale successo, e durata, che la retorica e gli strumenti analitici emersi in uno specifico clima socio-storico ora giocano un ruolo importante nelle discipline umanistiche che erano tradizionalmente di sinistra. Quella che nell'Internazionale Antimperialista è stata discussa come la "Teoria della Triplice Oppressione", si sta ora riunendo a una teoria della inter-sezionalità, e quello che allora era chiamato il Tricontinente, ora è diventato il Sud del mondo; quindi non una categoria geografica, ma politica. Le forme di azione e di protesta del movimento "Free Gaza", anche se ora mediatizzate digitalmente, ricordano anche gli anni '70, se non altro per il diffuso ritorno della kufiya come simbolo della lotta dei popoli oppressi. E anche l'antisemitismo (legato a Israele), che ha sempre avuto un rapporto intimo con l'antimperialismo militante, ora è tornato, e per gran parte della sinistra americana non sembra rappresentare un problema. Pertanto, è prendendo in considerazione la radicalizzazione identitaria del movimento per i diritti civili durante gli anni '70 - e le sue ripercussioni accademiche - che oggi possiamo spiegare le proteste impetuose, e troppo spesso ostili, contro gli ebrei, nelle università americane; e criticarle. Ma l'accoglienza euforica che esse hanno ricevuto nel frattempo in tutta Europa, e in gran parte dei suoi circoli accademici attivisti, è tuttavia spaventosa. Vengono ripresi qui dei modelli di interpretazione e delle forme di azione, la cui manifesta ingenuità si nutre di uno spazio di esperienza fondamentalmente diverso da quello dell'Europa del post-Olocausto. In effetti, negli Stati Uniti, l'assimilazione ha effettivamente offerto agli ebrei l'opportunità di essere in gran parte risparmiati dalla discriminazione, per quanto l'antisemitismo fosse, e rimane, diffuso. In Europa, d'altra parte, l'integrazione degli ebrei attraverso l'assimilazione ebbe in gran parte successo, ma venne cancellata a tradimento. Senza alcuna protezione, gli ebrei europei sono stati sottoposti a una razzializzazione che aveva un solo scopo: identificare tutti gli ebrei, trovarli e inviarli alla "Soluzione Finale".
Kahane (nella foto), che è nato a Brooklyn nel 1932, e non ha vissuto nulla di tutto questo in prima persona, era consapevole del rischio. Il suo programma militante si identificava con il regolare riferimento ad Auschwitz e ai pogrom nell'Europa dell'Est, e si presentava come un manuale di autodifesa al servizio di una vita ebraica, che egli vedeva costantemente minacciata, anche in America. Per gli attivisti del Black Power, d'altra parte, le cose sembravano diverse. Gli ebrei che erano riusciti ad arrivare in America, erano stati salvati da quella stessa nazione che opprimeva i neri come gruppo, e dalla cui ricchezza rimanevano in gran parte esclusi, nonostante l'uguaglianza legale. Ciò sembrava loro tanto più ingiusto, in quanto anche loro avevano pagato un considerevole tributo di sangue nella lotta contro il Terzo Reich e le potenze dell'Asse. Agli occhi del Black Power, anche se in Europa erano stati perseguitati e quasi sterminati, in America gli ebrei erano diventati bianchi, o almeno potevano diventare bianchi. La Jewish Defense League apparve quindi come una banda di teppisti bianchi, il cui comportamento era suscettibile di evocare ricordi dei linciaggi del Sud; una visione comprensibile delle cose, nella misura in cui nulla era mai accaduto agli ebrei negli Stati Uniti che potesse essere paragonato in alcun modo all'odio razziale che gli afroamericani avevano sperimentato e a cui erano ancora esposti negli anni '60. Mentre l'assimilazione non solo non è riuscita a proteggere gli ebrei europei dalla discriminazione a lungo termine - ma è finita nei campi di sterminio - ha avuto un tale successo in America che oggi si potrebbe pensare che l'antisemitismo non sia altro che un'innocua variante del razzismo "intra-bianco". Nei paesi della Shoah, dove non c'è quasi più vita ebraica, rispetto a quella che c'era prima del 1945, questo sembra utopico ed è comprensibile che molti vogliano credere in tale utopia. Tuttavia, bisogna diffidare. Il vento fresco che soffia da ovest dovrebbe essere accolto con il massimo scetticismo, visto quello che è successo qui. Non è questa colpa tedesca, di cui si parla tanto oggi [*6], a obbligarci a preservare la nozione di antisemitismo così com'è stata sviluppata paradigmaticamente nella teoria critica di Adorno, Horkheimer e altri, o di Jean Amery [N.d.T.: vedi il suo “Il Nuovo Antisemitismo” Bollati Boringhieri], e a difenderla, se necessario, contro l'antirazzismo di ispirazione americana; ma è piuttosto, semplicemente, l'esperienza europea: «è successo, e quindi può succedere di nuovo» (Primo Levi).
- Christian Voller - Pubblicato il 21 febbraio 2024 su K.Le juifs, l'Europe, le XXI° siécle -
NOTE:
1 Baldwin, James, "Negroes Are Anti-Semitic Because They're Anti-White" (Orig.: New York Times Magazine, 9 aprile 1967), in: Ders, Collected Essays, a cura di Toni Morrison, New York, Literary Classics of the United States, 1998, pp. 739-748, qui p. 744. [Nel contesto americano, l'aspetto più ironico dell'antisemitismo nero è che l'uomo nero sta in realtà condannando l'ebreo per essere diventato un uomo bianco americano.]
2 - Ivi, 745 [«Non è qui, né ora, che l'ebreo viene massacrato, e non è mai disprezzato qui, come lo è lì, perché è un americano.»]
3 Cruse, Harold, "La crisi dell'intellettuale" (1967), The New York Review of Books, New York 2005, p. 498. [Un intellettuale piuttosto innocente e provinciale, che si fa in quattro per evitare di criticare gli ebrei fingendo di essere arrabbiato con i bianchi.]
4 Ivi, p. 482
5 Robert Chrisman, per esempio, ha osservato sarcasticamente: «Una cospirazione comunista, ebrea, sionista liberale e integrazionista ha soffocato la cultura nera per sessant'anni, dice Cruse». Da: Chrisman, Robert, "La crisi di Harold Cruse", in: The Black Scholar, novembre 1969, vol. 1, n. 1, La cultura della rivoluzione, pp. 77-84, qui p. 79.
6 Lo slogan "Liberare Gaza dalla colpa tedesca" è arrivato per la prima volta all'attenzione del pubblico nell'autunno del 2022 nell'ambito della controversia che circonda documenta 15, e da allora è diventato un punto fermo della cultura di protesta filo-palestinese in Germania e oltre. Esso sostiene che un senso di colpa specificamente tedesco, nato dall'Olocausto, avrebbe portato la Repubblica Federale a stringere un'alleanza indissolubile con Israele, in conseguenza della quale i palestinesi, "vittime delle vittime", sono diventati i soggetti di un'oppressione in cui si perpetua la colpa tedesca. Questo slogan è stato fortemente criticato in Germania, anche e soprattutto tra la sinistra, per aver ripreso e variato un topos che già dagli anni '50 occupa un posto centrale nel repertorio retorico dell'estrema destra, vale a dire la richiesta di porre fine al cosiddetto "culto della colpa". Questa richiesta è stata recentemente riaffermata con veemenza dall'ala völkisch dell'Alternative für Deutschland (AFD), ma risale alla formazione della Nuova Destra negli anni '50. Tuttavia, il discorso sulla colpa tedesca è sbagliato, anche perché si rivolge a un senso di colpa soggettivo e diffuso, e quindi livella l'esperienza oggettiva dell'Olocausto, compresa la responsabilità che ne deriva – e non solo per la Repubblica Federale di Germania.
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