Heidegger senza Heidegger
- Hannah Arendt viene considerata come l'autorità morale della sinistra, e Martin Heidegger un simpatizzante nazista compromesso. Insieme, condividono quello che può essere definito come un "aristocratismo radicale". Chi non vuole ammettere questa scomoda relazione, sostituisce l'analisi critica con l'adorazione cieca. -
di Emmanuel Faye
L'opera di Hannah Arendt, è interessante per l'importanza che essa attribuisce a quello che oggi appare come uno dei problemi più importanti del nostro tempo: quello dei rifugiati. Il modo in cui riesce a mettere la sua formazione letteraria al servizio delle sue descrizioni storiche, conferisce a quest'ultime una certa forza suggestiva. Ed è la vivacità della sua mente a rendere così stimolante la lettura di una tale corrispondenza. Il suo lavoro appare caratterizzato da una notevole contraddizione: sebbene abbia colto il nazionalsocialismo in quanto fenomeno totalitario, ha anche difeso il suo ex maestro e amante Martin Heidegger malgrado la sua fondamentale approvazione del nazionalsocialismo. Nel 1953, Heidegger aveva pubblicato - senza commentare - le parole della «verità interiore e della grandezza» del movimento nazionalsocialista, e nei "Quaderni neri", pubblicati nel 1939 - vale a dire dopo i pogrom della cosiddetta Kristallnacht del novembre 1938 - esprimeva la sua «essenziale affermazione» del movimento nazionalsocialista. Come si spiega questa contraddizione? Nel mio libro, "Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée", ho cercato di rispondere a questa domanda. Una sua recensione, pubblicata sulla Süddeutsche Zeitung dal biografo ed editore di Arendt, Thomas Meyer, mi è sembrata insolitamente feroce. Ha descritto il mio lavoro come un «grottesco fraintendimento». Lo stesso Meyer però non entra affatto nell'oggetto centrale della mia indagine, vale a dire, il rapporto intellettuale tra Arendt e Heidegger. Ma a causa della sua importanza per la storia delle idee nel XX secolo, tuttavia, questa domanda merita una discussione il più obiettiva possibile.
Sulla scia di Martin Heidegger
Cosa ha detto la stessa Arendt a proposito di questa relazione? Nel 1960, scrisse a Heidegger per dirgli che il proprio libro "Vita activa" gli doveva «praticamente tutto, sotto ogni aspetto». L'antropologia sviluppata in quel testo, si basa su una distinzione priva di qualsiasi fondamento filologico, ovvero, quella tra zôê e bios (gli antichi termini greci per "vita"). Tale distinzione, risale alla conferenza che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre invernale del 1924-25, sui Sofisti di Platone, alla quale partecipò Arendt, la quale all'epoca aveva appena 18 anni. La contrapposizione -, fatta da Arendt tra zôê, da un lato, cioè la vita puramente animale condotta da delle persone che si preoccupano esclusivamente del loro sostentamento, e bios dall'altro, il quale si riferisce invece alla vita umana nel senso proprio che si realizza nell'azione - è heideggeriana e viene "adottata" da Arendt. Nel "Festschrift", pubblicato nel 1969 dalla Klostermann Verlag in occasione dell'80° compleanno del pensatore di Friburgo, Arendt scrive: «Mi sembra che la vita e l'opera [di Heidegger] ci abbiano insegnato che cos'è il PENSARE». In tal modo, si congeda dalle sue chiare riserve, espresse nel 1946 nei confronti del suo impegno nazionalsocialista. Nella sua opera pubblicata postuma, "La vita della mente", nel 1978, rimasta incompiuta, sottolinea: «Mi sono chiaramente unita a coloro [intendendo Heidegger] che da tempo cercano di smantellare la metafisica e la filosofia e tutte le sue categorie [...]». In questo libro, riprende il motivo della fine della filosofia di Heidegger, che appare nei "Quaderni neri", in una nota del 1934 e ricorre poi, nel 1947, nella sua lettera sull'umanesimo. Le connessioni sono concise. «La domanda è cosa pensa la stessa Arendt di questo aristocratismo radicale, che disumanizza una parte dell'umanità che lei chiama animal laborans».
Ma che cosa intendono Arendt e Heidegger per "pensare", e che cosa significa e che cosa implica la loro impresa di "smantellamento": Heidegger parla di "distruzione", Arendt di "smantellamento"? In particolare, esamino il contrasto di Arendt tra Heidegger, da un lato, che lei stilizza come paradigma del "pensiero", ed Eichmann (uno dei principali responsabili della "Soluzione finale"), dall'altro, al quale attribuisce la "sconsideratezza". Questa contraddizione contribuisce indirettamente a esonerare Heidegger dal suo impegno nazionalsocialista. Tuttavia, Meyer non menziona questa analisi, sebbene essa sia centrale nel mio lavoro.
Una politica aristocratica
Meyer, invece, nella sua critica si concentra su quattro aspetti. Da un lato, mi accusa di fare confusione tra un frammento di Eraclito e il pensiero di Arendt. Scrive Arendt in "Vita activa": «La distinzione tra l'uomo e l'animale si manifesta nella stessa specie umana: soltanto i migliori ("aristoi"), che costantemente provino di essere i migliori ("aristeuein", un verbo che non ha un valido equivalente in nessun'altra lingua) e che "preferiscano una fama immortale alle cose mortali", sono realmente umani;». Le virgolette indicano che Arendt lì sta usando una citazione. Se non faccio notare che la citazione proviene da un frammento di Eraclito, ciò è perché tutto il mio libro è un commento analitico alle opere di Arendt, nel quale cito tutte le prove che consentono ai lettori di fare riferimento al testo originale. In questo contesto, va notato che Hannah Arendt non parla semplicemente come una storica, ma spesso si affida all'autorità dell'antichità per legittimare le proprie tesi. Si parla di un'antichità ricostruita, da una Grecia repubblicana ai giorni nostri, ma non senza la già citata distinzione tra "vita animale" e "vita politica (bios politikos)". Ciò vale anche per il passo appena citato, in cui si riferisce a Eraclito quando scrive che «la distinzione tra uomo e animale [...] passa attraverso la stessa specie umana». Ciò solleva la questione di come la Arendt stessa si ponga riguardo a questo aristocratismo radicale, il quale alla fine disumanizza una parte dell'umanità, e che lei chiama animal laborans. Naturalmente, questi passaggi possono essere visti come un atto d'accusa contro la società lavorativa e la sua "alienazione". Ma poi, però, bisogna anche ammettere che questa accusa rimane assai a doppio taglio. E ciò dal momento che Hannah Arendt rifiuta il concetto marxista di alienazione, e lo sostituisce con il concetto di "alienazione dal mondo", in altre parole, un termine legato ai "senzatetto" di Heidegger.
«Arendt è dell'opinione che non solo lo schiavo e il barbaro nell'antichità, ma anche l'operaio e l'impiegato siano esclusi dal regno del politico».
Nel capitolo "Aristocrazia e schiavitù" mostro come una rivendicazione aristocratica sia una componente centrale della loro antropologia. Già nel prologo di "Vita activa", Arendt lamenta la mancanza di una «aristocrazia politica o spirituale da cui possa partire una restaurazione delle altre capacità dell'uomo». Vista correttamente, l'intera teoria politica di Arendt si basa su una divisione che a sua volta si fonda sulla distinzione heideggeriana di cui sopra. Solo coloro che partecipano a quella che lei chiama una "seconda nascita", vale a dire quei pochi che hanno giustamente accesso all'azione politica – al bios politikos – meritano l'enfatica designazione di autentica umanità nel vero senso della parola. Secondo Arendt, questa visione non si limita alla polis antica, poiché è dell'opinione che non solo lo schiavo, lo straniero e il barbaro nell'antichità, ma anche l'operaio e l'impiegato nell'era premoderna e moderna siano esclusi dall'accesso allo spazio del politico. Questa separazione tra il sociale e il politico – che ha portato Hannah Arendt a rifiutare anche il movimento per i diritti civili degli afroamericani, per quanto riguarda la politica di desegregazione scolastica nel Sud – rappresenta uno degli aspetti più discutibili della sua teoria politica; insieme alla sua idea che il lavoro non contribuisca all'umanizzazione. Tutti questi argomenti vengono discussi troppo raramente, sebbene siano al centro dell'argomentazione. Il secondo punto riguarda un testo del 1932, che Arendt dedica al concetto di "comunità politica" di Adam Müller. Müller è uno dei principali rappresentanti del movimento che Carl Schmitt chiama "romanticismo politico". Così Meyer ora mi accusa di considerare il pensiero di Arendt come ciò che invece in realtà sarebbe solo una parafrasi sociologica, e meramente neutrale-descrittiva, delle idee di Adam Müller, svolta sulla scia delle opere di Karl Mannheim. Ma qui è Meyer che sta confondendo qualcosa: gli scritti di Arendt sul problema dell'assimilazione degli ebrei in Germania sono influenzati da Mannheim, ma non lo sono però i suoi testi sul romanticismo politico. Questi sono dovuti all'influenza del controrivoluzionario inglese Edmund Burke sul loro pensiero, che ora è stato ben studiato, così come alcuni dei pensieri di Carl Schmitt. Meyer, in tal modo, spazza via il terzo punto con un tratto di penna. Quello in cui dimostro che Arendt usa il termine "pluralità" per la prima volta in una conferenza del 1954, in un luogo centrale, in modo affermativo e con esplicito riferimento a Heidegger. Per ragioni di spazio, vorrei qui fare riferimento alla prefazione all'edizione tedesca del mio libro, in cui spiego dettagliatamente lo stretto legame tra il concetto di pluralità di Arendt e la concezione di comunità politica di Heidegger. Il quarto punto riguarda invece un esempio delle fonti nazionalsocialiste, su cui Arendt si basa nel suo libro del 1951, sul totalitarismo. In questo libro, esonera l'élite intellettuale del nazionalsocialismo da ogni responsabilità politica e, oltre a Carl Schmitt, elogia anche lo storico antisemita Walter Frank, specializzato nella "questione ebraica". Meyer qui si riferisce solo a una delle pagine del mio libro, in cui cito questo storico. Senza dubbio il passaggio in questione avrebbe potuto essere più dettagliato, ma Meyer ignora il nocciolo del problema: la sorprendente apertura di Arendt verso autori che sono particolarmente problematici a causa del loro compromesso politico. Ne ho discusso più dettagliatamente in altre pubblicazioni.
Heidegger senza zavorra politica
Ora, è comprensibile che la prospettiva sviluppata nel mio libro faccia infuriare Thomas Meyer. Purtroppo, però, a causa della squalifica generale. egli perde l'opportunità di affrontare in maniera obiettiva le questioni reali. Mi accusa di «rabbia vuota», ma in realtà egli proietta sul mio libro la propria rabbia causata dall'analisi critica della sua icona. Da un punto di vista sociologico, sarebbe interessante indagare come e perché Arendt sia diventata una figura talmente intoccabile, al punto che il suo pensiero difficilmente possa essere messo in discussione criticamente. Quando la stella di Heidegger iniziò a svanire, nel corso dell'opera di Hugo Ott e di Victor Farías, ecco che allora molti autori si rivolsero ad Hannah Arendt. Un heideggeriano francese ha scritto, giustamente, che allora si scoprì che lei era «Heidegger senza Heidegger» – ovvero, alcune delle sue tesi fondamentali, ma senza i suoi compromessi politici. Ci sono, naturalmente, aspetti del pensiero di Arendt che vanno oltre il suo legame con Heidegger, come la sua difesa della Rivoluzione americana, di cui parlerò più dettagliatamente in futuro, e che tuttavia non contraddice in alcun modo la sua concezione aristocratica della maturità politica. Tuttavia, il suo rapporto con Heidegger, che ha avuto un'influenza significativa sul suo pensiero, non deve essere sottovalutato. Sarebbe auspicabile che l'edizione delle sue "Opere complete", che attualmente è in fase di sistemazione grazie a un apparato critico, approfondisse questa discussione, anziché ignorarla con intento apologetico. Si tratta dei fondamenti della teoria politica e, non ultimo, di una difesa di quella tradizione filosofica che Heidegger e Arendt credevano fosse giunta al termine.
- Emmanuel Faye - Pubblicato il 20/7/2025 su https://jacobin.de/ -
Nessun commento:
Posta un commento