domenica 27 luglio 2025

Esperienze inesperite…

Dostoevskij e Blanchot: l'istante della loro morte
- Lo scrittore russo si salvò dal plotone di esecuzione dello zar; il francese, dal muro nazista. Ma l'esperienza estrema di entrambi, ha trovato nella parola un luogo per abitare, seppure instabile, mostrandoci attraverso la letteratura che tutto può finire; e, paradossalmente, ricominciare -
di João Paulo Ayub Fonseca

  L'istante dell'incontro tra la vita e la morte, o meglio, della morte stessa con la morte che viene da fuori, è intraducibile. Maurice Blanchot, membro attivo della Resistenza francese, nel 1944, sotto l'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale, fu testimone di quello che per lui divenne allora un istante senza fine. Lo stesso era accaduto quasi cent'anni prima a Dostoevskij, dopo essere rimasto intrappolato dal potere sovrano dello zar Nicola I. Davanti a Blanchot, il plotone d'esecuzione nazista; per Dostoevskij, le armi allineate delle truppe dello zar. Nel 1849, a causa della sua partecipazione al cosiddetto "Circolo Petrashevskij" (un gruppo di intellettuali rivoluzionari radicali riuniti attorno alla figura di Michail Petrashevskij), Dostoevskij era stato arrestato. Accusato di aver cospirato contro l'ordine politico dello zar Nicola I, si trovava nella fortezza russa dei Santi Pietro e Paolo, a San Pietroburgo, quando gli venne comunicata la sua condanna a morte, per fucilazione, in una pubblica piazza. Ma poi, nel momento in cui nella piazza era tutto pronto, l'esecuzione dei prigionieri venne sospesa. Come si scoprì dopo, si era trattato di una grande farsa orchestrata dallo stesso Nicola I, il cui scopo era quello di trarre profitto politico sia dalla spietata punizione comminata ai gruppi rivoluzionari sia, allo stesso tempo, dal gesto finale di sovrana benevolenza. Al momento dell'esecuzione, le armi erano già puntate in direzione dei prigionieri, e all'improvviso un rullo di tamburi: lo zar ordinò il ritiro delle truppe, e concesse la grazia. Tutto questo sarebbe stato poi convertito in esilio, in isolamento e nei lavori forzati in Siberia, laddove Dostoevskij sarebbe rimasto ininterrottamente per dieci anni. Mentre invece Blanchot, da parte sua, sfuggì per un pelo all'esecuzione sommaria per mano dell'esercito nazista. Paradossalmente, il fatto di non essere stati passati per le armi, riuscendo a sfuggire alla loro sorte all'ultimo momento, li rese per sempre prigionieri di quegli effetti che furono provocati dalla certezza di quell'istante dove la sensazione dell'incontro con la morte era rimasta presente. Per i due scrittori, l'impossibilità della rappresentazione di un tempo che è in qualche modo fuori dal tempo, ha finito per stimolare, attraverso la narrazione letteraria, la testimonianza di una profonda trasformazione. Il carattere testimoniale, materializzatosi nella scrittura, della registrazione concreta di un evento/soglia, diventa responsabile della sopravvivenza di ciò che - non potendo esistere - trova nella parola un luogo di dimora, sebbene instabile e per sempre provvisorio. [*1] 
    Ci sono almeno due dei suoi romanzi, "Delitto e castigo" e "L'idiota", in cui Dostoevskij prende in prestito il discorso dei suoi personaggi per provare, ancora una volta, a narrare l'esperienza dell'imminente esecuzione. Raskolnikov, in "Delitto e castigo": «"Dove ho mai letto", pensò Raskòlnikov, proseguendo il cammino, "dove posso mai aver letto di quel condannato a morte che, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna, la solitudine eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene, preferirebbe vivere così piuttosto che morire in quell’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità!"» [*2] Il riferimento letterario di Raskolnikov, vale a dire, quello del protagonista del romanzo "L'idiota"; il principe Myshkin , personaggio che narra un'esperienza simile, e quello dello stesso Dostoevskij, il quale, nel momento della sua condanna si dibatté nel mistero della morte, risale a un libro di Victor Hugo, "L’ultimo giorno di un condannato a morte". Questo fatto cruciale nella vita dello scrittore russo, costituisce un altro di quei casi in cui la letteratura, e la sua capacità di dire l'indicibile, presta la propria voce in quel momento acuto nel quale il reale traumatico – per Dostoevskij, "un terrore mistico" – produce uno strappo in quella che è la rete simbolica e immaginaria del soggetto. Secondo il biografo Joseph Frank: «Liov, che era con lui sul patibolo, scrisse tra il 1859 e il 1861 che "Dostoevskij era piuttosto agitato, ricordava 'L'ultimo giorno di vita di un condannato' di Victor Hugo e, avvicinandosi a Spiechniev, aveva detto: 'Nous serons avec le Christ'"». In una lettera dal carcere al fratello Mikhail, poco dopo l'esito della macabra farsa al centro di piazza Semenovsky, e la conseguente conversione della sentenza, Dostoevskij dice: «Quando guardo indietro al mio passato e penso a quanto tempo ho sprecato per niente, a quanto tempo ho sprecato per l'inutilità, gli errori, l'ozio, l'incapacità di vivere; quanto poco l'ho apprezzato, quante volte ho peccato contro il mio cuore e contro la mia anima, ecco che allora il mio cuore sanguina. La vita è un dono, la vita è felicità, ogni minuto può essere un'eternità di felicità! Si jeunesse savait! Ora, mentre cambio la mia vita, sono rinato in una nuova forma, Fratello! Giuro che non perderò la speranza e manterrò pura la mia anima e il mio cuore. Rinascerò in meglio. Questa è tutta la mia speranza, tutta la mia consolazione! La vita è vita ovunque, la vita è in noi stessi, non all'esterno. Avrò degli esseri umani intorno a me [in Siberia], e di essere un uomo tra gli uomini e di continuare ad esserlo sempre, di non perdermi d'animo e di non arrendersi, nonostante la disgrazia che può capitare: questa è la vita, questo è il suo compito, ne ho preso coscienza. Questa idea è entrata nella mia carne e nel mio sangue. Ma ho ancora il mio cuore e la stessa carne e lo stesso sangue, che può anche vivere, soffrire, desiderare e ricordare, e che, in fondo, è anche vita. On voit le soleil!»[*3]. Joseph Frank non manca di far notare che quest'ultima frase, «Tu vedi il sole», si riferisce a un frammento dell'opera di Hugo, allorché il "condannato", in attesa dell'esecuzione sulla ghigliottina, riafferma la vita di fronte alla sua imminente morte. Fu questa, una delle voci che invasero la mente dello scrittore nel momento dell'esperienza della propria condanna a morte. L'ultimo libro di Maurice Blanchot, "L'istante della mia morte", è stato pubblicato per la prima volta nel 1994, cinquant'anni dopo la sua «esperienza inesperita» [*4] di pre-morte. L'evento narrato avviene nel contesto dell'arrivo dei paesi alleati sul suolo francese, e delle successive sconfitte dell'esercito tedesco, che combatté «invano con una ferocia inutile». Un "giovane" viene catturato dai soldati guidati da un "tenente nazista" per poi essere posto contro un muro bianco, sotto il bersaglio delle armi che erano in attesa dell'ordine di sparare. Tuttavia, l'intrusione dei rumori di guerra all'interno della scena, la cui durata infinita indugiava nel cuore del personaggio, ne ha posticipato l'esecuzione: il rumore della battaglia ha disturbato la determinazione omicida del "tenente nazista", distogliendo così la sua attenzione, al punto che il giovane riuscì finalmente a scappare.

«Io lo so, io avrei saputo che colui che i tedeschi già avevano nel mirino, aspettando solo l'ordine finale, provò allora un sentimento di straordinaria leggerezza, come una specie di beatitudine (nulla, però, che assomigliasse alla felicità); una gioia sovrana? L'incontro della morte con la morte? Eviterò di analizzare questa sensazione di leggerezza. All'improvviso, forse era diventata invincibile. Morto; vale a dire, immortale. Forse l'estasi. O meglio il sentimento di compassione per l'umanità sofferente, la felicità di non essere immortale o eterno. D'ora in poi, fui legato alla morte, da un'amicizia clandestina. [...] Rimaneva però - come nel momento in cui la fucilazione era imminente - la sensazione di leggerezza che non riuscirò a tradurre: liberato dalla vita? L'infinito che mi si apriva? Né felicità né infelicità. Né assenza di paura e già allo stesso tempo l'oltre. Lo so, immagino che questa sensazione inanalizzabile abbia cambiato ciò che rimaneva dell'esistenza. Come se la morte fuori di lui potesse ormai combattere solo la morte in lui. "Sono vivo. No, sei morto".»[*5]

   Nel racconto di Blanchot, l'atto di "iscrivere" il momento della pre-morte espone quella che è una soglia insuperabile e indissolubile tra testimonianza e finzione. Alla voce del narratore, dell'uomo che ricorda molti anni dopo ciò che ha vissuto, si affiancano, via via, l'esperienza narrata, il giovane sotto tiro dei soldati schierati [*6], e l'assenza dell'autore stesso, che sta rivolgendo al pubblico la sua scrittura letteraria. L'uomo sa – "forse", sa ancora cosa è successo – nello stesso momento in cui egli immagina («lo so, immagino...») cosa sarebbe accaduto nella pelle del giovane. Il contenuto testimoniale degli scritti di Blanchot ci fa capire che sia il giovane, che era realmente una volta, e che l'"altro" che è ancora sono - malgrado un'irrimediabile discrepanza - condannati a riflettere l'uno sull'altro... all'infinito. L'uno non potrà mai sostituire l'altro; e la sintesi congiuntiva operata dall'"io" dovrà sempre fallire: «Sono vivo. No, sei morto». Nel corpo della narrazione, il dis/incontro di queste linee temporali  e l'incapacità di decidere, a volte su una (fiction), a volte su un'altra (auto-fiction), testimonia l'irriducibile presenza di «un sentimento non analizzabile». Qualcosa di indistinto, un "istante indivisibile" che resiste al cuore di ogni atto testimoniale, e che, come suggerisce Derrida, rimane tra le righe del testo e alimenta il gioco indeterminato, indecidibile, che attraversa la scrittura di Blanchot. Ciò che accadde non passa nella mente dello scrittore: «Rimane solo il sentimento di leggerezza, che è la morte stessa o, per dirla più precisamente, l'istante della mia morte d'ora in poi sempre in istanza». La risonanza tra i racconti di Dostoevskij e quelli di Blanchot è incalcolabile, e il primo sostiene anche l'osservazione che «il sentimento inanalizzabile ha cambiato ciò che rimaneva della sua esistenza». Attraverso la scrittura, l'unicità di ciascuno dei due eventi estrapola l'istante per sempre irraggiungibile e raggiunge, almeno, la capacità di un detto che può essere universalizzato. Un possibile incontro tra i due avviene nella misura in cui l'intraducibile richiede, come condizione di possibilità, lo sforzo della sua traduzione.

- João Paulo Ayub Fonseca - 13/6/2025 fonte: Outras Palavras -

Note:

[1] – Si veda la riflessione di Jacques Derrida sulla narrazione di Blanchot: "Paraggi" (Jaca Book)

[2] – Delitto e castigo.

[3] "Frank, Joseph. "Dostoevsky: A Writer in His Time "

[4] – Concetto sviluppato da Jacques Derrida nella sua lettura seminale del testo di Blanchot: «Cosa può significare un'esperienza invissuta? Come provarlo? In breve, morire diventerà possibile, tanto quanto è proibito. Ogni essere vivente ha un rapporto impossibile con la morte; al momento della morte, l'impossibile diventerà possibile come impossibile».  La lettura che segue è ispirata al saggio di Derrida.

[5] – L'instant de má mort. Maurice Blanchot. Parigi: Gallimard, 2002.

[6] All'inizio della narrazione i soldati vengono nominati come soldati tedeschi. Tuttavia, poco dopo la sospensione dell'ordine di sparare sul giovane, il lettore viene "informato" che in realtà si trattava di un esercito russo, guidato dal generale Vlassov, un traditore che si unì ai tedeschi durante la guerra. In un francese "anormale", uno degli uomini in fila concede la salvezza al giovane, facendogli segno di sparire dopo aver detto: «Noi, non tedeschi, russi». Un altro tradimento: questa volta il soldato russo tradisce sia il "tenente nazista" tedesco che il generale Vlassov.

Nessun commento: