1982. Fabrizio ha trent’anni, ha fatto parte di un gruppo rivoluzionario, rapinato banche e passato in carcere parte della sua giovinezza. Ora che si è dissociato ed è tornato libero, vive a Roma col suo nuovo amore e progetta di scrivere per il cinema una storia simile alla sua. Aurelio Miraglia, famoso attore cinquantenne, interprete dei più importanti film politici di quegli anni, diventa il suo mentore. Per Aurelio il cinema e la vita coincidono, e il sodalizio con lui si rivelerà squilibrante e pericoloso. Il nucleo centrale del romanzo ha a che fare con il passaggio d’epoca degli anni Ottanta e con la dissoluzione del paradigma rivoluzionario che ha dominato il decennio precedente. Il cinema è per il protagonista il tentativo infruttuoso di elaborare una memoria destinata a scomparire. «A un certo punto l’amnesia sarà totale. Il nastro che ha registrato le nostre storie sarà tornato al punto di partenza. E noi non ricorderemo più nulla, chi siamo stati realmente, perché abbiamo fatto certe cose, com’era il mondo prima che l’interruttore si accendesse e il nuovo programma cominciasse ad andare in onda, il programma che qualcuno avrà scritto per noi e al quale assisteremo da adesso in poi, fino a prendere sonno». Gli anni Settanta ritornano in un destabilizzante gioco di specchi tra finzione e realtà, in cui vita e cinema si mescolano senza soluzione di continuità.
(dal risvolto di copertina di: Angelo Pasquini, "Spostàti". DeriveApprodi pagg. 192 €16)
Tutte le bugie dei Settanta
- Pasquini usa la forma del romanzo per evocare la nuvola di irrealtà in cui agivano protagonisti e comparse di un’era di lotta politica e sociale -
- di Filippo La Porta -
Esiste il Grande romanzo italiano dei ’70, della rivolta sociale e della lotta politica di quegli anni?
Probabilmente no. Per ottenerlo dobbiamo comporre un collage, una antologia ideale di pagine tratte da innumerevoli libri (Doninelli, De Cataldo, Carlotto, Ravera, Rastello, Battaglini, Corrias, etc.), oltre ai romanzi su quel periodo scritti da chi è nato dopo (Rafele, Terranova, Pedullà). Non disponiamo di un’opera-mondo all’altezza di Pastorale americana di Philip Roth, che raccontava il gruppo terroristico dei Weathermen. Escludendo sia i memoir di ex terroristi, sia la pletora di saggi pur importanti sul periodo (Belpoliti, Colarizi, Gotor, Revelli…), occorre cercare entro il mosaico di queste narrazioni di fiction una verità meno ovvia di quella turbolenta esperienza collettiva. È stata una stagione di vertiginosa intensificazione della Storia, piena di slanci ideali e ingenue velleità, di generose spinte utopiche e di fantasmi ideologici (anche distruttivi), che in ogni caso ha contribuito a espandere i diritti nel nostro Paese.
In "Spostàti", pubblicato da Derive Approdi, Angelo Pasquini racconta benissimo la nuvola di irrealtà – la messa in scena di una guerra civile largamente immaginaria – dentro cui si muovevano quei «combattenti». Una nuvola addensata intorno al bisogno ossessivo del nemico, dello scontro, di una dimensione epico-vitalistica, e poi intorno a un’idea “religiosa” di Rivoluzione (che doveva redimere la totalità dell’esistenza). Dentro quella irrealtà si celava pure una promessa di liberazione («non era tutto sbagliato», dice Fabrizio), ma nessuno se ne ricorda più. Già nelle prime pagine i mezzi si sono sostituiti ai fini: i militanti parlano solo di raccogliere denaro attraverso azioni illegali. Forse la vera utopia non stava tanto nei volantini o negli slogan quanto nel modo stesso di essere delle persone e nelle loro relazioni, in quel bagliore di comunità inclusiva che solo per un attimo si poté manifestare. Il merito di Pasquini è di offrirci alcune informazioni preziose sulle abitudini e i consumi culturali dei “rivoluzionari” dei ‘70 (una cosa possibile solo a chi quegli eventi li ha vissuti, non basta l’immaginazione sociologica): a esempio il Mucchio selvaggio di Peckinpah e Giù la testa di Sergio Leone furono più decisivi di tanti pensosi documenti teorici. Due parole sulla trama.
Il protagonista, Fabrizio, esce dalla prigione dove ha scontato una pena per azioni terroristiche. Incontra una sceneggiatrice e insieme a lei scrive un soggetto su un rivoluzionario che ha compiuto il suo stesso percorso, ma che ha perso la memoria. Poi conosce Miraglia, celebre attore del “cinema politico” di quegli anni (ricalcato in parte su Gian Maria Volonté), il quale si appassiona al soggetto e decide di interpretarlo. Da qui la storia ha una intrigante torsione noir su cui non possiamo spoilerare. Le donne di Fabrizio rappresentano un controcanto della narrazione, e gli permettono di ritrovare una dimensione più autentica. Anzitutto la prima, Betta: taciturna, priva di ambizione. La sua vita si svolge in una mezza penombra, distante dalla Storia (come del resto la vita dei più). Un mix di passività e ostinazione, di fatalismo e impegno militante…
La lingua del romanzo è veloce, “di genere”. Il punto di forza è il ritmo narrativo, la qualità drammaturgica (un notevole effetto di realtà dei dialoghi: Pasquini è sceneggiatore di successo, e ha scritto innumerevoli film), la descrizione accurata delle psicologie. A un certo punto leggiamo che Fabrizio arriva a Campo de’ Fiori quando «i banchetti del mercato sono stati ripiegati». Viene in mente una poesia di Patrizia Cavalli, la quale amava scendere al mercato (abitava proprio lì) alla fine della mattinata. Così conclude il componimento: «io non cercavo frutta marcia o fresca, / io volevo soltanto la certezza / della settimana che finisce, / dell’occasione persa». Ecco, forse la gran parte di chi partecipò a quell’esperienza non voleva tanto “vincere” (ogni rivoluzione quando vince tradisce sé stessa) ma solo avere la certezza dell’occasione mancata, della rivoluzione sfiorata per un attimo.
- Filippo La Porta - Pubblicato su Robinson del 20/7/2025 -
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