Un uomo preme il grilletto di una pistola. I muscoli del suo dito si sono contratti, stimolati dall’impulso emesso da un neurone, a sua volta stimolato dal neurone precedente, e così via. Ma dove ha origine quel gesto? Come nascono le nostre decisioni? Cosa ci porta ad agire in un determinato modo? Queste domande ci catapultano dentro a una delle grandi questioni con cui l’umanità si confronta: quali siano le ragioni ultime dei nostri comportamenti, e se nella catena delle cause che li determinano ci sia spazio per il libero arbitrio. Sapolsky attinge a decenni di ricerca sulle radici biologiche del comportamento per mostrare come tutta la nostra esistenza sia una lunghissima catena deterministica di cause ed effetti, in cui non c’è la più sottile crepa in cui possa inserirsi il libero arbitrio. Accettare che siamo solo l’esito dell’interazione fra i nostri geni e l’ambiente può sembrare spaventoso; eppure, ripensare in questa chiave la nostra società e alcuni dei concetti su cui si basa (la scelta, la giustizia, la morale, la convivenza civile) può rivelarsi liberatorio, sollevandoci da responsabilità e colpe che spesso non abbiamo, e restituendoci un mondo più umano.
(dal risvolto di copertina di: ROBERT SAPOLSKY, "Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio". Traduzione di Massimo Simone e Raffaella Voi, ROI EDIZIONI, Pagine 623, €29,90)
Il libero arbitrio è solo un'illusione
- di Telmo Pievani -
Pensate di aver preso una decisione autonoma? Vi sbagliate: il libero arbitrio è un’illusione.
Robert Sapolsky, biologo, etologo e neuroscienziato di Stanford, abbraccia questa tesi spiacevolissima e la difende per oltre 600 pagine con argomenti stringenti e una vena brillante di ironia. Poiché nulla si origina dal nulla e ogni evento ha una causa antecedente, i nostri comportamenti sono determinati dal nostro cervello, dalle sue passate relazioni con l’ambiente e con gli altri sin dalla nascita, dalla storia evolutiva. Ne deriva che nessuno può essere considerato responsabile delle proprie azioni: niente più colpe né meriti, meno odio, meno gioia di punire e vendicarsi, più nessuna colpevolizzazione della malattia mentale. Ma l’autore giunge anche a conseguenze poco digeribili, come per esempio che non si possa scegliere di non essere assassini o pedofili. Molti filosofi pensano infatti che una visione del genere porterebbe al crollo delle nostre motivazioni e al collasso della società. Non certo Sapolsky, che collabora con i difensori d’ufficio nei processi. Gli abbiamo chiesto di raccontarci i risvolti di una tesi tanto radicale
TELMO PIEVANI: Chi sostiene l’esistenza del libero arbitrio, secondo lei, evoca un’entità magica sospesa nel nulla. Ma anche nella sua cascata di cause ed effetti cadiamo in un regresso infinito, fino al Big Bang. Perché preferire una serie senza fine di tartarughe piuttosto che un’ultima tartaruga su cui poggia il mondo?
ROBERT SAPOLSKY: «Invertirei la questione. La sfida è che noi non vogliamo tartarughe infinite. Non sembra intuitivamente accettabile alla maggior parte di noi. Ecco perché è così difficile convincere le persone a rifiutare il libero arbitrio».
T.P.: C’è un problema di limiti di conoscenza. Non sapremo mai perché Adolf Hitler e Francesco d’Assisi si comportarono in modo così diverso: troppe cause intrecciate. Lei scrive che il fatto di non conoscere quelle cause non deve indurci a pensare che esse non esistano. Ma perché il fatto di non conoscerle dovrebbe portarci a pensare, al contrario, che esse certamente esistono? Non dovremmo restare agnostici?
R.S.: «Rifiuterei l’agnosticismo per due ragioni: il processo scientifico ci ha mostrato mille volte che cose che inizialmente non sembravano avere una causa poi hanno rivelato di averne; nessuno ha mostrato finora un percorso plausibile attraverso il quale le leggi fisiche possano essere aggirate per produrre comportamenti senza cause».
T.P.: Oggi si tende a invocare la meccanica quantistica per giustificare le più bizzarre teorie. Cosa c’è di sbagliato in questa moda?
R.S.: «Le persone spesso hanno la necessità di decidere che qualcosa che è imprevedibile allora è anche indeterminato. Ciò di cui spesso hanno ancor più bisogno è decidere che ciò che è imprevedibile sia anche magico».
T.P.: Per lei gli atei non credono in un’entità soprannaturale che li controlla e non per questo diventano immorali e asociali. Non mi pare però un’analogia perfetta. Pensare che non esista un dio che ci controlla aumenta il senso di libertà. Se invece capiamo di non avere alcun potere decisionale, allora ci verrà il dubbio di essere solo degli automi.
R.S.: «Cito l’ateismo solo per stabilire un parallelo. Qualcuno guarda un ateo e pensa: “Se crede che non ci sia alcuna divinità che lo ritenga responsabile delle sue azioni, diventerà un mostro fuori controllo”. Tuttavia, numerose ricerche hanno mostrato che non è così. Anzi, gli atei sono in genere altrettanto etici quanto le persone molto religiose. Allo stesso modo, qualcuno guarda una persona che rifiuta il libero arbitrio e pensa: “Se crede di non poter essere ritenuto responsabile delle sue azioni, diventerà un mostro fuori controllo”. Anche se sono state condotte meno ricerche al riguardo, pare che le persone che rifiutano il libero arbitrio siano tanto etiche quanto le persone convinte della responsabilità personale, e per ragioni simili a quelle degli atei».
T.P.: Ho un dubbio sulle attenuanti in tribunale. Se non abbiamo alcun controllo sulle nostre fortune biologiche e ambientali, perché non portare la tesi alle estreme conseguenze? Anziché concedere attenuanti, bisognerebbe sempre assolvere tutti.
R.S.: «Esatto: attenuanti, colpe e assoluzioni non hanno alcun senso intellettuale né etico. Il massimo che possiamo fare è difendere la salute pubblica. Giurie, avvocati e giudici dovrebbero servire solo per: stabilire chi ha commesso il fatto (l’equivalente dei ricercatori che scoprono quale virus sia “responsabile”); decidere quale sia il vincolo minimo per mantenere la società al sicuro da quella persona (l’equivalente dei ricercatori della sanità pubblica); capire come diffondere al meglio la notizia di quel vincolo con valore deterrente (l’equivalente dei politici)».
T.P.: Lei scrive che sentirsi determinati da altro è angosciante e che sarebbe folle prendere sul serio tutte le implicazioni della non esistenza del libero arbitrio. Non capisco: pensa che la vita sarebbe migliore se rinunciassimo all’illusione della libertà, oppure, pur sapendo che non esiste, dobbiamo vivere «come se» il libero arbitrio esistesse?
R.S.: «No, ciò che dobbiamo fare tutti, me compreso, è combattere ogni circostanza in cui l’intuito ci dice che esiste il libero arbitrio, quei momenti in cui crediamo di essere nella posizione di giudicare moralmente chiunque altro, o di provare un senso di merito derivante da qualsiasi cosa abbiamo fatto».
T.P.: Quindi la conclusione etica del ragionamento è che l’assenza di libero arbitrio ci rende tutti uguali, senza colpe né meriti. Non è un appiattimento?
R.S.: «Proprio così. Avrei voluto dedicare più pagine della seconda metà del libro alla meritocrazia, oltre che alla giustizia penale. Come bisogna proteggere la società evitando che gli assassini corrano per le strade, così bisogna proteggerla evitando che una persona a caso venga scelta per eliminare il tumore al cervello di qualcuno. La sfida della giustizia penale è relativamente facile: bisogna contrastare il crimine senza dare giudizi morali. Quella della meritocrazia è più difficile, perché bisogna agire senza dare giudizi morali nel motivare le persone a impegnarsi molto per diventare allenate e competenti in compiti importanti. Ma ammetto che le mie idee su come farlo sono ancora abbastanza primitive».
T.P: Come la mettiamo quando il crimine, di cui non saremmo responsabili, è un omicidio, e dunque non riparabile?
R.S.: «Stabilendo il minimo necessario per proteggere la società da chi si è comportato in questo modo, riconoscendo che in alcuni casi la costrizione dovrà essere permanente. E per il resto lavorando su misure di salute pubblica, ovvero compiere tutti gli sforzi per capire come “curare” una persona del genere e, fatto ancor più importante, capire come le persone si trovano a diventare così».
T.P.: Le sottopongo un’ipotesi evoluzionistica che potrebbe aggirare alcuni dei paradossi in cui incappa una negazione assoluta del libero arbitrio. La percezione di essere liberi potrebbe essersi evoluta per selezione naturale nelle nostre menti con la funzione di tenere unito il gruppo sociale, dando senso di responsabilità ai comportamenti del singolo. Se accettiamo questa idea, non prendiamo una posizione netta, perché il libero arbitrio potrebbe benissimo non esistere e tuttavia essere necessario per la nostra vita sociale.
R.S.: «Rifiuto questa tesi. Se uno pensa che sia una buona cosa credere nel libero arbitrio, anche se non esiste, significa che è una delle persone fortunate che vengono trattate meglio della media per cose di cui non ha alcun merito. Per chi viene trattato peggio della media, la società che rifiuta il libero arbitrio è l’unica che può garantire una vera giustizia sociale».
T.P.: Quindi la motivazione di fondo è politica, più che scientifica. Infatti lei sente il bisogno di giustificare perché noi, determinati da condizioni storiche e ambientali che non dipendono da noi, dovremmo tuttavia mantenere le motivazioni per cambiare in meglio il mondo, senza cedere al fatalismo. Allora le chiedo, per coerenza: in che modo la convinzione di non possedere il libero arbitrio ha cambiato la sua vita?
R.S.: «È un lavoro continuo. Ogni volta che esprimo un giudizio su qualcuno, incluso me stesso, devo pensarci una seconda, una decima volta, per decostruirlo fino al punto in cui posso davvero accettare emotivamente che quella persona non ha avuto alcun ruolo nel diventare chi è. E poi devo cercare di rendere tale intuizione abbastanza automatica in modo che, in circostanze in cui non posso permettermi il lusso di ripensarci una seconda o una millesima volta, i miei riflessi siano prosociali piuttosto che antisociali».
- Pubblicato su La Lettura del 7/7/2024 -
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