venerdì 11 luglio 2025

Lungo l’”Acquedotto Felice”…

Penso spesso allo scrittore che Juan Rodolfo Wilcock avrebbe potuto essere e non è stato; questo genere di esercizio mentale non vuole rappresentare solo un lamento del tipo «avrei voluto che egli avesse affrontato questo o quel tema», quanto piuttosto un esercizio di secondo grado che spinga a riflettere su quali sono state le ragioni per cui Wilcock abbia voluto scrivere in quel suo modo, selezionando i temi da lui scelti, e risultando alla fine uno scrittore estremamente fantasioso, che spesso si è spinto fino a toccare il surrealismo, l'assurdo, il grottesco, il delirante. Cosa che, peraltro, è direttamente correlata al suo insolito talento per i linguaggi, laddove, per poter esercitare questa capacità, è naturale che Wilcock si rivolgesse agli eccessi semantici e sintattici, e non alla documentazione "documentaria" o "etnografica".  Negli anni '70, Wilcock viveva a Roma, al civico 54 di via Demetriade, di fronte alle tombe della via Latina, che oggi si trova all'interno del parco archeologico dell'Appia Antica. Wilcock ha camminato esaustivamente per i vicoli più nascosti di Roma: un'esperienza cittadina che, nei romanzi (soprattutto ne "I due allegri indiani"), esce invece trasformata; rispetto alla alla succitata prospettiva surrealista tipica dell'autore (mentre nei testi per i giornali, invece, Wilcock è più diretto: parla addirittura delle precarie baracche di lamiera allestite lungo l'Acquedotto Felice). Se si guardano le fotografie di Franco Pinna, fatte in vicolo del Mandrione, si può vedere una sorta di mondo parallelo, come un documentario/etnografico, rispetto a quello di Wilcock (le fotografie di Pinna sono del 1956, un anno prima che Wilcock si trasferisse definitivamente in Italia; Pinna e Wilcock sarebbero morti nello stesso anno, il1978). Così, similmente nella sua rubrica, sulla rivista Vie Nuove, nel maggio del 1958, Pasolini scriveva: «Ricordo che un giorno, attraversando il Mandrione con due amici bolognesi, rimasi sgomento alla vista di alcuni bambini che giocavano nel fango sporco. Erano vestiti di stracci; correvano avanti e indietro, senza seguire le regole di nessun gioco: si muovevano, agitati come ciechi, in quei pochi metri quadrati dove erano nati e dove erano sempre rimasti, senza sapere nient'altro al mondo, se non la casetta dove dormivano [...] La pura vitalità che è alla base di queste anime significa un miscuglio di puro male e puro bene: violenza e bontà, male e innocenza, nonostante tutto».

fonte: Um túnel no fim da luz

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