Convivere in pace, vecchi e nuovi cittadini, ci sembra difficile e probabilmente lo è, ma un problema identico si è posto con ben altra urgenza 40 mila anni fa, quando i veri europei, gli uomini di Neandertal, hanno visto arrivare dall'Africa le avanguardie dei Cro-Magnoidi, i nostri antenati. Da allora, due gruppi umani diversi nell'aspetto, nella cultura e nel DNA, probabilmente due diverse specie umane, hanno coabitato in Europa per millenni: ma alla fine i vecchi europei si sono estinti. E dalla loro scomparsa, attraverso migrazioni, contatti e contaminazioni fra culture diverse, che a poco a poco ha preso forma la popolazione che oggi chiamiamo europea, e con lei un continente dai limiti incerti e (a volte temiamo) dall'incerto futuro. Soprattutto, un continente i cui abitanti hanno avuto una storia complessa, che non si presta a facili semplificazioni, neanche oggi che i test del DNA ci promettono (ma spesso sono promesse da marinai) di rivelarci le nostre caratteristiche più nascoste. Partendo da un passato remoto e dai metodi con cui la scienza riesce a ricostruirlo attraverso lo studio dei fossili, dei reperti archeologici e soprattutto dei nostri geni, questo libro ci accompagna a una sorprendente riscoperta dell'identità europea. Un'identità che non riposa su basi biologiche, e che trae la sua forza non da una o poche radici etniche o religiose, ma dalla molteplicità di contributi che hanno continuato ad aggiungersi, ad arricchirla e a ridefinirla.
(dal risvolto di copertina di: "Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigrati", di Guido Barbujani, Bompiani, pagg. 320, € 13.)
Quelle radici africane nel DNA degl europei
- di Guido Barbujani - dalla prefazione dell’autore alla nuova edizione. In libreria dal 31 marzo 2021 -
Non pensavo che per ripubblicare "Europei senza se e senza ma" a tredici anni di distanza dalla prima edizione avrei dovuto riscriverne tre quarti. E invece c’era da aspettarselo: in poco tempo sono cambiati sia i dati scientifici di cui disponiamo, sia il contesto sociale e politico in cui viviamo. La genetica, per cominciare, ha fatto progressi, alimentati da formidabili innovazioni tecnologiche. Se l’impianto dei nostri ragionamenti è rimasto lo stesso, i lavori fondamentali di Luca Cavalli-Sforza e Robert Sokal innestati sul tronco del pensiero darwiniano, tanto di quello che tredici anni fa si poteva solo intuire, adesso lo si può andare direttamente a vedere: nel DNA di milioni di europei, del passato e del presente. Abbiamo capito tante cose; allo stesso tempo, per ogni risposta trovata sono emerse nuove domande, ma va così, quando la scienza funziona: a ogni passo avanti la prospettiva cambia e si cerca di guardare un po’ più in là.
È cambiata anche l’Europa. Tredici anni fa, sotto la spinta non disinteressata di Tony Blair, si discuteva di allargare i confini dell’Unione, arrivando a comprendere anche la Turchia. Ci si guardava bene, però, dal mettere in discussione i meccanismi decisionali, mantenendo il principio dell’unanimità che, come si è visto, paralizza ogni scelta al minimo soffio di vento, anche adesso che il Regno Unito se n’è andato. Blair in seguito ha ampliato il suo raggio d’azione, arrivando a combinare disastri anche in Medio Oriente, ma nel frattempo la grande recessione ha fatto scoppiare la crisi del debito sovrano. La politica di bassi interessi adottata dalla Banca Centrale Europea, la BCE, ha portato a massicci investimenti delle banche del nord nei paesi del sud, che in breve hanno accumulato debiti insostenibili.
Da allora, la contrapposizione fra il cosiddetto Club Méditerranée, i paesi del sud indebitati, e i cosiddetti paesi frugali del nord con i conti in ordine, ha segnato le politiche europee, generando incomprensioni e conflitti. Le misure di austerità imposte ai paesi più indebitati hanno dimostrato plasticamente la fragilità di tante conquiste sociali, gettando nella miseria milioni di cittadini (non solo greci) e nell’angoscia per il futuro buona parte degli altri. Tagli alla sanità, alle pensioni e all’istruzione, precarizzazione del lavoro e, per finire, i crescenti flussi migratori in entrata, hanno fatto il resto. Un’Europa già in difficoltà si è trovata una gatta da pelare dove non se l’aspettava, a quei confini che fino a poco prima pensava di allargare. Ha reagito in maniera scomposta: obbligando il paese di primo approdo a farsi carico dei richiedenti asilo, e chi s’è visto s’è visto. Il Regolamento di Dublino del 2013 è il prodotto di un’impostazione miope, in cui si finge di non capire che il problema (come tanti altri) può essere affrontato solo dall’Unione Europea nel suo complesso, non scaricandolo sul primo malcapitato paese di confine. Nel frattempo, assistiamo a scene già viste: ben coordinate campagne mediatiche gridano all’invasione e scaricano sugli stranieri immigrati la colpa di tutto ciò che non funziona, invocando una chiusura delle frontiere che è con ogni evidenza impossibile da realizzare, anche se la si decidesse. Il fenomeno ha aspetti odiosi, ma anche interessanti. Per esempio, le opinioni pubbliche dell’area mediterranea manifestano sentimenti di rifiuto e anche disprezzo per gli immigrati; ma si risentono quando, dalle opinioni pubbliche dei cosiddetti paesi frugali, analoghi sentimenti vengono espressi nei loro confronti. Ognuno è il terrone di qualcun altro, e rendersene conto potrebbe servire.
Quando è uscita la prima edizione di questo libro, non si parlava ancora di sovranismo. L’atteggiamento nei confronti delle istituzioni europee era più sfumato: comprendeva diffidenze per la cosiddetta burocrazia di Bruxelles, ma anche qualche speranza che a livello europeo si potessero risolvere problemi che da soli non sapevamo o non volevamo affrontare. Insomma, non credo di semplificare troppo se dico che nel corso degli ultimi tredici anni sono state messe in discussione le basi stesse della democrazia europea, con spinte verso modelli autoritari, che incontrano consenso e a cui si stenta a trovare un antidoto. Ma il quadro generale non è solo fosco. L’emergenza sanitaria in cui ci troviamo sembra aver messo in moto anche energie prima troppo timide per esprimersi, che forse permetteranno di rivedere vecchie regole e attenuare vecchie rigidità.
Tutto questo non c’entra con la genetica, ma la genetica ha a che vedere con tutto questo. Non è un gioco di parole. Progressiva perdita di protezione sociale; precarizzazione selvaggia del lavoro; nuove povertà; sordità alle ragioni degli altri; flussi migratori: nessuno di questi fenomeni dipende dal nostro DNA. Ma chi, attraverso la genetica, cerca di ricostruire la nostra storia, va a sbattere contro un sacco di pregiudizi, secondo cui proprio nei geni starebbe scritto il destino dei popoli e degli individui che li compongono. È una semplificazione grossolana, ma, come tutte le semplificazioni, può piacere a chi fatica a fare i conti con la complessità delle relazioni sociali. E allora ho cercato di insistere molto su quanto la storia, che ha lasciato nei nostri geni tracce che sappiamo interpretare, si riveli tanto, ma tanto complessa. Nessun popolo ha mai avuto radici pure e univoche, perché, da milioni di anni, gambe e piedi ci sono serviti per spostarci di qua e di là. Ricostruire queste migrazioni, e i fenomeni per cui certe popolazioni si sono fuse con altre, o non lo hanno fatto, o le hanno rimpiazzate, è interessante e a me, personalmente, piace da matti. Ma è bene metterlo in chiaro: tutto quello che sappiamo o crediamo di sapere ci porta a concludere che c’erano, una volta, i veri europei: ma non eravamo noi, erano i neandertaliani, e una migrazione dall’Africa li ha portato a estinguersi. Noi discendiamo da quegli africani: e dunque, anche tredici anni dopo la prima edizione di questo libro, continuo a credere che non c’è più, da nessuna parte, qualcuno che possiamo chiamare veramente europeo, senza se e senza ma.
- Guido Barbujani - pubblicato sul Sole del 28/3/2021 -
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