lunedì 10 maggio 2021

Alla faccia di chi ci vuole male !!

III

«Ho osservato che la maggior parte di coloro che hanno lasciato delle Memorie non ci hanno effettivamente mostrato le loro male azioni o le loro vere tendenze se non quando, per avventura, le hanno scambiate per prodezze o per sani istinti, come è capitato talvolta di vedere.» (ALEXIS DE TOCQUEVILLE, Ricordi)

Dopo le circostanze che ho ricordato, ciò che ha sicuramente segnato la mia vita intera fu l’abitudine di bere, acquisita per tempo. I vini, gli alcool e le birre; i momenti in cui certuni s’imponevano, e i momenti in cui ritornavano, hanno trac ciato il corso principale e i meandri delle giornate, delle settimane, degli anni. Due o tre altre passioni, che dirò, hanno avuto pressoché continuamente un gran posto in questa vita. Ma quella è stata la più costante e la più presente. Fra il piccolo numero di cose che mi sono piaciute, e che ho saputo ben fare, bere è senza dubbio quella che ho saputo fare meglio. Sebbene abbia molto letto, ho bevuto di più. Ho scritto molto meno della maggior parte di quelli che scrivono, ma ho bevuto molto più della maggior parte di quelli che bevono. Posso annoverarmi fra coloro di cui Baltasar Gracián, pensando a un’élite riscontrabile unicamente fra i tedeschi – ma qui molto ingiusto sul conto dei francesi, come penso di aver mostrato – poteva dire: «Ve ne sono che, di sbornia, ne hanno presa una sola, ma che gli è durata tutta la vita».
Sono del resto un po’ sorpreso, io che ho dovuto leggere così spesso, a mio proposito, le calunnie più stravaganti o certe critiche molto ingiuste, di vedere che insomma trent’anni, e più, sono trascorsi senza che mai un malcontento citasse il mio amore per la bottiglia come un argomento, almeno implicito, contro le mie idee scandalose; con la sola eccezione, peraltro tardiva, di uno scritto di alcuni giovani drogati in Inghilterra, che rivelava verso il 1980 come io fossi ormai abbrutito dall’alcool, e avessi quindi cessato di nuocere. Non ho mai pensato un istante di celare questo lato forse contestabile della mia personalità, ed esso è stato chiaro per tutti coloro che mi hanno incontrato più di una volta o due. Posso anche rilevare che mi sono bastati in ogni occasione non molti giorni per essere grandemente stimato, a Venezia come a Cadice, e ad Amburgo come a Lisbona, dalla gente che ho conosciuto semplicemente frequentando certi caffè.
Ho amato dapprima, come tutti, l’effetto della leggera ebbrezza, poi molto presto ho amato quel che è al di là della violenta ebbrezza, quando si è oltrepassato questo stadio: una pace magnifica e terribile, il vero gusto del passaggio del tempo. Benché senza lasciarne forse trasparire, durante i primi decenni, altro che dei leggeri segni una o due volte per settimana, è un fatto che sono stato costantemente ubriaco per interi periodi di svariati mesi. E anche il resto del tempo, avevo bevuto molto.
Un’aria di disordine, nella gran varietà di bottiglie scolate, resta pur sempre suscettibile di una classificazione a posteriori. Posso anzitutto distinguere tra le bevande, quelle che ho bevuto nei Paesi d’origine, e quelle bevute a Parigi, ma si trovava quasi tutto da bere nella Parigi intorno alla metà del secolo. Dovunque, i luoghi si possono semplicemente suddividere tra quello che bevevo a casa, oppure da amici, o nei caffè, cantine, bar, ristoranti, o per la strada, specialmente alle terrazze dei locali.
Le ore e le loro mutevoli condizioni giocano quasi sempre un ruolo determinante nel rinnovamento necessario dei momenti di una libagione, e ognuna introduce la propria ragionevole preferenza fra le possibilità che si offrono. C’è quello che si beve la mattina, e fu abbastanza lungo il momento delle birre. In Vicolo Cannery, un personaggio di cui si può vedere che è intenditore decreta che «niente è meglio della birra la mattina». Ma spesso mi ci è voluta, non appena sveglio, della vodka russa. C’è quello che si beve durante i pasti, e nel corso dei pomeriggi che si estendono tra l’uno e l’altro. C’è il vino delle notti, con i loro alcool, e dopo, le birre sono ancora gradevoli, perché allora la birra dà sete. C’è quello che si beve sul finire della notte, nel momento in cui ricomincia il giorno. S’intende che tutto ciò mi ha lasciato ben poco tempo per scrivere, e così appunto conviene che sia: la scrittura deve restare rara, poiché bisogna aver bevuto a lungo prima di trovare l’eccellente.
Ho girato a lungo molte delle grandi città d’Europa, apprezzandovi tutto ciò che meritava di esserlo. Il catalogo, qui, sarebbe vasto. C’erano le birre d’Inghilterra, dove si mischiavano le forti e le leggere nelle pinte; e i grandi boccali di quella di Monaco; e le irlandesi; e la più classica, la birra ceca di Pilsen; e il mirabile barocchismo della Gueuze della regione di Bruxelles, quando aveva un gusto speciale in ogni brasserie artigianale, e non sopportava di viaggiare lontano. C’erano i distillati di frutta d’Alsazia; il rum della Giamaica; i punch, l’akuavit di Aalborg, e la grappa di Torino, il cognac, i cocktails; l’incomparabile mescal del Messico. C’erano tutti i vini di Francia, splendidi fra tutti i Borgogna; c’erano i vini d’Italia, e soprattutto il Barolo delle Langhe, i Chianti di Toscana; c’erano i vini di Spagna, i Rioja della Vecchia Castiglia o il Jumilla di Murcia.
Avrei avuto ben poche malattie, se l’alcool non me ne avesse alla lunga procurata qualcuna: dal l’in sonnia alle vertigini, passando per la gotta. «Bello come il tremito delle mani nell’alcolismo», dice Lautréamont. Vi sono mattini commoventi ma difficili.
«È meglio nascondere la propria stoltezza, ma è difficile nella deboscia e nell’ubriachezza», poteva pensare Eraclito. E però Machiavelli scriveva a Francesco Vettori: «Chi vedesse le nostre lettere, […] gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti volti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, incostanti, lascivi, volti a cose va ne. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia». Vauvenargues ha enunciato una regola troppo dimenticata: «Per decidere che un autore si contraddice, bisogna che sia impossibile conciliarlo».
Certune delle mie ragioni per bere sono oltretutto stimabili. Posso ben accampare, come Li Po, questa nobile soddisfazione: «Da trent’anni nascondo la mia fama nelle taverne».
La maggioranza dei vini, quasi tutti i liquori, e la totalità delle birre di cui ho evocato qui la memoria, hanno oggi completamente perso il loro gusto, prima sul mercato mondiale, poi localmente: con i progressi dell’industria, come col movimento di sparizione o rieducazione economica delle classi sociali che erano rimaste a lungo indipendenti dalla grande produzione industriale, e dunque anche per il gioco delle diverse legislazioni statali che vietano ormai quasi tutto ciò che non è fabbricato industrialmente. Le bottiglie, per continuare a vendersi, hanno fedelmente conservato le loro etichette, e questa esattezza garantisce che le si possono fotografare com’erano. Non berle.
Né io né coloro che hanno bevuto con me ci siamo mai sentiti imbarazzati per i nostri eccessi. «Al banchetto della vita» [*1], almeno là buoni commensali, ci eravamo seduti senza aver pensato un solo istante che tutto quello che bevevamo con tale prodigalità potesse non essere poi rimpiazzato per quelli che sarebbero venuti dopo. A memoria di ubriaco, non si era mai immaginato che si potesse vedere il beveraggio sparire dal mondo prima del bevitore.

- Guy Debord - da "Panegirico", Tomo I, III. (Traduzione dal francese di Paolo Salvadori).

NOTA:

[*1] - 1. Avvio di un celebre verso («Au banquet de la vie, infortuné convive») che evoca in Francia gli Addii alla vita del poeta Nicolas Gilbert (ndt)

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