Una storia letteraria del camminare da Dickens a Žižek
Ciò che viene chiamato "passo falso" non esiste. Ogni volta che camminiamo stiamo andando da qualche parte. Soprattutto se non stiamo andando da nessuna parte. Muoversi nella città moderna non è un modo per andare da A a B, ma per capire chi e dove siamo. In una serie di avvincenti divagazioni intellettuali, Matthew Beaumont ripercorre gli episodi della storia del camminatore dalla metà del XIX secolo. Dalle insonni passeggiate notturne di Dickens alle irrequiete camminate nella monumentalità senza volto della città neoliberale di oggi, l'atto di camminare è un atto di scoperta di sé e di fuga da sé, di sparizioni e di sovversioni segrete. Camminando passo dopo passo a fianco di ambasciatori, di pensatori letterari come Edgar Allan Poe, André Breton, H. G. Wells, Virginia Woolf, Jean Rhys e Ray Bradbury, Beaumont esplora la relazione tra la metropoli e la sua vita pedonale. Attraverso questi scritti, Beaumont si chiede: Ci si può perdere tra la folla? Quali sono le conseguenze dell'uso dello smartphone in strada? Cosa differenzia la metropoli notturna dalla città diurna? Cosa collega il camminare, la filosofia e l'alluce? E possiamo salvare la città - o noi stessi - scendendo sul marciapiede?
(dal risvolto di copertina di: "The Walker. On Finding and Losing Yourself in the Modern City", by Matthew Beaumont. Verso Books, pagg. 320, $ 29,95)
Se passeggiare è un po' sospetto
- di Ermanno Bencivenga -
Le parole «nazionalità» e «cittadinanza», usate come sinonimi, comunicano messaggi opposti. La prima condivide la radice di «nascere» e implica un rapporto etnico, di sangue; la seconda richiama la città. Dunque la prima suggerisce esclusione tra famiglie, tribù, clan; la seconda evoca incontri accidentali, imprevisti, magari decisivi. Le città, infatti, sono sede di mercati, fiere, manifestazioni, riti: luoghi verso cui convergono persone di diversa origine che potrebbero, dopo essersi imbattute l’una nell’altra, trascorrere il resto della vita insieme. La prima cittadinanza fu quella romana e, quando nel 212 l’editto di Caracalla la estese a tutti gli abitanti liberi dell’impero, invitò a concepire un enorme organismo politico come retto dalla logica della città: dell’uguaglianza, della tolleranza, dell’integrazione. In tempi razzisti e xenofobi è difficile pensare a uno Stato governato da tale logica; ma mettiamo da parte considerazioni così deprimenti e concentriamoci su quelle che sono, in senso letterale, città. Perché è qui che si compie l’attività studiata da Matthew Beaumont: passeggiare, girovagare, camminare senza meta e senza scopo in mezzo a gente sconosciuta, a edifici estranei, a volti, eventi e occasioni a un tratto suggestivi, aprendosi a riflessioni e sentimenti nuovi e stimolanti. Fra l’Ottocento e la prima metà del Novecento si formò l’archetipo del flâneur: un gentiluomo che oziosamente bighellona per la metropoli. Beaumont ne esamina varianti in Poe, Dickens, Baudelaire, H. G. Wells, Chesterton e altri: il convalescente, il nottambulo, l’ossessivo, l’agorafobico. Nel corso della sua analisi, però, un motivo acquista rilievo sempre maggiore, e infine angoscioso: quanto la condizione del flâneur sia un lusso riservato a pochi, limitato nel corso della storia e oggi in via di scomparire.
Ho detto che il flâneur è un gentiluomo: entrambe le componenti di questo termine ne riducono drasticamente l’applicazione. Per una donna, passeggiare per strada non è mai stato considerato un’occupazione opportuna; lo stesso vale per chi in strada pure ci vive ma non è «gentile». Per gli scarti della società, i senzatetto che trovano riparo in un portone o sotto una tettoia: per quanti sono circondati da un’atmosfera di rifiuto, di disgusto, di intimidazione. Spostandoci dalla sociologia alla cronologia, agli inizi dell’età moderna era comune istituire nelle città un coprifuoco: appositi guardiani erano incaricati di controllare quanti fossero scoperti a camminare dopo le dieci di sera, a chiedere loro che cosa facessero e dove andassero e, se non erano soddisfatti delle risposte, ad arrestarli. Perché misure del genere? Perché chi cammina di giorno lo fa, di solito, per svolgere un lavoro «essenziale»; chi cammina di notte, se non ha intenti criminali, lo fa per il puro gusto di farlo (come Poe, come Dickens, come Baudelaire) e tanta gratuita licenza non può non generare il sospetto, nei benpensanti, di sconfinare a sua volta nella criminalità.
Questo il passato; circa il futuro, una prospettiva minacciosa è offerta dal breve racconto Il pedone, di Ray Bradbury. Pubblicato nel 1951, descrive il mondo del 2053, in cui camminare di notte è proibito: i cittadini restano a casa, davanti alla televisione, «fermi sul posto, divisi l’uno dall’altro, privi di efficacia politica». Beaumont ci ricorda che negli Stati Uniti il numero dei televisori passò da settemila nel 1946 a cinquanta milioni nel 1950 e che Bradbury ne era profondamente preoccupato. Il suo pedone Leonard Mead sarà infine catturato da una macchina (senza nessuno a bordo) della polizia e portato in un ospedale psichiatrico; e noi rimaniamo perplessi, incalzati da domande scomode. È una città quella in cui non ci s’incontra, in cui non vige più la logica dell’incontro? Sono esseri umani quelli che contraddicono la definizione aristotelica di animale sociale?
Per Beaumont, il momento più significativo di quest’ultima passeggiata dell’ultimo pedone è quando inciampa nelle radici di un albero che si sono fatte largo nel cemento. L’irregolarità del marciapiede, prova di una natura che si ribella, può essere l’unica fonte di speranza, per lui, nella «società totalmente amministrata del ventunesimo secolo».
- di Ermanno Bencivenga - Pubblicato sulla Domenica del 9/5/2021 -
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