Il dio che danza racconta i viaggi dell’autore sulle tracce di un fenomeno antichissimo e universale: la trance da possessione indotta dalla danza e dalla musica. Nell’antica Grecia veniva praticata in nome di Dioniso, il “dio folle” di Omero. Ma Dioniso era anche “dispensatore di gioia”: il dio “che scioglie”, “che libera”, lasciando che la vita rompa i margini fragili dell’io e delle norme sociali. Il cammino di Paolo Pecere inizia dal tarantismo in Puglia, sulle orme di Ernesto de Martino, e, seguendo collegamenti storici e mitologici, prosegue in India Meridionale, dove nel theyyam gli dei entrano nel corpo dei danzatori, appartenenti alle caste piú basse. Approda poi in Pakistan, dove il pensiero scivaita teorizzava che “il sé è un danzatore” e i sufi vanno in estasi ruotando al ritmo della musica; in Africa, dove è possibile osservare le possessioni dello zâr e del vodu; infine in Brasile, dove il vudu, arrivato con la tratta degli schiavi, si affianca alle culture e ai culti indigeni, tra cui lo sciamanismo amazzonico. Nell’ultima tappa, New York, riemerge la questione che attraversa e guida tutto il percorso: che cosa resta di questo tipo di pratiche nel mondo odierno? Le antiche forme assumono oggi nuove funzioni: nel subcontinente indiano le danze estatiche veicolano tensioni religiose e sociali, in Africa e Brasile sostengono l’identità culturale di chi è stato colonizzato, negli Stati Uniti si accompagnano allo sviluppo della cultura lgtbq. Lo sciamanismo dell’Amazzonia, infine, diventa principio di resistenza contro la distruzione capitalistica della grande foresta.
(dal risvolto di copertina di: Paolo Pecere, "Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni". Nottetempo, 340 p. €18)
Cambiano le musiche e le maschere, ma ogni popolo balla con il suo dio
- Dai riti dionisiaci dell’antica Grecia alla taranta pugliese al theyyan indiano, viaggio nelle pratiche di “trance” -
di Vasco Brondi
In tempi di sedentarietà forzata Paolo Pecere ci accompagna in un viaggio fatto di strade sterrate, di chilometri, di fusi orari che si percorre anche in un’altra direzione, in un’altra dimensione. Passando dall’antica Grecia alla Puglia, al Brasile, al Pakistan, al Mali, al Kerala, ad Haiti, a New York, l’autore cerca di ricostruire «la presenza di un motivo culturale quasi onnipresente, quello di un Dio o di uno spirito che s’impossessa del corpo e induce una danza frenetica e benefica», che la si chiami trance, possessione o estasi. Ma questo è anche un viaggio letterario, seguiamo mappe geografiche a forma di romanzo, di saggio o di diario. Risuonano i versi di Rimbaud disperso in Africa, la Terra del rimorso di Ernesto de Martino, il Viaggio al termine della notte di Céline, il Cuore di tenebra di Conrad, Lévi-Strauss tra gli sciamani, la poesia di W.H. Auden. Esseri umani in ricerca costante si passano il testimone come in un’indagine parallela: da una parte chi trascende attraverso pratiche rituali e dall’altra chi vuole esserne testimone arrivando da un altro mondo e sentendone la verità, oggi sempre più inconcepibile tra le ideologie razionaliste, monoteiste e capitaliste.
L’autore parte dalle sue origini, dai racconti e dalle atmosfere della sua infanzia in Puglia, dai tarantati che «venivano colpiti da un forte malessere, di solito verso l’inizio dell’estate, e a chi chiedeva cosa avessero rispondevano di essere stati punti da un ragno: la taranta». Durante le crisi qualcuno entrava in dialogo con San Paolo, mischiando in questo rito, come in altri in altri continenti, elementi pagani e religiosi. Ernesto de Martino le collega a pratiche che arrivano da lontano: «Già nell’antica Grecia, si tramandavano testimonianze di crisi collettive, soprattutto femminili, che si propagavano come contagi. Si trattava di fenomeni che i Greci conoscevano già ai tempi di Platone, per cui esistevano opportuni rimedi musicali». De Martino evoca l’eredità del culto dionisiaco, vede la taranta non solo come rimedio al disagio sociale, al malessere, al lutto, ma come anche felice «scatenamento delle passioni che non è mai privo di gioia».
Se il cristianesimo non poteva avvalorare l’idea della possessione, pena considerare i tarantati degli indemoniati da esorcizzare, lo stesso problema si presentava per l’Islam: nella danza sufi non bisogna infatti parlare di «possessione» ma di «estasi», come processo di avvicinamento tra il fedele e Dio. In India, in una cultura politeistica, questa questione non si pone, la possessione era da considerarsi una delle tante forme di manifestazione del divino. Anche Isherwood ci racconta nel suo libro sulla vita del santo e mistico Ramakrisna, che le sue crisi epilettiche, così come quelle che adesso definiremmo crisi depressive, erano considerate un chiaro segno di santità. I riti del theyyan in India vengono paragonati a quelli del nostro carnevale e considerati utili ad allentare la tensione sociale e dare una libertà temporanea, consentendo una «ritualizzazione della protesta» contro il sistema delle caste. In sottofondo c’è anche una protesta nei confronti di ogni società in cui queste pratiche sono inserite, forse un modo di rivendicare le leggi dell’universo in mezzo alle leggi della città. Scuotersi e ballare finché il corpo non si è sfogato. Qualcosa di incomprensibile per noi forse perché è proprio il corpo al centro dell’attenzione ma non il corpo iper-controllato, post-prodotto e filtrato ma il corpo incontrollabile, mosso dalle stesse logiche senza senso delle maree e del vento. Il corpo dei movimenti involontari, del respiro che va da solo, del cuore che batte indipendentemente da noi.
Come la taranta con la «Notte della taranta» così anche il theyyan negli ultimi anni «esce dal bosco e va in città» diventando un evento folklorico di massa «sradicato dal suo spazio d’origine associato alla marginalità». L’autore ci porta a Islamabad, dove è stato ucciso Bin Laden, in cerca di santuari sufi. Per loro «il vero jihad non è quello di cui parlano i mullah, combattuto con la spada, ma è una lotta interiore, in cui si tratta di vincere se stessi, le proprie pulsioni che producono il male nel genere umano».
Questo è anche un viaggio on the road con un filo conduttore vago, che fa dei grovigli e lascia all’autore il tempo di perdersi. E forse di avere in comune ai protagonisti dei riti l’esperienza della transitoria perdita dell’io, della «momentanea e inaccettabile perdita dell’io» data dalla trance. Ci sono cerimonie in cui si cambia identità per poi ritornare, il giorno dopo un rito sanguinoso, alla propria normale occupazione. Come racconta Hari Das, danzatore theyyam che nella vita fa il muratore: «C’era un brahmano, il mese scorso, che mi venerava durante un theyyam toccandomi i piedi con devozione, inginocchiato di fronte a me in lacrime per ricevere la mia benedizione. La settimana successiva sono andato a casa sua per scavargli un pozzo, come un bracciante qualunque. Di certo non mi ha riconosciuto».
Scopriamo la danza cosmica dei Dogon in Mali, il vudu in Benin dove il potere magico è inseparabile dalla religione. Dove magico è anche il potere del vaccino, magica la comunicazione telefonica e dove un grande festival diventa «una sagra del vudu» in cui i danzatori sono circondati da schiere di macchine fotografiche. Anche ad Haiti «i fedeli del vudu chiedono una protezione dalle malattie e dalla miseria ma traggono anche piacere dal riunirsi, tra solennità e divertimento, e dare libero sfogo al corpo».
Come in Africa dove magia e ciarlataneria si mischiano e «tutto era vissuto in un registro, tra il tragico e il comico» perché «qui tutto è religioso», come scriveva Leiris in Africa Fantasma. «Simile a un’epidemia dionisiaca, la “follia regolata” delle danze attraversa tutta l’Africa». Intravediamo gli sciamani nella foresta del Borneo: sia Jung che Lévi-Strauss li paragonarono agli psicanalisti che «pongono l’individuo a confronto con i propri fantasmi», ma adesso se arriva qualche straniero a cercarli si rifugiano nella foresta. In un filmato del 1979 l’autore vede infine una donna songhai in Niger che «si sdraia sulla schiena e cammina sul dorso, come una tarantata»: sembrano ripetersi a latitudini diverse, in epoche diverse le stesse necessità e gli stessi riti, gli stessi gesti. Cambiano le musiche, le maschere, le iconografie ma resta qualcosa in comune, qualcosa che ci risuona e ci attrae ancora.
- Vasco Brondi - Pubblicato su Tuttolibri del 3/4/2021 -
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