domenica 23 maggio 2021

Una giacca color cannella

Tra possessioni, sortilegi e forze impure, incubi, ossessioni, violenze e follie, la letteratura russa più di altre sembra aver subito il fascino fatale del maligno, e questa raccolta di Racconti di demoni russi ne è un’oscura testimonianza. Guida d’eccezione in questo viaggio mefistofelico, Andrea Tarabbia ha selezionato e curato i più importanti esempi letterari di questa fascinazione sinistra, da Gogol’ a Cechov a Bulgakov, apparecchiando un banchetto di prelibatezze macabre – tra cui alcune vere rarità – in cui l’estasi non è mai troppo distante dalla dannazione: ecco Satana che seduce una fanciulla e la condanna con un languido bacio, mentre un vortice di dannati si presenta al cospetto della regina del Sabba, suonano orchestre di morti, appaiono angeli avvolti dalle fiamme: la notte non è mai stata così animata, e racconto dopo racconto si compone, agli occhi del lettore, il ritratto al nero di un’intera cultura.

(dal risvolto di copertina di: "Racconti di demoni russi", a cura di: Andrea Tarabbia. Il Saggiatore, pagine: 480. € 19,00)

Diavolo di una Russia
- di Michele Mari -

Storie di demoni russi: il titolo fa pensare al folklore, a un repertorio organico di leggende e narrazioni sottoposto dal curatore a un’operazione filologico-enciclopedica di ordinamento e selezione. Nulla di tutto questo, perché i demoni e i mostri russi non sono come quelli giapponesi, da tempo inventariati come qualcosa di oggettivo, ma piuttosto disposizioni psichiche, tormenti intellettuali, paure, ferocie ataviche, simboli. Soprattutto sono invenzioni d’autore, e in questo senso anche la presente raccolta, pensata da Andrea Tarabbia, ha qualcosa di autoriale, perlomeno nell’arbitrio di cui il curatore si prende la responsabilità. Che non si tratti di una normale antologia risulta fin dal primo sguardo all’indice: un prologo poetico (dal Demone di Lermontov), una prima sezione dedicata ai “Demoni immaginari”, una seconda dedicata ai “Demoni reali”, un epilogo ancora in versi (dall’Histoire du soldat di Ramuz e Stravinskij).
La distinzione fra demoni reali e immaginari può sulle prime apparire schematica e sostanzialmente antiletteraria: ma recupera un senso nel coincidere, almeno in parte, con un dissidio culturale: i primi sono personaggi fiabeschi di ascendenza folklorica, e sono strettamente imparentati ai folletti, agli gnomi e a ogni tipo di creatura dispettosa (tanto che, se non proprio innocui, hanno certamente qualcosa di comico); i secondi, serissimi e drammatici, sono invenzioni letterarie dovute a chi, non potendo servirsi di quell’infungibile folklore, doveva guardare a Dante, a Shakespeare, a Milton e a Goethe. Certo anche i testi della prima sezione sono usciti da penne letterate come quelle di Gogol’, di Saltykov-Šcedrin, di Sologub, di Bulgakov, ma, al netto della vocazione comico-satirica di questi autori, è indubbio che la qualità originaria dello spunto, una qualità da “novella”, fa aggio sull’effetto finale. I protagonisti di questa galleria inscenano spettacoli carnevaleschi, esibiscono come rigattieri la loro paccottiglia di corna e zoccoli, si contaminano in forme che sembrano uscite da un quadro di Bosch («Dio mio! Che personaggi! Colli di gru con musi di cane, torsi di toro con gambe di passero, galli con gambe di capra, caproni con braccia umane…»: Zagoskin; «animali repellenti che avevano qualche parvenza umana, enormi rospi in caffettani verdi…»: Brjusov), partecipano ai sabba e, naturalmente, copulano in modo abominevole (la connotazione del demoniaco in chiave sessuale è particolarmente evidente in Sologub, che rivela qui una verve sadica e voyeuristica che sarà una vera sorpresa per chi di lui, com’è stato per me, aveva letto solo Il demone meschino). Alla fine, oltre alle pagine finali del Vij di Gogol’, il testo più conturbante risulta essere Il sacrificio di Remizov, storia di un uomo talmente attratto dall’odore della decomposizione e dunque dai cadaveri da assassinare l’unica figlia non morta di morte naturale, in un finale spettacolarmente catastrofico che ricorda La fine della casa Usher di Poe.
Molto più eterogenea la seconda sezione del libro, quasi un campionario delle possibili declinazioni tematiche. Qui il demone può essere un’ossessione (nel Fiore rosso di Garšin l’ospite di un manicomio combatte una solitaria battaglia con certi fiori in cui si incarnerebbe tutto il male del mondo, e il finale non decide se il male sia nei fiori o nella mente del protagonista), una pulsione, un cedimento, un peccato di presunzione. Pulsione è quella di Katerina L’vovna, che nello splendido racconto di Leskov (Una lady Macbeth nel distretto di Mcensk) non esita a uccidere suocero, marito e un nipotino acquisito pur di godersi il suo amante plebeo, e che anche dopo la condanna ai lavori forzati si abbandonerà alla sua sete di sangue (il primo pensiero va alla patologia di certe protagoniste di Zola).
Cedimento è quello del giovane Nemoveckij, che nell’altrettanto splendido Abisso di Andreev viene risucchiato dal male nel momento in cui, «sentendosi spalancare dinanzi un abisso scuro, pauroso, che lo attirava», bacia appassionatamente la sua ragazza appena stuprata e uccisa da un gruppo di balordi. Presunzione è quella di Kovrin, che credendo alle lusinghe di una visione demoniaca sacrifica ogni affetto sull’altare dell’eccezionalità (Cechov, Il monaco nero), oppure quella di Vogulov, che nel racconto orwelliano e antisovietico di Platonov (Un satana del pensiero) insegue il sogno (solo formalmente faustiano) di una radicale trasformazione della Terra e anzi dell’universo in chiave di efficienza lavorativa.
Volutamente, per ultimo nella sua monumentalità, Dostoevskij. Tarabbia ha scelto di riportare il lungo dialogo onirico che si svolge fra Ivan e il diavolo nella quarta parte dei Karamazov. Privo di ogni sublimità, questo diavolo mediocre è però un gran loico, e si fa beffe della contraddizione in cui si dibatte Ivan, lo scettico che negando Dio nega anche il diavolo, e che tuttavia, pur sapendo trattarsi di una propria proiezione, non riesce a non crederlo reale (già in Cechov, del resto: «Io esisto nella tua immaginazione, ma la tua immaginazione è parte della natura: vuol dire che io esisto anche nella natura»). Una scena, questa, di cui si ricorderà Thomas Mann nel Doktor Faustus, quando attribuirà al diavolo lo stesso indumento del diavolo dostoevkijano: una giacca da casa color cannella.

- Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 17/4/2021 -

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