domenica 2 maggio 2021

Lavare i panni sporchi !!

Le patologie della militanza
- di Isabelle Sommier -

Negli ultimi mesi, si sono levate voci a testimonianza della violenza delle relazioni interpersonali , o inter-gruppi, in seno all'ambito della militanza di sinistra, soprattutto femminista. Alcuni accusano l'effetto deleterio e di amplificazione giocato dai social network che, per loro stessa natura, generano un'inasprimento dell'intolleranza, e in un certo qual modo la caccia in branco; mentre altri vedono in tutto questo una pericolosa china di «deriva identitaria» che proviene da oltreoceano e che ha in sé dei comportamenti settari che portano a una frammentazione delle cause in tante nicchie sempre più ristretta e ostili le une alle altre. Come accade spesso, un semplice dislocamento di prospettiva verso un'altra sequenza storica o una diversa aera culturale, porta a sfumare l'apparente novità di simili fenomeni. Queste testimonianze (di sofferenze individuali e di spaccature nei collettivi) ci ricordano in fatti, in maniera singolare, quelle che provenivano, nel 1968, da semplici militanti «di sinistra» [*1]. Sebbene, in larga maggioranza, nessuno si penta del proprio impegno di allora, contrariamente alla quasi totalità dei testi degli ex esponenti - reali o presunti - dell'epoca, sono molti quelli che raccontano di una negazione di sé stessi avvenuta nel contesto di gruppi, assai spesso e sotto molto aspetti, tirannici e insensibili alla loro persona, ma che per alcuni di loro significava essere assai pronti a codificare i loro comportamenti, e le norme di comportamento, al servizio di un coinvolgimento totale. Da emancipatrice, la militanza diventa alienante, le relazioni di "compagneria" mutano in relazioni tossiche. Sarà solo a a partire dall'indebolirsi delle convinzioni rivoluzionarie, a metà degli anni '70, che alcune parole private, in prima persona, riusciranno a trovare modo di denunciare ciò che verrà descritto come un «ideale limitante». Questo verrà poi associato ad un militantismo «virile» dell'estrema sinistra, tipico del modello «rivoluzionario professionale», in particolare da quelle militanti che lo hanno lasciato a favore dei collettivi femministi, pensando che la «sorellanza» avrebbe potuto preservarle dai simili eccessi e derive, e di conseguenza le avrebbe protette anche da un modello di impegno storicamente datato, e quindi superato. Ciò che ne è seguito, così come gli eventi attuali sui quali abbiamo aperto questo saggio, ha smentito la loro previsione.

I gruppi di estrema sinistra, in quanto istituzioni voraci
Quale che si la dedizione che richiedono, le organizzazioni di estrema sinistra hanno in comune di essere delle «istituzioni voraci», ovvero «divoratrici» (greedy institutions). Richiedono un impegno totale, che arriva perfino a negare il concetto stesso di spazio privato, e di conseguenza arrivano ad essere cieche nei confronti degli stati d'animo dei loro militanti, che rimangono volentieri inespressi, repressi. Con questo concetto, Lewis Coser si riferisce a dei gruppi - quali i gesuiti o i bolscevichi - «che esigono la piena adesione da parte dei loro membri, adoperandosi così ad assimilare integralmente la persona». [*2]
Essi si caratterizzano per le loro «pretese totali sui loro membri», su una «lealtà esclusiva e incondizionata», e di conseguenza per le loro aspettative onnivore nei loro confronti: certamente il loro tempo, devozione e disponibilità inesauribile; ma anche un'identità esclusiva che li porta a limitare, o a indebolire quei legami esterni al gruppo che possono essere suscettibili di compromettere il dono di sé da parte del militante. A differenza dell'«istituzione totale» [*3] di Erving Goffman, a partire dalla quale Coser ha dato inizio alla sua riflessione, l'istituzione vorace non è in grado di stabilire una cesura totale tra i suoi membri e l'esterno. Peraltro, essa non funzione a partire dalla coercizione, ma per mezzo della pressione psicologica a conformarsi; cosa che spinge molti ad anticipare volentieri le ingiunzioni che consentano loro di essere in sintonia col gruppo e con le sue aspettative. In questo modo, non c'è quasi mai alcun bisogno di proibire formalmente questa o quella pratica che potrebbe indebolire l'organizzazione (come, all'epoca, fare uso di droghe), o che potrebbe addirittura essere considerata futile (in questo modo, da parte maoista, l'abbandono di strumenti borghesi come i classici letterari o, i dischi di musica classica, il cui abbandono si apparenta a una tecnica di mortificazione). La riunione la sera, azioni di propaganda all'alba ai cancelli delle fabbriche, manifestazioni e mobilitazioni varie nel corso della giornata. Il militantismo è cronofago, richiede tempo, e difficilmente è sostenibile a lungo. La stanchezza e lo sfinimento minaccia i militanti. Ivan, membro della Gauche Prolétarienne (GP) di Marsiglia, parla di un "impegno totale"; oltre al lavoro in fabbrica, ci sono "sempre" riunioni per tutto il tempo. Si passano giorni interi e parte delle notti per studiare e definire delle cose, a discutere, per organizzare delle azioni...
- Ed è stato esaltante? Che ricordi conserva di quel periodo?
- È stato soprattutto faticoso. Mi ricordo che per quasi tre anni non abbiamo quasi mangiato nulla...

La sua compagna, Camille, è «diventata una militante professionista», e nel mentre continuava a lavorare in un supermercato: «c'è stato perfino un periodo durante il quale non mangiavamo abbastanza, sono andata a vivere coi miei genitori, e mi facevo fare delle iniezioni di vitamine al campus universitario, mi guardavano di traverso perché pensavano che assumessi droghe, ma erano solo delle iniezioni di vitamine che un compagno medico e una compagna infermiera mi facevano.»
Lungi dall'offrire sostegno, il gruppo ignora le preoccupazioni della vita quotidiana, se non vengono addirittura delegittimate o derise. Pertanto, così, una militante incinta, in conflitto con la dirigenza della  Ligue Communiste Révolutionnaire (LCR), a Lione, si è sentita dire «che sicuramente era perché [lei] aveva degli ormoni che le facevano il solletico». Altri soffrono in silenzio l'indifferenza dei loro compagni di fronte a un lutto coniugale o alla malattia di un figlio, fino a quando i sentimenti repressi vengono a galla e si dimettono. La violenza delle relazioni interpersonali viene menzionata da una gran parte degli intervistati, fino al punto da portare un militante a definire i membri del suo gruppo maoista Dimitrov, a Rennes, come dei «pazzi» che lo avevano definitivamente vaccinato «contro la Grand Soir» [contro la "rivoluzione"]. In particolare, sono le donne a sopportare il peso di questa violenza psicologica interna, e di quelle che sono le relazioni di dominio che essa riflette. Tra le tante testimonianze, Martine, la cui militanza nel Partito Comunista Marxista-Leninista di Francia (PCMLF) ad Aix fu tuttavia di breve durata, denuncia a più riprese dei gruppi di estrema sinistra «molto perniciosi», «una forte violenza che veniva esercitata all'interno dei gruppi; sono stati anni di grande violenza personale, credo che le persone esercitassero un potere smodato... ». Inimicizie e lotte fratricide, critiche e attacchi personali, scissioni e spaccature nette: i conflitti sono innumerevoli e spesso di alta caratura ideologica, ma a ben guardare più da vicino gli infiniti dibattiti strategici e le divergenze di analisi nascondono spesso delle rivalità tra persone che sono in competizione nel gioco del potere. A volte, la patina di vernice ideologica si incrina proprio al culmine della crisi, come testimonia un militante dell'Organizzazione Comunista dei Lavoratori (CWO), il quale era molto coinvolto nella sua città di provincia, ma che la lasciò nel 1980, un anno prima della sua implosione, disgustato dalle tensioni interne: «Sono andato a Parigi per un congresso e quando ho visto che i leader si insultavano a vicenda, la cosa mi ha fatto crollare.» Questo rovescio della medaglia è particolarmente importante nel mondo della sinistra radicale, dove i legami affettivi sono forti, ma le questioni personali sono inaccettabili, la leadership viene imposta ed è altamente concorrenziale, dando luogo a «combattimenti tra galli» dove lo status dell'uno o dell'altro (mai al femminile) si basa su reputazioni e atteggiamenti che valorizzano la mascolinità o addirittura il virilismo.

La codifica dei sentimenti
Sono tutti alla ricerca della virtù rivoluzionaria, le organizzazioni smistano o selezionano i loro membri, anche sulla base della loro moralità. Per esempio, un intervistato si è visto chiudere le porte del PCMLF a causa del suo dongiovannismo: «Ero un simpatizzante convinto, ma allo stesso tempo per loro il mio profilo non sembrava fosse appropriato (...) poiché conducevo una vita dissoluta, e questo loro non lo approvavano. Erano molto rigorosi, quando li vedevi sembravano dei preti.» Per un simpatizzante della LCR la fase di prova, o di stage, dura 18mesi prima che possa diventare un membro a pieno titolo, ed è principalmente volta a controllare il reclutamento attraverso l'osservazione del comportamento del postulante, come ha imparato a sue spese il giovane Volna, respinto in quanto «la sua vita privata non è quella che ci può aspettare da un militante rivoluzionario». [*4]
Al fine di evitare che «l'economia libidinale» [*5] dei loro militanti non entri in concorrenza con la loro libido militante, per le Istituzioni Voraci si offrono due soluzioni per disciplinare queste relazioni affettive, e magari anche sessuali: la loro proibizione, svolta ad esempio anche attraverso il celibato del «comunismo di guerra», oppure la loro codifica, più o meno autoritaria. Un militante lionese di Lutte Ouvrière (LO) si ricorda per esempio del fatto che Hardy, il leader, rifiutava il ricorso alla pillola in favore del coito interrotto, il quale insegna l'autocontrollo e scoraggia la maternità: «voleva dire sostenere un peso famigliare incompatibile con l'attivismo - era questa la spiegazione ufficiale. Penso che invece, se scaviamo più a fondo, la spiegazione è stata che tutto ciò distraeva le persone dall'attivismo, facendole rimpiombare nella vita quotidiana di un signor chiunque, e le ha costrette ad avere dei contatti con altre persone nella vita reale, cosa che in qualche modo le ha fatte uscire dal bozzolo.»

Apparentemente le organizzazioni sembrano in contrasto con le norme del matrimonio. Laddove alcuni se ne disinteressano (Ligue communiste révolutionnaire), altri invece coltivano aspettative ed esigenze precise, come Lutte Ouvrière. Tuttavia, i maoisti sembrano essere in prima fila, senza dubbio a causa del loro populismo di fondo, come suggeriscono (tra le altre) le proposte avanzate da un segretario di cellula del PCRml (Partito Comunista Rivoluzionario Marxista-Leninista) a Lione, che convola a nozze con un'altra militante in nome del principio secondo cui «per riuscire a trasformare la società e a trasformare le cose dalla parte dei lavoratori, bisogna vivere come loro. Nella nostra idea, i lavoratori si sposano e fanno figli.» Il mancato rispetto delle presunte norme proletarie determina una sanzione; il capo della  Gauche prolétarienne (GP) di Marsiglia, colpevole di infedeltà, ne paga il prezzo venendo «messo alla berlina», vale a dire che viene obbligato ad andare a lavorare in fabbrica, affinché venga «rimesso sulla retta via». La stessa organizzazione - stavolta a Lille - obbliga Pierre ad accogliere a casa sua una famiglia di sottoproletarie, per poi cambiare idea e ingiungere loro di andarsene. Pierre si era opposto, e ricevette una visita da parte del responsabile locale e di un altro militante, i quali gli promisero che, quando avessero preso il potere, lo avrebbero «rieducato in una porcilaia». Qualche mese dopo, quando torna dal servizio militare, la sua donna lo lascia. Pierre litiga di nuovo con il suo capo, la «direzione della G.P.» aveva deciso che le sue figlie dovevano essere affidate ad altri militanti, cosa che lui rifiuta. Quando abbandona l'organizzazione in quello stesso anno, ha come «l'impressione di uscire da un mondo di pazzi, e di essere tornato nella realtà.» Il PCMLF e più in generale altri gruppi maoisti attirano critiche per la violenza morale che infliggono ai loro attivisti attraverso regole e controlli comportamentali, sanzionati da sessioni di autocritica. Maria racconta come lei e suo marito siano passati da un'«ebollizione militante» a un «prosciugamento intellettuale e umano», avvenuto a forza di autocritiche perché «eravamo troppo intellettuali», e a successive negazioni di ciò che sono. A volerlo raccontare, sono stati sottoposti a diktat matrimoniali («bisognava sposarsi»), a privazioni materiali («bisognava dare metà del proprio salario!»), morali e identitarie («a un dato momento non dovevi più salutare i tuoi amici per strada, perché dovevi far parte di un trio resistente, ecc. come se ci fosse la guerra!»; «Non si doveva più leggere»). E tuttavia tutto è avvenuto con un senso di colpa, è successo  «con la sensazione che si stesse tradendo la classe operaia» che lei e suo marito lasciarono l'organizzazione nel 1975, «perché i gruppi settari producono questo senso di colpa».

Il «Noi» collettivo insidiato dall'«Io» militante
Quella che un tempo era la grandezza militante, l'essere disposti a donare tutto al gruppo, a dimenticare sé stessi in nome della causa diventa, col trascorrere degli anni, e con l'allontanarsi del sospirato traguardo rivoluzionario tanto atteso, un costo. Il "burn out", il trasformarsi degli affetti positivi (il cameratismo militante, la solidarietà) in legami negativi, divenuti tali a forza di pressioni e di dogmatismo, finiscono per porre fine a molte vocazioni. Avvengono partenze scioccanti, o assai più spesso in punti di piedi, suicidi a catena, autoscioglimenti di gruppi locali, come quello del gruppuscolo di Rennes, Dimitrov, che si autodistrugge a colpi di espulsioni delle sue già magre truppe, fino ad arrivare ad esigere che il marito presieda il tribunale che processa la moglie per le sue origini borghesi delle quali non sarebbe riuscita a sbarazzarsi; la sua autocritica era stata giudicata insoddisfacente, e venne ordinato al marito di lasciarla, cosa che lui fece. A partire dal 1973, cominciano a moltiplicarsi tutti i segni della crisi del modello di militanza rivoluzionaria.  Dei membri della LCR prendono la penna per chiedere un «minor dispendio dei militanti», lamentando un'assenza di fraternità e di considerazione. Un testo della primavera del 1975 pubblicato dalla rivista "Marx ou crève", che si fa beffe di queste denunce e dell'emergere del tema del «desiderio», denuncia gli intellettuali «che si sono messi a cavalcare il destriero della loro libido (...) e ci invitano alla danza, piuttosto che allo sforzo e al sacrificio». [*6] Nel numero successivo della rivista questo testo dà fuoco alle polveri . Denise Avenas, allora membro della direzione federale del Nord della LCR, a nome delle donne denuncia «l'ideale autolesionistico» che sottovaluta «il fattore umano» e i «rapporti alienati tra militanti»; mentre un ex militante, Michel Hascouet, firma un testo dal titolo «Lega e desiderio, ovvero gli inviti della Lega al suicidio», che suona come un invocazione di aiuto. Si toglierà la vita qualche settimana dopo. [*7] Avendo la sensazione di non essere stato sostenuto nella sua depressione, denuncia «il modo in cui la Lega tratta i compagni che ne sono usciti per motivi personali e sono entrati in analisi». Cosa che verrà riconosciuta più tardi dal dottor Jacques Hassoun (Michel Péret): «l'organizzazione nella quale si riconosceva Michel, la LCR, non gli ha permesso di frequentare un corso: per ignoranza, per mancanza di disponibilità a causa del sovraccarico di compiti militanti, ma forse anche perche impregnati dell'ideologia dominante, continuiamo a separare soggetto pubblico/soggetto privato».  In conclusione, sollecita l'invenzione della «nuova formula» del militante rivoluzionario. [*8]
Queste singolari problematiche relative all'equilibrio tra militanza e vita quotidiana - si parla qui di «desiderio» e di «soggettività» - riescono con difficoltà a trovare una strada fino all'emergere di due rivendicazioni collettive che riescono a imporre il fatto che il privato è politico: la «questione femminile» e il movimento omosessuale. Le rimostranze delle donne di sinistra sono molteplici e comuni a tutto l'insieme delle esperienze politiche, sia partigiane che contestatarie: il fatto che venga ignorata la triplice giornata (quella della militanza che va ad aggiungersi a quella duplice - professionale e domestica - delle donne); la suddivisione a partire da dei compiti che servono a rendere invisibili, e a svalutare coloro che ne sono investite; il maschilismo e a volte la violenza sessuale simbolica (l'ingiunzione ad essere «emancipate», vale a dire sottomesse al desiderio maschile) e talvolta perfino fisica (casi stupro o di aggressione sessuale che scatenano la loro uscita dalla LCR o dalla Rivoluzione!).
La denuncia della fallocrazia, fatta dalle donne della LCR, viene ripresa dagli omosessuali. Un testo della commissione omosessuale parigina, pubblicato sul Bollettino interno del luglio 1976, comincia rilevando il punti in comune tra la polizia, l'esercito e la LCR: quello di essere «innanzitutto un mondo di uomini, non solo dal punto di vista numerico, ma strutturalmente, in quello che è il loro funzionamento, e le sue basi psicologiche e ideologiche soggiacenti (...) La virilità, la "spacconeria", la forza fisica e il "coraggio maschile" sono tutti dei valori che nelle nostre file sono moneta corrente.» Poi continua rammaricandosi del fatto che «le orecchie dei militanti, aperte ai grandi temi politici (cosa necessaria), spesso si chiudono quando non si tratta del rumore della Storia, ma solamente del mormorio quotidiano, banale, fastidioso; politico anch'esso. Ecco che allora ci ritiriamo in noi stessi, ci chiudiamo, arriviamo a pensare che in quel caso, dopotutto, si tratto solo di piccoli "problemi personali", e che in questo caso siamo gli unici ai quali interessa. Non c'è altro da fare che militare, militare fino al giorno in cui non sarà più possibile, e allora si esce in punta di piedi, senza manifestare alcun disaccordo politico, senza avere avuto modo di dibattere politicamente di simili questioni.» Il modello leninista della militanza rivoluzionaria fa acqua da tute le parti. Dopo vari tentativi di auto-organizzazione, o di formare gruppi di sostegno volti a verbalizzare le loro sofferenze, molti militanti se ne vanno e alcuni di loro migrano verso l'impegno femminista, facendolo in silenzio, o più raramente parlando e assumendo una posizione pubblica, come quella di Elsa; una delle poche ad avere avuto i mezzi per imporre su Rouge la pubblicazione della sua lettera di dimissioni, nella quale critica il fatto che «alla LCR, tanto gli uomini che le donne non avevano lo stesso spazio, e che si faceva di tutto per escludere le donne madri di famiglia, si facevano molte riunioni la sera, in continuazione... e poi si ricominciava, non era possibile.» Nel frattempo, lascia il suo compagno, anche lui nella LCR; l'intreccio tra impegno militante e coinvolgimento amoroso, essendo abbastanza frequente in questo genere di organizzazione segnata dall'endogamia, assai spesso il destino di una cosa si riflette sull'altra. Da parte loro, gli omosessuali della LCR, la maggior parte dimissionari, nel maggio 1979 fondano la rivista "Masque" e inventano una «militanza», che a differenza del militantismo e delle sue connotazioni militari, sottolinea il vissuto e il «privato-politico». [*9]

È il militantismo, virile e di sinistra, l'unico colpevole?
Questa critica incrociata delle donne (e poi del femminismo) e del movimento omosessuale, è stata analizzata da dei ricercatori della LCR, a cominciare da Jean-Paul Salles, mentre invece tra gli ex maoisti essa emerge solo nel Registro delle testimonianze personali; cosa che ha contribuito a sopravvalutare il contributo dato dalla LCR alla comprensione e all'integrazione delle critiche. Senza negare né la maggiore intransigenza maoista, qui sottolineata più volte, né l'incubazione del movimento omosessuale avvenuto essenzialmente nel contesto della LCR, bisogna senza dubbio qualificare quella che appare come una storiografia dominante leggermente incantata. Infatti, l'esaurimento e la messa in discussione del modello organizzativo di ispirazione leninista si è propagato uscendo dall'ambito delle minoranze sessuali e dei militanti. E di questi, non tutti hanno combattuto, tutt'altro [*10]. «In seno alla Gauche prolétarienne, siamo stati sfiorati dalla battaglia femminista, completamente. A posteriori, mi vien da dire che noi, le donne siamo state piuttosto buone», considera Camille. Nel PCMLF, il problema è rimasto non solo impercettibile, ma addirittura impensabile per la maggior parte degli interessati , che d'altronde oggi se ne mostrano sorpresi. Alla fine, a parte Vive La Révolution! che si auto-sciolse nel 1971, le organizzazioni sensibili a tali questioni, compresa la LCR, non rimasero mai veramente sconvolte dalla loro irruzione: il tema del privato si impose dolorosamente, più di quanto non fosse realmente accettato, e in gran parte per una preoccupazione di distinzione militante in un contesto di crisi generalizzata dell'impegno di estrema sinistra, obbligando i gruppi a posizionarsi, in particolare sulla «questione femminile», su un mercato concorrenziale che contrapponeva principalmente LCR e Rivoluzione!
Così, esattamente come la «rivoluzione sessuale» aveva le sue radici nei decenni precedenti al 1968, anche questi sviluppi appaiono, più profondamente, come il risultato di una mutazione a lungo termine favorevole all'espressione dell'«io» (in generale) contro il «noi» dell'insieme delle istituzioni (coniugale, ecc.), ivi compreso quello delle istituzioni voraci di cui le organizzazioni hanno continuato ad essere l'espressione. Il fatto che le donne, prima e poi gli omosessuali, siano state in prima linea in questa mutazione (così come il fatto che siano state le prime a interessarsi alla dimensione affettiva dei movimenti sociali) non dovrebbe sorprendere. L'espressione dei sentimenti è di genere, e l'oppressione dell'uno e dell'altro genere si esercita innanzitutto sui corpi e sul loro sé. Esclusi dalla sfera pubblica, vi entrano a forza sovvertendone i codici, vale a dire, importando problemi che non ne fanno «normalmente» parte. [*11]

Un'altra interpretazione dominante riferisce queste tensioni al modello di militanza rivoluzionaria di ispirazione leninista, che i gruppi di estrema sinistra hanno voluto ereditare. In questo modo, esse appaiono perciò, in maniera incantata, come se fossero il canto del cigno. La sociologa Rebecca Klatch, le ha identificate anche tra gli SDS (Students for a Democratic Society) degli anni '60, e più tardi nel movimento delle donne, soprattutto in quanto lo slogan «il personale è politico» autorizza in qualche modo che il gruppo si intrometta nella vita personale dei militanti [*12]. Ne è rimasta vittima la femminista statunitense Jo Freeman. Nota per aver dimostrato come l'assenza di strutture formali, praticata in particolare dai gruppi di discussione delle donne, potesse nei fatti generare la tirannia a partire dalle loro gerarchie informali e dal loro carattere esclusivo; ha testimoniato, fin dal 1976, per quel che riguarda le violenze simboliche interpersonali in seno al «movimento», arrivando fino alla sua messa al bando definitiva dopo la denuncia pubblica e la diffusione di voci atte a distruggerne la reputazione. Freeman ha definito questo processo a partire dal quale «ciò che viene attaccato non sono le azioni o le idee, ma l'io», come «trashing» [N.d.T.: in italiano si potrebbe tradurre «rottamazione»] [*13]. Un processo che ha spinto il marito di Colette, militante della LCR di Nantes, a mettere fine alla propria vita nel 1989 - dopo gli anni dell'attivismo rivoluzionario - come lei stessa spiega:  «Quindi, è stato quando è tornato dal suo anno sabbatico di congedo organizzativo che lui ha detto: "È tutto, sto per tornare", e questo punto il responsabile organizzato ha detto: "Niet". Pertanto, di fatto, è stato escluso. Ho letto i documenti, ho letto i fogli che mi sono stati dati dopo da delle persone che li avevano, si trattava dei verbali delle riunioni interne della Lega per la sua esclusione, ho letto quello che c'è scritto, ecco. Ma a loro non era bastato che lo escludessero, ma ha avuto luogo anche una campagna di denigrazione, e quando un'organizzazione ha sul naso un individuo la cosa diventa brutale, vale a dire che si dà un modello comportamentale che fa sì che i giovani ai quali si richiede la purezza della convinzione siano loro i più brutali, tanto più soprattutto perché non lo avevano conosciuto (...) Venne accusato di tradimento, di essere un traditore sociale. I giovani gli tolsero il saluto (...) cambiavano marciapiede se lo incontravano, alla fine è stato abbastanza drammatico.»
Un esito così tragico dell'impegno, descrive in maniera parossistica quale sia il potenziale tossico del militantismo, il quale rimane non abbastanza esplorato dai ricercatori che sono a favore dell'analisi delle sue gratificazioni positive. La tensione che essa rivela tra la preoccupazione di conformarsi al gruppo, da una parte, e il bisogno di affermazione in prima persona, dall'altra, è inerente a ogni processo di socializzazione; e la socializzazione secondaria che si realizza nella e attraverso l'istituzione militante non fa affatto eccezione; e si può perfino arrivare a pensare che sia stato un fattore importante negli ultimi cinquant'anni segnati dalla continua accelerazione del processo di individuazione. Tuttavia, non tutti i gruppi sono ugualmente soggetti, poiché militanza e impegno non vanno sempre di pari passo - basti pensare all'attuale forma partitaria che, per la maggior parte, domandano poco ai loro membri, e del resto offrono loro ben poco spazio. Diversamente, lo stesso non può essere detto di coloro che  vengono definiti (e a volte si definiscono) «radicali». Sono due gli elementi costitutivi che li orientano verso la «voracità» e l'impegno totale: la loro aspirazione a farsi carico di andare «alla radice» del male, al fine di un cambiamento in profondità della società, li spinge all'intransigenza; la loro posizione ai margini, che li designa come sovversivi dell'ordine (sociale, politico o sessuale), favorisce un sentimento di avversità e di ritrarsi in sé, già presente nella loro volontà di rottura [*14]. Questa dinamica si è verificata per i gruppi di estrema sinistra degli anni '70; e oggi potrebbe cristallizzarsi in seguito al montare di polemiche sterile e caricaturali a proposito di alcune cause.

- Isabelle Sommier - 13 aprile 2021 - Pubblicato su La via des idées -

NOTE:

[*1] - La riflessione che ha alimentato questo articolo è vecchia. Ha avuto inizio nel contesto di una tesi di dottorato ("La violence politique et son deuil. L’après 68 en France et en Italie", Presses Universitaires de Rennes, 1998), ed è soprattutto il risultato di una ricerca precedente ("ANR Sombrero", pubblicata col titolo "Changer le monde, changer sa vie",  Actes Sud nel  2018, in particolare i capitoli 16 et 18) e di alcune ricerche in corso sulle conseguenze biografiche dell'impegno del '68 tra 400 militanti comuni in cinque città di provincia.

[*2] - Lewis A. Coser, Greedy institutions : patterns of undivided commitment, New York, Free Press, 1974, p. 4-8.

[*3] - L'istituzione totale, concetto elaborato a partire da una ricerca condotta in un ospedale psichiatrica, si caratterizza a partire dalla vita reclusa, dall'istituzione che si fa carico dell'insieme dei bisogni dell'individuo, dalla sorveglianza, dalla disconnessione tra gli organizzatori dell'istituzione e i membri «ordinari», dalle barriere che ostacolano la conversazione (Erving Goffman, "Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza", traduzione di Franca Ongaro Basaglia, collana «Biblioteca», Einaudi, 2003).

[*4] - Citato da Jean-Paul Salles, "La Ligue communiste révolutionnaire", Rennes, PUR, 2005, p. 321. L'autore racconta anche il divertente aneddoto del tentativo da parte del gruppo di Rouen di chiedere ai suoi militanti l'indirizzo delle loro vacanze, p. 319.

[*5] - Jeff Goodwin, « The Libidinal Constitution of a High-Risk Social Movement : Affectual Ties and Solidarity in the Huk Rebellion, 1946 to 1954 », American Sociological Review, 62 (1), 1997, p. 53-69.

[*6] - Pierre Péju et Alain Brossat, “Un apolitisme nommé désir”, Marx ou Crève, Revue de critique communiste, n°1, avril-mai 1975, p. 75-87.

[*7] - Marx ou Crève. Revue de critique communiste, n°2, juin-juillet 1975.

[*8] - In Critique communiste n°4, dicembre 1975-gennaio 1976, p. 107-109, citato da Jean-Paul Salles, op. cit, p. 328, che in questo gruppo conta 19 suicidi.

[*9] - Massimo Prearo, « La construction de la ‘militance’ gaie et lesbienne dans les années 1970 en France », in Ludivine Bantigny, Fanny Bugnon et Fanny Gallot (dir.), « Prolétaires de tous les pays, qui lave vos chaussettes ? » Le genre de l’engagement dans les années 1968, Rennes, PUR, 2017, p. 139.

[*10] - Per una descrizione e un'analisi di queste relazioni altamente differenziate delle attiviste rispetto alla questione femminile, si veda Clémentine Comer e Bleuwen Lechaux, "Vivre un double combat, mais à quel prix? Les rapports contrariés des femmes gauchistes au féminisme", in Olivier Fillieule, Sophie Béroud, Camille Masclet, Isabelle Sommier e collectif Sombrero, Changer le monde, changer sa vie, Arles, Actes Sud, 2018, pp. 485-511.

[*11] - Nel suo studio sulle femministe della seconda ondata, Christine Bard, notando che per molte di loro la memoria è stata trasmessa attraverso la modalità biografica, lo spiega con l'influenza intellettuale della psicoanalisi e con il «lavoro su sé stessi», attuato in particolare nei gruppi di coscienza (in "Les féministes de la deuxième vague", Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2012, p. 15-21).

[*12] - Rebecca E. Klatch, « The Underside of Social Movements : The Effects of Destructive Affective Ties », Qualitative Sociology, 27 (4), 2004, p. 487-509.

[*13] - Jo Freeman, « Trashing : The Dark Side of Sisterhood », Ms. Magazine, Avril 1976, p. 49–51, 92–98. Nei circoli militanti attuali, si parla piuttosto di "calling out" o di "shunning".

[*14] - Per ulteriori sviluppi, sui gruppi più radicali che sono anche organizzazioni clandestine, istituzioni totali (e non solo voraci), qualora ce ne fossero, si veda Isabelle Sommier, "Engagement radical, désengagement et déradicalisation. Continuum et lignes de fracture", in Lien social et Politiques, n° 68, 2012, p. 15-35.

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