Reinhard Höhn (1904-2000) fu un Oberführer (carica equivalente a quella di generale) delle SS, ma fu anche un archetipo dell’intellettuale tecnocrate al servizio del Terzo Reich. Sfuggito impunemente, come molti, alla denazificazione, dopo la guerra fonda un istituto di formazione al management. Peccato che per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600 000 persone almeno, senza contare altre 100 000 con la formazione a distanza. È una casualità? Oppure, come ci spiega Johann Chapoutot, brillante storico del nazismo, vi è un legame profondo tra le forme di organizzazione del nazismo e le concezioni di direzione aziendale? La libertà germanica, antico topos etnonazionalista, trova espressione, e una via di realizzazione, anche nella libertà del funzionario e, più in generale, dell’amministratore: libertà di obbedire agli ordini ricevuti e di eseguire a qualsiasi costo la missione che è stata affidata.
(dal risvolto di copertina di: Johann Chapoutot, "Nazismo e management. Liberi di obbedire". Einaudi pp. XIV - 128 € 15,50)
I manager forgiati dal nazismo erano liberi (soltanto di obbedire)
di Massimiliano Panarari
C'è stato un «nazismo magico», occultistico ed esoterico, sosteneva il politologo (recentemente scomparso) Giorgio Galli. E c’è stato pure un «nazismo tecnocratico», argomenta lo storico Johann Chapoutot (professore all’Università Sorbonne Nouvelle - Paris III, e componente dell’Institut universitaire de France) in questo nuovo «capitolo» della sua ricerca sulla storia culturale del nazismo, le cui altre tappe (pubblicate in italiano sempre da Einaudi) sono La legge del sangue (2016) e Il nazismo e l’Antichità (2017).
Lo studioso percorre le biografie e le «opere» di un pantheon di esponenti del Nsdap che costruirono la «tecnocrazia» del Terzo Reich. In tutto e per tutto criminali; e, come scrive Chapoutot, «la loro durezza, il loro fanatismo, ma anche la loro mediocrità, ci appaiono tanto lontani quanto suggeriscono il bianco e nero delle immagini o il taglio delle uniformi». Al medesimo tempo, nell'abisso disumano di brutalità e mostruosità che li anima Chapoutot ravvisa quelle che descrive come «impressioni di contemporaneità», tra cui le metodologie di organizzazione del lavoro e il management. Ossia quegli aspetti che hanno suggerito la chiave interpretativa - espressa innanzitutto dal libro Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, e anche, con sfumature differenti , da Giorgio Agamben e Gotz Aly - dell'abominio nazionalsocialista strutturato quale industria del crimine di massa. Fortemente appoggiata sulle strumentazioni messe a disposizione dalla tecnica e dalla scienza in una nazione arrivata tardi nel processo di industrializzazione, ma che aveva effettuato un impressionante recupero «a tappe forzate», arrivando a dotarsi tra Ottocento e Novecento di un apparato industriale poderoso. Un tassello della «modernità» del nazismo (e un capitolo essenziale del cosiddetto «modernismo reazionario», per utilizzare la classificazione coniata alcuni decenni fa dallo storico americano Jeffrey Herf) che giunge sino al paradigma - per antonomasia neopolitico - del lager, dove la distruzione della vita si compie attraverso lo sfruttamento finalizzato alla produzione economica.
Chapoutot riannoda i fili della visione nazista del management che trapassa nel secondo dopoguerra dove impone in maniera rilevante la propria eredità (specialmente negli anni decisivi del miracolo economico tedesco), con il riciclaggio di svariati ex gerarchi del regime hitleriano che ne furono teorici e, spesso, anche facoltosi attuatori ed esecutori in proprio. Lo studioso si premura (opportunamente) di sgombrare il campo da qualunque equivoco rispetto a giudizi valutativi intorno al management, e alla tesi - assurda e totalmente infondata, anche a causa delle origini temporale precedenti - di una sa origine nel nazionalsocialismo. Ricostruisce e indaga, invece, le vicende di un gruppo di accademici e alti burocrati del regime hitleriano che diede vita a una (aberrante) «via nazionalsocialista» al management per rispondere alle questioni poste dall'incessante espansionismo del Terzo Reich, avendo a disposizione «risorse umane» e mezzi in quantità limitate per i loro bisogni esponenzialmente crescenti. Una galleria popolata da figure come l'agronomo Ss Herbert Backe, segretario di stato al ministero dell'Approvvigionamento e dell'Agricoltura del Reich, autore alla vigilia dell'invasione del'Urss di un vademecum destinato ai funzionari incaricati della colonizzazione e amministrazione dei territori orientali, in cui predicava l'«efficienza», l'«agire e non parlare» senza «protestare e lagnarsi nei confronti degli organi direttivi», ai quali spettava di stabilire gli «obiettivi». E come Oswald Pohl (il capo dell'ufficio centrale dell'Economia dell'amministrazione delle Ss), Hans Kammler (il direttore del dipartimento «Costruzioni» dello stesso ufficio, e il realizzatore della fabbrica dei missili V2 presso il campo di concentramento di Mittelbau-Dora), e lo stesso ben noto architetto Albert Speer nelle vesti del tecnico modernista che fu anche il manager per eccellenza del sistema industriale del regime. Un gruppo di intellettuali tecnocratici, sotto l'egida delle Ss. che tematizzò la nozione di «libertà germanica» in stretta relazione con il modello di impresa nazista, sviluppando una concezione del lavoro «flessibile» e «collaborativa», in seno alla quale i lavoratori dipendenti trovavano «motivazione» e «coinvolgimento» e disponevano di autonomia nella scelta dei mezzi grazie alla «benevolenza» della struttura gerarchica, anche se non contribuivano per l'appunto a definire gli obiettivi. In poche parole: «liberi di obbedire».
Una modalità di lavorare «con gioia» (durch Freude), diffusasi in modo considerevole nella Germania post-bellica anche e proprio in virtù del ruolo decisivo di alcuni tecnocrati del Reich scampati all'incompleta e ambigua denazificazione. Come l'ex generale delle Ss Reinhard Höhn (1904-2000), fondatore di Bad Harzburg, in Bassa Sassonia, del più importante istituto di formazione per il management tedesco del dopoguerra, ispirato alle grandi business school statunitensi, per il quale sono transitati nel corso del tempo almeno 600mila dirigenti d'azienda.
- Massimilano Panarari - Pubblicato su Tuttolibri del 10/4/2021 -
Nessun commento:
Posta un commento