Gli uomini senza memoria, sono meno di quante siano le società senza rovine. Questa Storia Universale delle Rovine mira a chiarire il rapporto indissolubile che ogni civiltà ha con le rovine. L'antico Egitto ha affidato la memoria dei suoi governanti a monumenti giganteschi e a iscrizioni imponenti. Altre società preferirono fare un patto con il tempo, come i mesopotamici, che erano consapevoli della vulnerabilità dei loro palazzi di mattoni di fango e pertanto seppellirono le loro iscrizioni commemorative nel terreno. I cinesi dell'antichità e del Medioevo affidavano la memoria dei loro re e dei loro grandi uomini a iscrizioni incise su pietra e bronzo, delle quali antiquari scrupolosi hanno raccolto le matrici. Altri ancora, come i giapponesi del santuario di Isé, distruggevano per poi ricostruire le loro architetture di legno e paglia in un ciclo infinito. Altrove, nel mondo celtico e in Scandinavia, come nel mondo arabo-musulmano, sono stati i poeti o i bardi ad essere responsabili del mantenimento della memoria. I greci e i romani consideravano le rovine come un male necessario che bisognava imparare a interpretare in modo da poterle dominare. Il mondo medievale occidentale si è confrontato con l'eredità antica a partire da un'ammirazione fortemente tinta di repulsione. Di fronte a questa tradizione, il Rinascimento intraprese invece un nuovo tipo di ritorno all'Antichità, considerata come un modello del presente che deve essere imitato per superarlo meglio. Infine, l'Illuminismo ha costruito una coscienza universale delle rovine che si è imposta a noi come il «culto moderno dei monumenti»: un dialogo con le rovine che vuole essere universale e di cui questo libro è testimone. Passando da una civiltà all'altra, Alain Schnapp attinge tanto alle fonti archeologiche quanto alla poesia. Magnificamente illustrato, questo è il lavoro di una vita.
(dal risvolto di copertina di: Une histoire universelle des ruines. Des origines aux Lumières, di Alain Schnapp, Edition du Seuil, pagg. 723, € 49)
SU QUESTE ROVINE RISORGERÀ IL MONDO
- Alain Schnapp. Un viaggio nel tempo e nello spazio attraverso le diverse interpretazioni che classicità, Oriente, Islam, Rinascimento e Illuminismo hanno dato alle vestigia antiche -
di Marcello Barbanera
Nel saggio sul dramma barocco tedesco, Walter Benjamin scrive che «le allegorie sono nel campo del pensiero, quello che le rovine sono nel campo delle cose». Con questa icastica definizione, il pensatore tedesco sintetizza esemplarmente le ragioni per cui le rovine hanno rappresentato una delle più potenti metafore della cultura occidentale. La rovina è una presenza costante nella cultura dall’antichità classica all’età contemporanea, ciò che cambia è la percezione: l’oscillazione tra morte e vita, tra oblio e memoria, decadenza e rinascita appartiene a una concezione relativamente moderna delle rovine che risale all’epoca della Rivoluzione industriale. Il progresso e la modernità ingenerano il timore che il vecchio mondo, con i suoi valori, possa improvvisamente scomparire. In tale contesto la rovina diventa un’ancora culturale, la custode delle memorie, perciò essa stessa memoria da custodire e conservare.
Ma la rovina non è solo vestigia e materialità, agisce anche attraverso l’immaterialità. Se lo si osserva da una prospettiva storico-culturale il significato della rovina si estende su uno spettro amplissimo di ambiti disciplinari, attraversa epoche e culture affatto diverse e soltanto un’impresa titanica potrebbe permettere di affrontare le facce molteplici di questo poliedro. Ad essa si è dedicato lo studioso francese Alain Schnapp, che ha riversato il risultato di una ricerca più che decennale nel monumentale volume Une histoire universelle des ruines. Des origines aux Lumières, un’opera impressionante per densità, apparato illustrativo, formato e soprattutto l'’impressionante erudizione. Già storico e archeologo della Grecia antica alla Sorbonne, animatore instancabile del Centre Louis-Gernet, tra i fondatori e primo direttore dell’Institut National d’Histoire de l’Art, cresciuto alla scuola di Pierre Vidal Naquet e Jean-Pierre Vernant (a quest’ultimo è dedicato il volume), poliglotta, fellow dei principali centri di ricerca mondiali, provvisto di una vastissima cultura, Schnapp aveva tutto nel suo bagaglio per riuscire in questo libro straordinario e sontuoso, un vero “bosco narrativo” che si inscrive nel registro di una storia universale.
Il volume si apre con il Génie du Christianisme di Chateaubriand, considerato da Schnapp il creatore di un’ermeneutica delle rovine: «L’uomo stesso - scrive Chateaubriand - non è altro che un edificio caduto». Questa disperazione non gli impedisce però di identificare le tre opposizioni fondamentali che strutturano l’idea di rovina: materialità e immaterialità, natura e cultura, memoria e oblio - opposizioni che attraversano tutta l’opera. Il volume ha la struttura di una moderna Hypnerotomachia Poliphili, con il lettore nelle vesti di un moderno Polifilo che si avventura in un viaggio nel tempo e nello spazio: nel suo itinerario incontra governanti mesopotamici ed egizi, impegnati nella ricerca di monumenti e iscrizioni antichi per ancorarsi ai loro predecessori in continuità del passato. Nel mondo greco il discorso sulle rovine si riallaccia alla formazione dei culti eroici, sorti intorno alle presenze monumentali di età micenea, percepite in età arcaica come appartenenti a un mondo mitico. Per i Romani erano un’immagine materiale del destino, un’assenza senza possibilità di redenzione, sempre assimilata a un paesaggio desertico, evocante morte. Nell’antica Cina, i legami con il passato sono stabiliti attraverso vasi di bronzo e iscrizioni. Le rovine sono tracce, una categoria astratta che si fonde con gli ideogrammi che le accompagnano. In Cina e in Giappone la transitorietà materiale delle rovine non contrasta con l’idea di permanenza perché «l’atto di restaurare prevale su ciò che viene restaurato», così a Isé, il santuario di legno e paglia della famiglia imperiale giapponese viene ricostruito ogni vent’anni dall’VIII secolo: nuovo nella concezione occidentale ma antico per quella orientale.
La concezione contemporanea dell’arte prevede che ci sia un autore da un lato e un’opera d’arte da lui eseguita dall’altro. Il mondo romano non la pensava esattamente così. Anzi. Su come fossero considerate le opere d’arte nell’antica Roma lo illustra bene Mariateresa Curcio nel libro L’arte romana oltre l’autore (Mimesis, pagg. 204, € 20) dove emergono chiari i pilastri di tale arte, che si basava sui concetti di imitazione, serialità e valorizzazione della grande tradizione greca.
Gli arabi prima dell’Islam crearono un genere poetico evocante un viaggiatore alla ricerca delle sottili tracce di un campo dove ha incontrato la donna amata. I testi insistono più sulla «rovina dell’essere» che sulla rovina delle cose, ma con l’avvento dell’Islam, le rovine delle civiltà politeiste diventano sospette.
Il libro si muove avanti e indietro tra l’Occidente e il resto del mondo: un peregrinare inesausto dall’Oriente antico - dalle piramidi alla Torre di Babele e ai mattoni sepolti in Mesopotamia - alle rovine del mondo greco-romano, dalla Cina e dal Giappone fino al mondo pre-islamico e islamico giungendo a esaminare le rovine come strumento di rinnovamento nell’Europa medievale, nel mondo celtico e scandinavo; segue poi naturalmente il Rinascimento, in cui le rovine antiche vengono anatomizzate per ricavarne un moderno linguaggio architettonico e con Raffaello si comincia a proteggerle; e infine l’Illuminismo, che fa di ogni rovina un segnale di coscienza universale. È poi la volta di pittori e disegnatori che si dedicano alla poetica delle rovine: da Mantegna a van Heemskerck, passando per Poussin, Lorrain, Hubert Robert solo per citare i nomi principali del ruinismo pittorico. In letteratura scorrono i nomi di Montaigne, Volney, Diderot, Hugo, Simmel, Kafka, il già citato Benjamin, poi Freud, Borges e Roth. In sintesi una “opera mondo”, l’opera di una vita; insuperabile.
- Marcello Barbanera - Pubblicato il 18/4/2021 su Domenica -
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