Abbiamo tutti bisogno del mito. Non solo e non tanto perché ci piace o perché addirittura ne siamo appassionati, ma perché abbiamo tutti bisogno di una cornice in cui inquadrare noi stessi e il nostro presente. Il mito seduce l'immaginazione, meraviglia, ma soprattutto offre radici al nostro pensiero perché, ci insegna Vernant, quello che a prima vista sembrerebbe «un guazzabuglio di favole strampalate» poggia piuttosto su fondamenta profondissime, che hanno consentito ai Greci di costruire il loro mondo spirituale e materiale. Insomma, sebbene nessuno creda, e probabilmente abbia mai creduto anche nell'antichità, che le storie di eroi e dèi siano vere, che sia realmente esistita un'Afrodite uscita dalle acque o un'Atena nata dalla testa di Zeus, tutta la civiltà occidentale continua a figurarsi all'interno dell'orizzonte intellettuale tracciato quasi tremila anni fa dal mito greco. Come sostiene Andrea Marcolongo nella sua illuminante prefazione, «il mito greco si rivela ancora oggi il perimetro entro il quale pratichiamo l'esercizio del pensiero - e con cui misuriamo il grado raggiunto o mancato della nostra civiltà».
(dal risvolto di copertina di: "Mito", Autore: Jean-Pierre Vernant. Treccani, € 10.00 )
Come sono in salute i miti greci: da tremila anni ci svelano chi siamo
- Andrea Marcolongo presenta il saggio di Vernant sul "Mito" per la Treccani, ora riproposto in volume -
- di Andrea Marcolongo -
La mitologia, ovvero la scienza che studia i miti in rapporto alle caratteristiche di un'epoca storica e di una civiltà, non è storiografia né filologica - certo di queste discipline si avvale per capire meglio il contesto in cui un mito vive e pulsa, ma il suo fine non è quello di scoprire i resti archeologici del cavallo di Troia da esporre in una teca né di stabilire se Omero sia stato uno, nessuno o centomila. Ovviamente, la mitologia non è nemmeno teologia, dunque non si occupa di rispondere a domande intorno alla fede degli antichi - che verisimilmente dovevano credere al viaggio di Ulisse senza farne un dogma di fede, come noi crediamo con gusto alle leggende intorno alla fondazione di un castello o di una maschera di carnevale.
Se questo ragionamento può risultare abbastanza logico - non raccontiamo certo ai nostri figli le fatiche di Eracle sperando che ci credano ciecamente al pari dell'esistenza di Carlo Magno come riportato sui manuali di storia -, resta allora da comprendere perché i Greci dedicarono tanta energia intellettuale nel tratteggiare non soltanto un singolo mito, ma una mitologia omnia, vale a dire un insieme narrativo che, per estensione e per coerenza interna, rappresentava globalmente il loro sistema di pensiero.
Se non ambivano con i loro miti né alla fede religiosa né alla memoria storiografica, cosa andavano cercando gli antichi? Loro stessi e la loro civiltà.
Di fatto, i Greci furono i primi a comprendere che, prima di giocare qualunque partita, vale la pena di stabilire con precisione il campo entro il quale si vuole giocare. Soprattutto, che vale la pena di decidere da che parte stare di quel campo chiamato civiltà.
Lo straordinario affannarsi dei Greci per tracciare teogonie, genealogie, pantheon di dei e semidei con le loro storie di guerra e di amore, non fu frutto di un diletto fine a sé stesso per il semplice gusto di sperimentare curiosi intrecci narrativi. Fu invece il risultato della determinazione nel voler creare una precisa società: prima di fabbricare - prima anche solo pensare di mettere all'opera il logos -, era necessario stabilire con chiarezza e scrupolosità le fondamenta, cioè il mito. Detto ancora più in sintesi: con una lungimiranza che non ha pari nel Mediterraneo, i Greci furono i primi a comprendere che prima del «costruire» è necessario il «creare».
A quel gesto primigenio di maneggiare il mondo per catalogarlo nella sua interezza, gli antichi diedero il nome di «mitico», tò mythodes. Fu questo il tempo in cui gli uomini si impegnarono a raccontare a parole, attraverso il mito, il mondo per dargli una forma - da qui l'etimologia originaria della parola «mito» quale «discorso performativo» capace di produrre realtà. [...]
Ammettere che la civiltà occidentale continua a pensarsi e a costruirsi all'interno dell'orizzonte intellettuale tracciato quasi tremila anni fa dal mito greco può sbalordire, ne sono consapevole. Ma allo stesso tempo libera noi contemporanei da quella percezione falsata - nonché spesso sterile nella sua cieca dimenticanza - che ci vorrebbe come inconsapevoli e timidi eredi della tradizione classica, lasciataci miracolosamente in dote da chissà quale civiltà remota che non ha più nulla da dirci né nulla da chiederci (un po' come accade con dei parenti alla lontana di cui ignoriamo il volto). Accettare invece di essere l'ultimo anello di una catena ininterrotta di trasmissione del mito classico ci risveglia energicamente, imponendoci il dovere di definirci seriamente in rapporto con esso. Va da sé che accogliere questo punto di vista significa smettere di angosciarsi circa il presunto destino di morte che attenderebbe l'antico ai nostri giorni. Non soltanto perché preoccuparsi di tenere in vita il classico significa, per rigore logico, che esso ancora vive, sebbene un po' ferito. Soprattutto, perché un patrimonio mitologico che resiste senza sbavature da quasi tre millenni non può che essere in perfetta salute - e significa che le riflessioni che ha da dirci e da chiederci sono tutt'altro che esaurite.
Insomma, sarà pur morto il greco antico nella misura in cui non è sopravvissuto un solo parlante di greco antico (così come il latino di epoca repubblicana o l'italiano duecentesco), ma il mito greco si rivela ancora oggi il perimetro entro il quale pratichiamo l'esercizio del pensiero - e con cui misuriamo il grado raggiunto o mancato dalla nostra civiltà.
Questo nostro astigmatismo nel guardare al mito classico rivela però un dato incontrovertibile della natura umana, antica i contemporanea che sia: siamo tutti mitofili. Non semplice estimatori o appassionati di mito, ma esseri desideranti, quasi bisognosi per costruzione, di una cornice intellettuale per sottrarre il nostro pensiero dall'effimero o dallo spaesamento. Salvo poi contestarla, questa cornice - proprio per permetterle di sopravvivere.
Dalla notte dei tempi a oggi, il mito non cessa di incantarci e di meravigliarci. DI sedurci profondamente proprio perché ne abbiamo bisogno per pensare noi stessi.
- Andrea Marcolongo - 2021 -
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