venerdì 2 ottobre 2020

Prima di Mafalda!

Quino e Marx: lavoro, dignità e rabbia
- di Néstor Lòpez -

Salvador Lavado [Joaquín Salvador Lavado Tejón], più noto come Quino [17/7/1932-30/09/2020], otto anni prima di creare il suo personaggio Mafalda, aveva pubblicato sul n°15 - luglio/agosto 1955 -della rivista Dibujants, una striscia di disegni di sorprendente attualità che potete vedere qui sopra. Nella prima vignetta, il nostro eroe appare vestito da detenuto: è incatenato ad un enorme palla, si vede un secondino armato di fucile che lo controlla, e la pietra che sta martellando è enorme. Nell'ultima, lo vediamo trasformato in un normale operaio, con la tuta blu di quegli anni, ed è libero - nel senso che non è incatenato ad alcuna palla e non si vede alcun agente penitenziario che lo controlli. Ora la pietra è più piccola, ma la sua espressione di tristezza e di rabbia è la stessa che aveva sul volto quando si trovava in prigione, e l'autore vi ha aggiunto dei segni che rappresentano insulti ed imprecazioni. È sparita, non c'è più quell'espressione di risplendente allegria che aveva nella seconda vignetta, che lo aveva reso ingenuamente felici nel momento in cui usciva di prigione per tornare alla libertà; e manca anche quell'atteggiamento risoluto che si può vedere tratteggiato nella terza vignetta  quando si dirige verso l'ufficio di collocamento per avere un lavoro. Lavorando, è tornato nuovamente a provare sofferenza, dolore e angoscia. Ora è tornato ad essere nuovamente dominato, senza una catena di ferro e senza una guardia armata.
Prima, per il suo dolore aveva una spiegazione, aveva commesso un crimine, aveva violato la legge, era stato arrestato dalla polizia, condannato da un tribunale, ed era stato rinchiuso - imprigionato - dal sistema carcerario, e la sentenza aveva imposto una data di scadenza alla sua pena, nel momento in cui avrebbe scontato la condanna emessa dai giudici dello Stato. Ma ora non ha commesso alcun delitto,  né violato alcuna legge, e le istituzioni del dominio sembra che qui non svolgano alcuna funzione. È un onesto lavoratore, e ciò nonostante, tuttavia, si sente dominato, senza che ci sia alcuna data di scadenza, si trova ad essere stato condannato senza che ci sia alcuna condanna, in una prigione senza sbarre; e perciò bestemmia e impreca. Tutto questo serve a suggerirci delle domande inquietanti. Perché impreca? Perché non scappa? Che cos'è che lo tiene prigioniero? Chi e che cosa lo domina? E qual è l'origine di questo dominio? In cosa si differenzia rispetto al dominio che viene esercitato nelle società pre-capitaliste? C'è sempre stato un dominio?

«Gente senza fede, senza legge, senza re» ed il dominio nel capitalismo
Non sempre c'è stato dominio, e oggi combattiamo affinché un'umanità futura non lo subisca. E inoltre, se consideriamo che le prime manifestazione della specie umana risalgono approssimativamente a circa 700mila anni fa, allora possiamo dire che per centinaia di migliaia di anni l'uomo ha ignorato il dominio, la coercizione, e che il potere che vediamo oggi è emerso in quella che è stata l'ultima decima parte di tutto questo periodo. Cinquecento anni fa, l'America venne colonizzata dagli europei, i quali rimasero sorpresi nell'incontrare «Gente senza fede, senza legge, senza re». In America, eccettuando le grandi società Inca e Azteca: «Tutte [le società indigene], o quasi, sono dirette da leader o capi e, caratteristica decisiva e degna d'attenzione, nessuno di questi cacichi - [cachiques] possiede qualche “potere”. Ci troviamo dunque di fronte a un complesso enorme di società, in cui i detentori di ciò che, altrove, si chiamerebbe il potere sono, in effetti, privi di potere, in cui il campo politico si determina al di fuori di qualsiasi coercizione e violenza, e di ogni subordinazione gerarchica; in cui, in breve, non esiste alcuna relazione di comando-obbedienza. » (Pierre Clastres, "La società contro lo Stato").
Questo non avviene solamente in America: «L'arco delle società considerate è impressionante; abbastanza ampio, comunque, per togliere al lettore esigente qualsiasi eventuale dubbio circa l'esaustività della campionatura, giacché l'analisi verte su esempi presi in Africa, nelle tre Americhe, in Oceania, Siberia ecc.» (Pierre Clastres, "La società contro lo Stato").
Va detto, tuttavia, che nelle società precapitalistiche, come quelle asiatiche, come nello schiavismo e nel feudalesimo esisteva potere, dominio e sfruttamento che consisteva nell'estrazione di eccedenze economiche, in contrapposizione a quello che è lo sfruttamento sotto il capitalismo e che consiste nell'estrazione di plusvalore. Diversi studiosi del Medioevo, come Le Goff, Henri Pirenne, Perry Anderson, ecc. concordano sul fatto che, nel feudalesimo, il comando, il dominio - pur assumendo forme diverse - è sempre stato personale, esplicito, manifesto. Questo dominio personale, di vassallaggio, venne mantenuto anche quando la monarchia ebbe raggiunto un certo grado di complessità. Anderson segnala il fatto che il dominio era extra-economico, evidenziando in tal modo una sostanziale differenza rispetto al dominio nel capitalismo.

Il cambiamento di forma nel capitalismo
Con l'avvento del capitalismo, il dominio subisce un cambiamento qualitativo. Quando la relazione di egemonia e di subordinazione [capitalista] sostituisce la schiavitù, l'asservimento, il vassallaggio, le forme patriarcali ecc. quello che avviene è solo un cambiamento di "forma". La forma diviene più libera, poiché adesso è di natura meramente "materiale", formalmente volontaria, "puramente economica" (Marx). L'esercito, la polizia, la giustizia, la chiesa, la scuola, i partiti politici, i sindacati, l'industria culturale, i media, ecc., formano tutti insieme un'articolazione di istituzioni che ruotano intorno allo Stato, costituendo l'impalcatura istituzionale del dominio del capitale. Il dominio si riproduce in tutti loro attraverso regole ed una struttura gerarchica. Il loro vero ruolo, quello di garantire il dominio sociale, viene mascherato dal momento che si presentano come se fossero delle istituzioni per la riproduzione della vita, o per l'ordinamento della società.
Quando Quino, nell'ultima vignetta, non rende visibili tutte queste istituzioni, probabilmente ci sta indicando che a trattenere il lavoratore è quella forza che lo domina e che gli impedisce di essere libero, ma che non proviene direttamente da quelle istituzioni, né viene esercitata personalmente dal padronato, bensì ha origine nella forma che viene assunta dalla produzione e dallo sfruttamento nel capitalismo.
È l'operaio stesso che ha dovuto vendere liberamente la propria forza lavoro al padrone; ed esso è l'unico modo per poter sfamarsi e per sfamare i propri figli senza andare nuovamente in prigione o senza morire di fame. Paradossalmente, il suo lavoro salariato sta creando una carcere senza sbarre e senza catene. Marx ha spiegato come nel capitalismo (oltre alle istituzioni di controllo sociale) esista un dominio economico che fa sì che il nostro lavoratore lo assuma come naturale e che si presenti come se fosse il prodotto di una decisione formalmente volontaria. Ciò costituisce una caratteristica centrale della nuova forma capitalistica del dominio, di accettazione formalmente volontaria del dominio, vale a dire, un auto-dominio. E Quino lo esprime e lo testimonia nel volto indurito e negli insulti del suo operaio. Il modo di produzione capitalistico ha soppiantato le relazioni sociali personali, caratteristici del precapitalismo, di origine extra-economica, ponendo al loro posto delle relazioni sociali quasi oggettive (si veda Moishe Postone, "Time, Labor, and Social Domination") che sorgono dalle viscere del modo di produzione capitalistico: Relazioni di dipendenza "materiali", in opposizione a quelle "personali" (la relazione di dipendenza materiale non è altro che [l'insieme dei] vincoli sociali che si contrappongono automaticamente agli individui apparentemente indipendenti, vale a dire, [all'insieme dei] reciproci vincoli di produzione convertiti in autonomi rispetto agli individui), e che vengono presentati in modo tale che gli individui sono ora dominati da delle astrazioni, mentre prima dipendevano gli uni dagli altri. (Marx). Dicendoci anche che: Il motivo che spinge un uomo libero a lavorare, è molto più violento di quello che spinge uno schiavo a farlo: un uomo libero deve scegliere tra il lavoro duro e la morte per fame [...] mentre per uno schiavo la scelta è tra lavoro e bastonatura. (Marx) Ed è forse è per questo che per Quino l'operaio finisce di spaccare la pietra assai prima di quanto lo faccia il prigioniero incatenato?
Questo lavoro salariato, dove il lavoratore non ha alcuna possibilità di discutere né come né perché fa ciò che fa, vale a dire non ha né libertà né possibilità di realizzarsi come produttore, dal momento che non è il proprietario del prodotto, Marx lo ha definito lavoro alienato, ed ha affermato che «è la causa immediata della proprietà privata». Ossia, produce proprietà privata - quella stessa proprietà privata che costringe oggi a tornare a lavorare domani in maniera alienata per produrre ancora più proprietà privata - un circolo infernale in cui gli individui non sono dominati direttamente né dal padrone né dal re, bensì dal modo di produzione capitalista, per mezzo di quelle astrazioni che provengono dal lavoro salariato. Un dominio che si presenta a noi come naturalizzato nel modo di produzione.
Questo dominio esercitato dal lavoro alienato non viene percepito chiaramente come se fosse un dominio diretto, istituzionale; ma tuttavia rimane un concetto centrale del lavoro nel capitalismo e lo vediamo nel volto e nelle bestemmie del lavoratore. È frequente e comune, dimenticare quello che è l'auto-dominio indotto dall'ingranaggio di produzione che ci costringe a lavorare per un salario e ad accettare come naturale il fatto che l'unica forma del produrre coincida con quella che avviene attraverso il lavoro salariato. Holloway [in "Cambiare il mondo senza prendere il potere"] sostiene che l'alienazione e la feticizzazione non sono un fatto acquisito, bensì un processo di lotta nel quale il capitalista lotta continuamente per alienare, per dominare mentre il lavoratore oppone a tutto questo la propria ribellione, la propria blasfemia, la propria rabbia e la sua resistenza contro quel processo di dominio. È una lotta per uscire da quella prigione senza sbarre e senza catene, è una lotta per l'auto-emancipazione. Possiamo chiederci si non esista un altro modo di produrre che sia diverso da questo. Marx ci ha detto che un aumento violento dei salari (tralasciando tutte le altre difficoltà, e tralasciando che, come un'anomalia, la cosa potrebbe essere raggiunta solo con mezzi violenti) non sarebbe altro che, di conseguenza, un salario migliore per gli schiavi, e non verrebbe conquistata - né dal lavoratore né dal lavoro - alcuna [auto]determinazione e dignità umana. Un aumento violento dei salari riduce il tasso di sfruttamento, ma nella misura in cui non mette fine al lavoro salariato, al lavoro alienato, non significa affatto lavoro dignitoso. E cosa sarebbe un lavoro dignitoso? Sarebbe un non lavoro, un'attività lavorativa umana diversa, senza dominio, un'attività concordata tra i produttori, non per ottenere un profitto, ma per soddisfare delle necessità sociali, in armonia con la natura e l'ambiente. Un'attività comunitaria autodeterminata, un'attività svolta a partire da una libera cooperazione, in libertà, nella quale tutti ci sentiamo soddisfatti e vincolati a ciò che facciamo. Un'altra forma di produzione rispetto a quella basata sul lavoro salariato, in cui sicuramente la soddisfazione e l'allegria sostituiranno gli insulti e le bestemmie dell'operaio disegnato da Quino. Parafrasando Marx, avremo costruito «per il lavoratore e per il lavoro, l'[auto]determinazione umana».

La rabbia dignitosa
Non si tratta, perciò, solo di una lotta per ridurre lo sfruttamento, e il problema non è solo quantitativo, ma piuttosto qualitativo; è una lotta vista come un processo di disalienazione, come una lotta per la dignità, per l'autodeterminazione, una lotta che dice non al lavoro salariato, perché anche quello meglio pagato rimane sempre un carcere con le sbarre. La rabbia dell'operaio che si vede nella quarta vignetta è sempre relativa alla dignità, all'autodeterminazione sociale nella libertà che comporta un altro modo di produrre. E non si tratta nemmeno di pensare ad una dignità dislocata in un futuro. Ma in ogni momento di lavoro, nel processo stesso del lavoro, la collera e la resistenza, il boicottaggio, oppure l'assenteismo, il ritardo e la mancanza di puntualità, il ritmo lento, l'indisciplina, il sabotaggio, l'indifferenza, sono tutte forme di resistenza quotidiana che danno prova di una avversione al lavoro, e costituiscono un'insubordinazione alla cosiddetta cultura del lavoro, alla disciplina sociale.
E questo, secondo Michael Seidman, è accaduto anche nel bel mezzo della Rivoluzione spagnola (1936-1939) e nei paesi del cosiddetto socialismo reale, così come viene descritto nel film di Andrzej Wajda, "L'uomo di marmo", dove viene resa nota la critica che attraversava l'URSS: «noi facevamo finta di lavorare e loro facevano finta di pagarci uno stipendio». Quando si arriva al culmine delle lotte per gli aumenti salariali e per le condizioni lavorative, si verificano eccessi o si hanno dei momenti di insubordinazione che mettono in discussione il lavoro salariato e la proprietà privata, vale a dire, momenti che superano ciò che è funzionale al sistema. [...] Sì, la rabbia dell'operaio della quarta vignetta è una forza potenziale che in un dato momento diventa il motore che dispiega la dignità in maniera massiccia, ed ecco che allora l'insubordinazione diventa tangibile. È la rabbia dignitosa che apre la strada della lotta per la dignità, e che in tal caso mira a formare un soggetto critico, che unisce il suo pensare ed il suo agire in modo da permettergli di mettere in campo libertà e iniziativa nella lotta sociale per arrivare all'autodeterminazione e alla dignità umana. Una dignità che risiede nella nostra ribellione contro il capitale, nella nostra pratica quotidiana, una dignità che a volte diventa generale, e non solo va contro, ma anche al di là di tutto ciò che ci viene ordinato dal capitale, e guidata dal grido indisciplinato del « !Que se vayan todos!» rovescia i governi, come è accaduto nell'Argentina del 2001, e non cerca di sostituirli con un altro potere, ma persegue un antipotere che non aspetta la rivoluzione come spettacolo che avrà luogo in un giorno futuro, ma indaga ogni momento per vedere come fare a dispiegare la tensione della lotta del nostro agire contro il lavoro.
Abbiamo aperto questo articolo con l'omino che, dopo avere riottenuto la sua libertà, continua ad essere prigioniero, il quale essendo parte di una striscia silenziosa ci urla contro e ci chiama in causa, prima contro la galere e poi contro il dominio messo in atto dal lavoro. Forse è possibile che la sua immagine sia così forte perché riesce a parlare a ciascuno di noi, e piuttosto che un operaio potrebbe benissimo essere un impiegato, o un medico, o uno studente costretto ad imparare una lezione che non gli piace, ecc., dal momento che in essa ciò che si riproduce è una contraddizione in cui ci ritroviamo noi tutti. Il lavoro come prigione, come negazione del proprio essere umano, e come riproduzione del sistema capitalistico. E l'insulto, l'imprecazione come una delle infinite forme di protesta, come ribellione, anche visto nel tempo presente, come qui e ora che ci chiama in causa e ci convoca all'insubordinazione con la forza di una rabbia, di una collera dignitosa che si esprime con le nostra grida, con la nostra rabbia, con le nostre pietre.

Néstor Lòpez -  Pubblicato nel settembre 2019 su Comunizar -

Bibliografía

Anderson, Perry (1999): Transiciones de la antigüedad al feudalismo, España, Siglo XXI Editores.
Clastres, Pierre (1978): La sociedad contra el Estado, Caracas, Monte Ávila Editores.
Quino: http://ja-jp.facebook.com/note.php?note_id=105901457886
Marx, Karl (1989): Elementos Fundamentales para la Economía Política (Grundrisse) 1857-1858. México, Siglo XXI Editores.
Marx, Karl (1990): El Capital Libro I, Capitulo VI (Inédito), resultado del proceso inmediato de producción. México, Ediciones Siglo XXI.
Marx, Karl (2004): Manuscritos económico-filosóficos de 1844. Buenos Aires, Edición Colihue Clásica.
Holloway, John (2002): Cambiar el Mundo sin tomar el poder. Buenos Aires. Ediciones Herramienta- Benemérita Universidad Autónoma de Puebla.
Seidman, Michael (s/d) en Hacia una historia de la aversión de los obreros al trabajo: Barcelona durante la revolución española, 1936-38. Barcelona, Etcétera.http://www.sindominio.net/etcetera/PUBLICACIONES/minimas/seidm.doc
Postone, Moishe (2006):Tiempo, trabajo y dominación social, Una reinterpretación de la teoría crítica de Marx. Madrid, Marcial Pons.

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