Il periodo storico in cui siamo collocati è informato da una visione di matrice liberale e da un indirizzo economico capitalista. Ma cosa significhi qui davvero “liberale” e quale nesso vi sia con il capitalismo è tutt’altro che ovvio. Il primo compito che questo testo si assume è dunque quello di fornire un chiarimento circa la genesi di lungo periodo della “ragione liberale” in Occidente, seguendone la maturazione dal XVII secolo al presente. Questo passo è necessario per identificare cosa conti come nucleo centrale e cosa come periferia accessoria nello sviluppo liberale. In seconda battuta il testo mira a identificare la logica di fondo che alimenta la ragione liberale, logica che nutre i processi capitalistici, ma va ben al di là di essi. Ne emerge un quadro in cui la ragione liberale non ha più bisogno di essere “rappresentata” perché ha occupato tacitamente l’intero spazio concettuale del politico. Essa gioca oramai tutte le parti in commedia, maggioranze e opposizioni, destra e sinistra, dissimulando la sistematica operazione di distorsione di senso che ha operato. Accade così che le ramificazioni della ragione liberale si siano insediate in intellettuali e movimenti che si ritengono “neutrali”, o persino “anticapitalisti”. E questa occupazione, pervasiva quanto inavvertita, sta alla base della percepita impossibilità di concepire alternative, e dunque dello scacco perenne in cui si agita la coscienza contemporanea.
(dal risvolto di copertina di: Andrea Zhok "Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente", Meltemi.)
Il sogno del capitalismo perfetto rischia di distruggere la società e il mondo
- Dopo secoli di successi, il mito del mercato che si autoregola sembra condurre l'umanità verso la catastrofe -
di Claudio Gallo
L'ideologia ultima e più insidiosa, la morte delle ideologie, è l'espressione del trionfo del liberalismo maturo con l'etichetta, già parzialmente deteriorata ma ancora egemonica, di neoliberalismo. Citare il saggio del 1992 di Francis Fukuyama sulla fine della storia è diventato un riflesso condizionato un po' stucchevole, che funziona però bene come immagine in un mondo sempre più orientato a (non)pensare per immagini. Alle sopracciglia alzate di chi vuole salvare la purezza del liberalismo originario e criticare il legame diretto tra liberalismo e neoliberalismo, bisognerebbe ricordare le impietose analisi, per lo più provenienti dai suoi stessi quartieri, del comunismo storico come esito concreto del pensiero comunista, per dileggiare chi ancora s'illudeva sulla possibilità di un'applicazione più umana dei principi marxisti: il mitico comunismo a Beverly Hills.
Nel mondo iper-finanziarizzato di oggi, nessuno direbbe ad esempio che l'ordoliberalismo tedesco, il celebrato capitalismo renano dal moderato orientamento sociale, abbia vinto la battaglia per la sopravvivenza della teoria più adatta. Nell'impresa quasi controintuitiva di svelare che il re è nudo, si cimenta Andrea Zhok, docente di filosofia all'Università Statale di Milano, in "Critica della ragione liberale", uscito da Meltemi.
L'uso del termine «ragione liberale» nasce dall'intento di dare un senso definito all'oggetto della critica, cosa impossibile con un concetto vago ed elastico come liberalismo, radicato in una storia che s'inizia almeno nel XVII secolo e che nel suo significato genericamente percepito incarna i valori della libertà, del parlamentarismo,dello stato di diritto. Con un tale mantello per tutte le piogge, è difficile non pensare che la maggioranza dei cittadini occidentali non possa non dirsi liberale. Ma proprio l'originaria indeterminatezza dei principi liberali, che si strutturarono in opposizione alle concezioni ereditarie e nobiliari del potere, richiede la ricerca di un nucleo fondante, aldilà dei tatticismi di percorso. La stessa opzione democratica fa parte del patrimonio storico del liberalismo ma non è un tratto imprescindibile del suo Dna, come per altro dimostrano, oggi in estremo oriente, i tentativi di realizzare società di mercato in cornici autoritarie.
Secondo Zhok, i tratti di fondo del «liberalismo reale» come si sviluppa da Hobbes a Locke fino all'economia neoclassica dell'ultimo '800 e ancora oltre a Von Hayek e Milton Friedman, è un «manifesto individualismo normativo e assiologico» e «una visione delle relazioni sociali strutturata intorno all'idea dello scambio economico». Ha ricordato recentemente Jean Claude Michea che le interminabili guerre di religione tra '500 e '600 avevano reso gli autori del nascente liberalismo diffidenti sulla possibilità che i valori forti, come la fede, potessero fondare una società stabile. La conseguenza fu che nella ragione liberale si fissò un nucleo essenzialmente negativo: è prescritta la non interferenza in uno scenario dove non esistono valori obiettivi ma soltanto propensioni individuali. C'è da un lato una realtà esterna, definita dalla logica razionale e necessaria della nascente scienza, e dall'altro l'arbitrarietà irriducibile delle pulsioni individuali. A mediare tra questi mondi incomunicabili resta soltanto il mercato, gli scambi auto-interessati che diventano l'origine e il motore di qualsiasi socialità. Allora, «l'imporsi della ragione liberale non può essere letto in modo disgiunto dall'imporsi del capitalismo come sistema di produzione».
A questo punto nascono le difficoltà. Nonostante la ragione liberale, con la cristallizzazione di un nuovo paradigma storico che permise di superare l'Ancien Régime, abbia una secolare storia di progressi e successi, le sue premesse sono basate su un mito che alla lunga, nella stagione in cui «non ci sono alternative», sta mostrando tutta la sua pericolosa astrattezza. L'esito di questo processo è una progressiva disumanizzazione della società e una crescente minaccia ambientale. Il mercato infatti non è in nessun modo un'istituzione naturale,come si è soliti dare per scontato. Ha mostrato Marcel Mauss che la forma primaria di transazione interpersonale non è quella del baratto ma quella del dono.
Scrive Zhok sulla scorta delle osservazioni di Karl Polanyi: «Il baratto, così com'è antropologicamente e storicamente riscontrabile, è una transazione di mutuo interesse che presuppone una cornice sociale unitaria: il villaggio, il paese,la città». In questo senso, i mitici cacciatori di Adam Smith che applicano il baratto in quanto individui isolati sono una pura astrazione metodologica.
Con la crescente adozione da parte dell'economia degli stilemi scientifici, matura l'idea di un'esistenza indipendente della sfera economica separata dall'etica e dalla politica, «idealmente capace di autoregolarsi senza bisogno di interventi esterni». La celebre «mano invisibile del mercato», citata una sola volta nella Ricchezza delle nazioni da Smith e poi diventata un altro mito fondativo della ragione liberale, è soltanto una versione laica della provvidenza. Il capitale da mezzo diventa fine, acquistando una dimensione illimitata che si contrappone, distruttivamente, all'ineliminabile finitezza umana. Zhok dedica l'ultima parte del libro a mostrare come le ideologie rivendicazioniste che attraversano la nostra società, dai diritti umani al politicamente corretto, sono coerenti con la «ragione liberale» e in nessun modo ne mettono in discussione gli assunti, anzi, ne continuano la politica con altri mezzi.
Certo, la capacità di autocorrezione tipica del metodo scientifico ha permesso all'economia liberale di ottenere risultati rimarchevoli, nonostante le premesse filosofiche inconsistenti. Tuttavia, che il capitalismo «abbia i secoli contati» potrebbe non essere più vero nel nostro mondo in cui crescono le diseguaglianze e gli orologi del disastro ambientale e dell'apocalissi atomica vanno sempre più in fretta.
- Claudio Gallo - Pubblicato su TuttoLibri dell'11 luglio 2020 -
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