Rubare libri non è un furto
- di Bárbara Ayuso -
Rubare libri è qualcosa di veramente importante. E non per il rischio, per la scarica di adrenalina che si riceve grazie al crimine né per l'aura vagamente romantica del furto intellettuale. Lo è perché sono quelli, quelli che un giorno tempo fa abbiamo infilato nel cappotto, quelli che abbiamo fatto scivolare in una borsa, oppure abbiamo strettamente infilato nella cintura dei pantaloni, quelli sono i libri che ricorderemo per sempre. No, non il libro che ci ha spinto verso (o ci ha allontanato dal) la scrittura, e neppure quello che ci ha fatto prima uscire e poi rientrare all'inferno, facendoci piangere o ridere a crepapelle, o quello che ci ha messo in imbarazzo perché ci ha tenuto svegli per molte mattine. E neppure quello che non abbiamo più trovato, o quello che potremmo recitare tranquillamente a memoria. No, è quello che abbiamo rubato insieme, si spera, poi a qualche altro. E questo perché, in qualche modo, quelle pagine rubate recano in sé, inoculato, l'antidoto contro l'oblio, e ci hanno lasciato come un'impronta, simile a quella che lasciano gli amori turbolenti, quelli che pensavamo di possedere, pur sapendo che non sarebbero mai stati del tutto nostri. E che si aggrappano al nostro subconscio come delle zecche.
«Che il libro rubato si trasformi in un serpente e ti divori». Così, durante il Medioevo, ammonivano alcune iscrizioni nelle biblioteche ecclesiastiche, cercando di dissuadere gli affezionati allo sconto a cinque dita. Le catene arrugginite non scoraggiavano. E così, Papa Pio V non ebbe altra scelta se non quella di ricorrere al sempre utile appello del «vedrete dopo», istituendo nel 1568 il decreto di scomunica per i ladri. Da quel momento cominciarono a prolificare iscrizioni con questo o altri anatemi - di uno squisito orrore grafico - le quali, oltre ad avvertire il razziatore che aveva appena imboccato il corridoio che lo avrebbe condotto direttamente all'inferno, gli sussurravano che gli era stata scagliata addosso una sorta di maledizione: questo libro, amico mio, lo leggerai. E non importa se l'hai già fatto. E questo serpente resterà per sempre con te, e quindi è meglio che ne sia valsa la pena.
Ecco perché chi ha rubato molti libri sa per quel che riguarda quest'arte, come per scopare è meglio non farlo al buio o di fretta. «Il bello di rubare libri (e non casseforti) è che, prima di commettere il reato, se ne può esaminare attentamente il contenuto», sosteneva Roberto Bolaño, uno dei più grandi bibliocleptomani del secolo scorso. Il cileno non era di certo uno che rubava così, per impulso o per capriccio; e per motivare la sua compulsione ad andar via dalla libreria de Cristal con un segreto di forma rettangolare ben nascosto e stretto al petto, non dipendeva certo dall'essere a corto di capitale. Né tantomeno si trattava di un tentativo malriuscito di democrazia culturale, come dicono i suoi detective. Rubava perché - e questo è un azzardo fatto solo per il gusto di azzardare, e come si conviene è un'espressione che rubo a Hernán Casciari - la passione «di solito entra dalle porte del divieto». Così, quello che lo scrittore Rodrigo Rey Rosa chiama «impulso libresco» non viene vissuto solo dalla sua "Severina", ma anche da tutta una miriade di scrittori, alcuni dei quali hanno persino il coraggio di scoprirsi e di elevarlo a categoria dell'arte; come fa Rodrigo Fresán che coraggiosamente affronta chi sostiene che «rubare libri è la forma più egoistica di furto». E che ci crediate o meno, ce ne sono! «Quando si rubano libri, si è sia persona che personaggio», contrattacca l'argentino. «In realtà, rubare libri è una forma di letteratura sportiva. Quando scriviamo o leggiamo, siamo seduti o sdraiati, quasi immobili. Quando rubiamo libri, invece, i muscoli del nostro cervello agiscono in perfetta comunione con quelli del nostro corpo. Quando si rubano libri, si pensa e si agisce e, in un certo senso, si legge e si scrive», sostiene.
Ma veniamo al punto. La cosa davvero negativa del rubare libri consiste nel fatto che noi non prestiamo attenzione a quello che gli altri rubano. Invece chiediamo, in maniera ridicola, qual è il libro preferito dell'altra persona, cercando di carpire qualche certezza riguardo la sua personalità. Stronzate. Se volessimo davvero tracciare un identikit, allora dovremmo costringerlo a confessare quali sono i titoli che ha rubato, la momento che in tutto ciò si nasconde una storia meravigliosa, che ci risparmia qualsiasi pretestuoso pellegrinaggio, così come ogni ondata di pigrizia superlativa e pseudo-intellettuale. «Qual è stato il primo libro che hai rubato?», e voilà! Ecco che mostrarsi intelligenti diventa complicato, e probabilmente finiremo per umiliarci ammettendo che non è stato né un Thomas Mann né un Faulkner quello che abbiamo portato a casa senza passare dalla cassa.
La conseguenza più tragica è che, a forza di non prestare attenzione ai libri che gli altri rubano, quei libri verranno ricordati solo dal ladro. Me ne sono accorto di recente, nel momento in cui ho dovuto chiedere a un autore di questa rivista in cui scrivo, quale libro rilegato avesse rubato a un altro autore di questa stessa rivista. E dire che ho assistito al furto, portato a termine non appena il ladro era riuscito a lasciare la stanza non visto grazie a un complesso e accurato movimento. «Non ti ricordi?», mi ha chiesto. E io mi sono ricordata di quella notte in cui se n'era andato in giro con il volume rubato, esibendolo davanti al suo autore, e promettendo che sarebbe tornato l'indomani mattina in libreria per pagarlo in contanti senza nemmeno aspettare il resto. Pioveva; il che è sempre bello e vero. Ci furono anche alcune centinaia di brindisi che formalizzarono questo impegno tra ladro e derubato, e un sacco di applausi. Inutile dire che l'impegno non è mai stato rispettato. In definitiva, potrei anche ricostruire i milioni di dettagli di quella serata di bohème a buon mercato e di una rediviva Rosalía de Castro che chiama un taxi, ma mai e poi mai riuscirei a ricordare il titolo del libro rubato.
I libri più rubati
Questa incapacità di ricordare fa sì che sia impossibile sapere quale è stato il libro più rubato della storia. A fare affidamento sulla letteratura, sarebbe sicuramente il Necronomicon, ma di H. P. Lovecraft bisogna fidarsi quanto basta, e anche della letteratura! Per sapere quali sono quei libri che posseggono quell'aura impalpabile che attira il crimine, ci si può rivolgere solamente a chi, alla fine di una giornata di lavoro, si arresta davanti a uno scaffale perché ci trova non tanto un buco, quanto piuttosto un'assenza dovuta ad appropriazione indebita. Sul web si possono trovare innumerevoli liste compilate da librai ed editori, le quali riportano quali sono le opere che più frequentemente hanno abbandonato gli scaffali senza che poi si sia passati dalla cassa. Barnes & Noble li compila, e anche Big Green Bookshop lo fa. Anche Publishers Weekly stila il suo quintetto di punta. Ci sono liste di fronte alle quali si arrenderebbe persino Perec: quella del New York Times, del Telegraph, delle biblioteche pubbliche e si può persino trovare quella compilata dall'ultima libreria indipendente in un qualsiasi angolo del mondo. E sono esattamente proprio quello che sembrano: brandelli di realtà, frammenti slegati tra loro che ci rendono impossibile riuscire a incoronare uno di essi in quanto libro più rubato della storia, senza che ci sia la possibilità di consegnare lo scettro a un bastardo. Ma lungo il percorso, si possono trovare dei sassolini. Per quanto possa far male solo rammentarlo - nessuno credo sia riuscito a digerire il fatto che non ci sarà MAI PIÙ Discworld - il suo nome va messo in cima a questa lista di candidati. Tra i suoi tanti titoli, oltre a non essere mai stato nominato per un Booker Prize o per un Whitbread - i premi che le pubblicazioni patinate continuano ad affidare a letture per adolescenti con l'acne - troviamo quello che, per anni, ha detenuto il titolo di essere stato l'autore più rubato nel Regno Unito, secondo la classifica stilata dal Times. E gli fa talmente tanto onore che sarebbe stato il genere di cosa di cui Pratchett si sarebbe vantato, se non sapessimo che la spavalderia non rientra tra le cose veramente importanti. O almeno è stato così per qualche tempo, allorché il buon vecchio Terry si rifugiava in un confortante e acido sorriso quando sentiva quella cifra di origine incerta, secondo la quale il 10% dei suoi libri veniva effettivamente rubato. «Non mi dà fastidio, anzi. È un onore», ripeteva bonariamente. E a dirlo non era il milionario, ma il fantastico narratore che probabilmente se n'è andato con un filo di amarezza: «Ho come la sensazione di dover essere incasellato nella categoria dei libri buoni per le persone che non sanno leggere», diceva.
Ma - come ogni uomo allergico all'adulazione - Pratchett aveva anche una particolare avversione per le cifre che spuntano dal nulla. Soprattutto dopo che, anno dopo anno, la stampa si ostinava a chiedergli di sua «figlia diciassettenne» che, grazie a Wikipedia, sembrava aver fatto un patto con il diavolo per non invecchiare mai. In modo che nel 2006, durante un'intervista della BBC con Mark Lawson, preferì seppellire la leggenda: «Continuano a dirlo [che è l'autore più rubato del Regno Unito], ma sono sicuro che qualcuno mi ha già superato, visto che questa notizia è apparsa per la prima volta nel 1996. Diventando così una di quelle cose che su Internet sembrano immutabili», ha chiarito, per quanto lui stesso non avesse dubbi sul fatto che l'epiteto avrebbe continuato a essere usato ad eternum, e tantomeno pensasse che fosse una cosa negativa. E visto che ancora non è stato inventato il titolo/premio/riconoscimento che meritava davvero (quello di «autore che ha reso felice il maggior numero di persone»), ecco che allora «autore più rubato» ci sta bene; a metà strada tra fantasia e realtà, come lui. Se si considera che ha proclamato che «ciò che ci rende umani è l'immaginazione, non l'intelligenza», cosa c'è di più immaginifico delle cifre prese da internet.
Ma schiariamoci la voce, e passiamo a un autore la cui ironia non traspare dal suo viso, ma il quale ha ricevuto la sua nomina satirica con tanto di fanfara. Immaginate di essere un feroce Yippie, che nella sua veemenza contro-culturale scrive quello che vorrebbe che fosse il manifesto sovversivo definitivo in grado di minare il sistema capitalistico una volta per tutte. E per di più lo scrive dalla prigione, dov'è finito per aver indossato una maglietta con la parola "Fuck". Bisogna anche immaginare di essere da qualche parte tra gli anni Sessanta e i Settanta, sennò la cosa non funziona. Insomma, immaginate di dare inizio allo spettacolo che spiega come ottenere praticamente tutto ciò che il vostro piccolo cuore anarchico può desiderare e, soprattutto, come farlo gratuitamente. Cibo, vestiti, droghe, libri, persino i bisonti. E immagine che egli riversi tutta la sua allucinata esperienza riguardo il rubare in un libro, dove oltre ai consigli fornisce al lettore giustificazioni teoriche che non si limitino a invitare al furto, ma lo rendono imperativo: «Rubare a un fratello o a una sorella è sbagliato. Non rubare alle istituzioni che sono i pilastri dell'Impero suino è altrettanto immorale», arringa. E non appena lo ha finito di scrivere, l'allievo di Herbert Marcuse, fa stampare e distribuire questo suo furioso manifesto a più di trenta editori. Non si stupisce che lo mandino nuovamente in galera, così Abbie Hoffman per poter diffondere alle masse il suo manoscritto, fonda apposta una casa editrice, chiamandola Edizioni Pirata. E con un'ulteriore dimostrazione di originalità, considerato che non ha interessi finanziari corrotti, di conseguenza dà al libro il titolo di: "Ruba questo libro". Poi, per un po' assapora la dolcezza di questo suo particolare successo, vedendo come, giorno dopo giorno e furto dopo furto, molti giovani accoliti trasformino la sua opera nella bibbia della loro generazione, mettendo in pratica i consigli del suo manuale di sopravvivenza; e diventando così un po' meno indifesi nei confronti dell'enorme potere del denaro, dello Stato e dei media. Sorride maliziosamente mentre ascolta i proprietari di molte librerie che si rifiutano di esporre il suo libro sui loro scaffali, in quanto, irrimediabilmente - o almeno così sembra - nessuno lo pagherà. Però, ora, signor Hoffman mandi giù il trionfo, lo deglutisca, e e si prepari al peggio. Se questo libro riuscisse a vendere - in seguito a una transazione monetaria e fiscale legale - più di duecentocinquantamila copie già nel primo anno di pubblicazione, cosa direbbe? Potrebbe scervellarsi quanto vuole, ma finirebbe per uscirsene con qualcosa del genere: «È imbarazzante quando si cerca di rovesciare il governo e invece si finisce nella lista dei bestseller». Come ha detto lui stesso. Ma che gli piaccia o meno - se lo ha letto o meno da qualche parte - fatto sta che Hoffman, proprio negli anni in cui Stéphane Hessel è salito sul suo pulpito, anche "Ruba questo libro" lo si può trovare in tutte le liste dei libri più rubati. Sì certo, ma è un "anche", che però vuol dire che è meno rubato!
Palahniuk, Auster e Schwarzenegger
Essere talmente irresistibilmente attraente al punto che la gente preferisce essere spinta al crimine piuttosto che non leggerti. Quale ego di scrittore non sobbalzerebbe di fronte a una simile prospettiva? Forse è esagerato dire che tutti coloro che di mestiere scrivono libri desiderano segretamente una telefonata del loro editore - il quale di solito deve essere un tipo eccentrico ma rigoroso - che una mattina gli ululi dall'altro capo del telefono che: «La gente non riesce a smettere di rubare il tuo libro!». Ma non è però irragionevole immaginare che molti possano cedere a questa euforia colpevole, dimenticando il problema dei grandi profitti, che il furto di massa sottrarrebbero loro; insieme a tutta la panoplia a proposito del pane per i loro figli. La proprietà intellettuale può anche aspettare. Però, azzardare un'ipotesi potrebbe poi non essere così gratuito, almeno stando alle reazioni che hanno avuto alcuni degli scrittori più rubati, quando sono stati interrogati sull'argomento.
«Onestamente? Be', nel 1975 o nel 1976 ho rubato un'enorme copia de "La gioia del sesso". L'ho nascosta nei pantaloni, non scherzo. Se rubi un tascabile, mi paghi solo venticinque centesimi», ha risposto Chuck Palahniuk a un lettore che, durante una chat su Reedit, ha chiesto allo scrittore se fosse giusto o sbagliato rubare libri.
Al riguardo, Paul Auster è stato meno euforico, e quando in un programma radiofonico gli è stato chiesto come ci si sentisse a essere in tali classifiche, si è cullato nella tiepidezza (autunnale, così com'è lui). E anche a essere, in alcune di esse, l'unico autore vivente che la gente portava via senza pagare. «Si sentirebbe meglio se sapesse che coloro che rubano i suoi libri sono più lettori che ladri professionisti?», gli è stato chiesto. «Sì, credo di sì. In qualche modo, mischiare il marketing a tutto questo rende la cosa un po' sgradevole. Se a voler leggere il libro fosse una persona appassionata e povera, allora potrei capirlo un po' meglio», ha risposto. «Per quanto mi senta onorato del fatto che le persone vogliono leggermi così tanto da dover infrangere la legge, per farlo», si è affrettato ad aggiungere. Aggirare l'incantesimo romantico non è così facile, e anche Auster deve nutrire il suo ego.
L'unico a non essere mai stato interpellato, è il celebre Arnold Schwarzenegger, e se lo sarebbe meritato. Dal momento che, in questa lista eterodossa che si trova qui per eludere ogni comprensione, il suo caso è esemplare. Il suo libro, "The New Encyclopedia of Modern Bodybuilding" è stato nel Regno Unito - sempre secondo la classifica del Times - una delle opere più rubate dell'anno. Il fervore dei ladri di proto-bodybuilding è stato tale che la biblioteca di Liverpool ha deciso di non rimpiazzare più le copie che venivano rubate, stanca di contemplare in silenzio l'insostituibile vuoto sullo scaffale.
Spero che questo ultimo trafiletto non metta in ombra quelli che sostengono - come fanno Fresán e Bolaño - che rubare libri è «il crimine più bello del mondo». E questo anche a partire dal fatto che se hanno ragione su qualcosa, allora questo qualcosa è che noi siamo tutti quei libri che rubiamo, che poi finiscono per essere proprio quelli i libri che lasciano cicatrici. «Rubare libri non è rubare», dice una citazione che circola su Internet allegramente attribuita a José Martí. Però non esiste alcun libro che ne confermi la paternità, quindi dobbiamo accontentarci di un timido e vigliacco "Forse"!
- Bárbara Ayuso - Pubblicato su Jot Down -
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