Stretta monetaria, inflazione e fallimenti bancari
- di Michael Roberts -
La scorsa settimana il presidente della Fed statunitense Jay Powell ha parlato al Congresso degli Stati Uniti, rilasciando una dichiarazione sull'inflazione e sulla politica monetaria della Fed, spaventando i mercati finanziari allorché è sembrato affermare che gli ultimi dati sull'economia avrebbero probabilmente richiesto degli ulteriori rialzi dei tassi di interesse, e a un ritmo ancora più rapido. Powell ha sottolineato che, sebbene il tasso di inflazione globale sia diminuito, il tasso di inflazione "core" [di fondo], che esclude i prezzi dell'energia e dei generi alimentari, è rimasto comunque "sticky" [vischioso]. Oltre tutto, il mercato statunitense del lavoro sembra essere ancora eccezionalmente forte, giustificando così la necessità di controllare l'impatto che avrebbero eventuali aumenti salariali. Ha quindi nuovamente ribadito che sarebbe stato necessario aumentare ulteriormente il tasso di riferimento della Fed (che fissa la soglia per tutti gli altri tassi di prestito), e questo fino a quando i costi salariali non torneranno sotto controllo.
Ancora una volta, Powell - così come altri governatori delle banche centrali - ha affermato che l'inflazione sarebbe causata da un «eccesso di domanda», e si corre pertanto il rischio che l'aumento dei salari provochi una «spirale salari-prezzi». Tuttavia, ci sono molte prove che a causare l'accelerazione dell'inflazione, non siano la domanda eccessiva né la spinta dei salari. Ne ho parlato, producendo le prove, in diversi post precedenti. E in un post recente, ho ricordato un lungo studio di Joseph Stiglitz, il quale forniva dei dati esaurienti che dimostrano come l'inflazione sia stata causata da alcune carenze dal lato dell'offerta, e non da una «domanda eccessiva». Da allora in poi, sono venute fuori altre ulteriori prove a sostegno della teoria dell'offerta. Un recente studio ha rilevato che quando l'economia è uscita dal lockdown pandemico e dalla crisi del COVID, si è allora verificato un incremento nell'acquisto di più beni. Tuttavia, i produttori non sono stati in grado di far fronte a una tale impennata. «Il dato principale è stato quello per cui lo spostamento della domanda di consumi, passata dai servizi ai beni, può spiegare gran parte dell'aumento dell'inflazione statunitense avvenuto tra il quarto trimestre del 2019 e il quarto trimestre del 2021. Questo shock dovuto alla riallocazione della domanda, si è rivelato inflazionistico a causa dei costi di aumento della produzione nei settori che producono beni, e ciò dal momento che tali settori tendono ad avere prezzi più flessibili rispetto a quelli che producono servizi». E tutto ciò rappresenta un'ulteriore prova che il picco inflazionistico è stato guidato per lo più dai costi che non sono legati al lavoro (materie prime, componenti e trasporti) ed è stato causato dai forti aumenti dei margini di profitto. Gli aumenti salariali hanno dato il contributo minore.
Gli ultimi dati statunitensi sugli aumenti salariali confermano l'assenza di un'inflazione "spinta dai salari".
E questo non solo negli Stati Uniti. Nell'Eurozona, appare ancora più vero che sono i costi non lavorativi e i profitti ad aver guidato i tassi d'inflazione. La BCE ha recentemente pubblicato una stima, rispetto all'inflazione nell'Eurozona, di quale sia stato il contributo dei profitti, delle imposte e del costo del lavoro.
Ebbene, anche in questo caso, si può allora sostenere che una politica monetaria più restrittiva, ossia l'aumento dei tassi di interesse per aumentare il costo dei prestiti, e la riduzione dell'offerta di moneta attraverso la vendita dello stock di obbligazioni delle banche centrali, possa ancora far scendere l'inflazione? Beh, non secondo la stessa analisi della BCE. In uno studio, la BCE ha rilevato che un aumento dei tassi di interesse di 1 punto percentuale riduce l'inflazione solo di circa 0,1-0,2 punti percentuali. La BCE stima inoltre che il maggiore effetto negativo su base annua dei rialzi dei tassi sul PIL si concretizzerà solo dopo nove trimestri!
La chiave dell'inflazione si situa dal lato dell'offerta. In particolare, nel lungo periodo, rappresenta il tasso di crescita della produttività in qualsiasi economia. Se la crescita della produzione per dipendente rallenta, o addirittura diminuisce, i costi per ciascuna unità di produzione aumenteranno, e ciò costringerà le aziende a cercare di aumentare i prezzi. Un altro recente studio sostiene che «gli sbalzi dei costi a livello settoriale e le strozzature dell'offerta» creano le condizioni, per quelle aziende con un certo potere di determinazione dei prezzi, di aumentare i prezzi e proteggere così i margini di profitto. Diventa «inflazione dei venditori». La crescita della produttività è fondamentale per l'inflazione. In effetti, negli ultimi due decenni si è registrata una forte correlazione inversa (0,45) tra la crescita della produttività e i tassi di inflazione.
Ora, Powell parla di aumentare e accelerare i tassi. Ma l'impatto dei precedenti rialzi non ha praticamente influito sull'inflazione. E anche il controllo dell'offerta di moneta non sembra avere poi un così grande effetto sull'inflazione, contrariamente all'opinione dei monetaristi. La Bank for International Settlement (BIS) è l'associazione internazionale delle banche centrali a livello mondiale. I suoi economisti sono fermamente monetaristi e sostenitori della scuola austriaca del libero mercato. In un recente studio, la BIS ha riscontrato «una correlazione statisticamente ed economicamente significativa, in una serie di Paesi, tra la crescita della moneta in eccesso nel 2020 e l'inflazione media nel 2021 e nel 2020». John Plender del Financial Times - un altro opinionista della scuola austriaca - ha dichiarato che «non è necessario essere un vero e proprio devoto della teoria della quantità di denaro, per capire che il boom dei prezzi delle case e dei titoli azionari statunitensi dello scorso anno era sostanzialmente dovuto a una quantità eccessiva di denaro a caccia di un numero insufficiente di attività».
Qui si possono notare due cose. In primo luogo, la causalità. Come ammette la BIS, «il dibattito riguardo la direzione della causalità, nel legame tra moneta e inflazione, non si è completamente risolto. L'osservazione che la crescita della moneta oggi aiuta a prevedere l'inflazione domani, non implica di per sé una causalità». Potrebbe essere che «sia il reddito, e non la moneta, a far aumentare la spesa, con il bilancio monetario che funge da segnale». Ma qui poi la BIS continua sostenendo che «la causalità non è né necessaria né sufficiente a che la moneta abbia un contenuto informativo utile per l'inflazione; che è il nostro obiettivo qui».
Veramente? Non è forse importante che sia l'attività economica, la produzione e la crescita della spesa a guidare l'offerta di moneta complessiva, o viceversa?
In secondo luogo, Plender osserva che l'aumento dell'offerta di moneta si trova associato all'aumento dei prezzi delle case e delle azioni; e lo fa senza alcun riferimento ai prezzi di beni e servizi. E questo è il punto. La forte crescita della massa monetaria e i bassi tassi di interesse, fino al momento della pandemia non hanno portato a un aumento dei prezzi e a un'accelerazione dell'inflazione nei negozi. Al contrario, l'offerta di moneta ha alimentato un boom del credito che si è espresso in un boom del settore immobiliare e delle attività finanziarie. Ciò che manca nell'argomentazione monetarista è che le variazioni dell'offerta di moneta possono significare anche variazioni della velocità della moneta, cioè del tasso di rotazione dello stock di moneta esistente. Se la velocità della moneta diminuisce, significa che i detentori di denaro contante non lo stanno spendendo in beni e servizi, ma se lo tengono in depositi, oppure investono in immobili e attività finanziarie. Così, quando nei primi due decenni di questo secolo la crescita dell'offerta di moneta ha accelerato, la velocità del denaro è diminuita, e questo perché il contante è stato utilizzato nella speculazione finanziaria e immobiliare.
Ma notate il cambiamento avvenuto dopo la pandemia. La Fed ha ristretto l'offerta di moneta per controllare l'inflazione. Dopo essere esplosa nel 2020 durante il crollo della pandemia, l'offerta di moneta si sta ora contraendo.
Al contrario, la velocità della massa monetaria sta aumentando, contrastando l'impatto di una politica monetaria più restrittiva. Ciò rende qualsiasi politica monetaria restrittiva inefficace sull'inflazione, ma non necessariamente sulla crescita economica e sull'occupazione. La politica della Fed non funzionerà, se non per accelerare lo scivolamento verso la recessione economica. I ricercatori della Fed di Cleveland hanno analizzato le più recenti proiezioni economiche del FOMC. Il loro modello prevede che l'attuale previsione di disoccupazione del FOMC porterebbe l'inflazione PCE di base al 2,75%, ma solo entro il 2025. E così ora abbiamo il crollo della SVB come risultato dei rialzi dei tassi di interesse della Fed. Si veda il mio post. In effetti, questo potrebbe costringere la Fed a fare una pausa nel suo piano di rialzo dei tassi d'interesse più elevato e più rapido. La Fed si trova in un dilemma: più rialzi dei tassi potrebbero significare più fallimenti bancari e recessione; ma interrompere i rialzi significa che la Fed è sdentata di fronte all'inflazione. Il peggio deve ancora venire per il cosiddetto Sud globale. Se la Fed continuerà a rialzare i tassi, il dollaro USA riprenderà forza dopo la recente breve pausa (grafico sotto).
Il debito globale totale è ora superiore a 300mila miliardi dollari, pari al 345% del PIL complessivo, rispetto ai 255mila miliardi di dollari, pari al 320% del PIL, prima della pandemia di Covid-19. Più il mondo si indebita, più è sensibile agli aumenti dei tassi. Per valutare l'effetto combinato dell'indebitamento e dell'aumento dei tassi, The Economist ha stimato la spesa per interessi di imprese, famiglie e governi di 58 Paesi. Insieme, queste economie rappresentano oltre il 90% del PIL mondiale. Nel 2021 la loro spesa per interessi ammontava a 10,4mila miliardi di dollari, pari al 12% del PIL complessivo. Nel 2022, la spesa per interessi ha raggiunto l'enorme cifra di 13mila miliardi di dollari, pari al 14,5%. Poiché gran parte del debito delle economie del Sud globale è in dollari, l'apprezzamento del dollaro rispetto alle loro valute rappresenta un ulteriore onere. Le economie in via di sviluppo spendono oggi più per il servizio del debito estero che per la salute dei loro cittadini!
Quindi non è solo la recessione a essere all'ordine del giorno nelle economie del G7, ma anche il default e il crollo del debito stanno già iniziando anche nelle economie «in via di sviluppo» (ad esempio Sri Lanka, Zambia, Pakistan, Egitto).
- Michael Roberts - Pubblicato il 13/3/2023 su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist -
Nessun commento:
Posta un commento