Francia: contro la riforma delle pensioni, per la fine del lavoro
Editto Collettivo
A forza di sentirla - la cantilena - abbiamo quasi finito per assimilarla: la gioventù è precarietà. Prima a scuola, all'Università o nell'alternanza scuola/lavoro, e poi al lavoro, negli stage, nel lavoro interinale o nei Contratti a Tempo Determinato, e anche nelle trappole per topi dove alloggiamo, fino al nostro status sociale e nelle nostre identità, nell'amore, in tutto, ovunque e dappertutto, finiamo sempre per essere "precari". Vale a dire, non saremo mai veramente compiuti, terminati, non saremo mai veramente stabili – saremo, in qualche modo, sempre mancanti di qualcosa. Di una rivoluzione, forse?
I nostri genitori e i nostri nonni ci compatiscono, e allo stesso tempo un po' ci disprezzano. Mentre i sindacati e i partiti di sinistra di solito non ci parlano, se non per prometterci l'impossibile ritorno dei «Trenta Gloriosi» anni [quelli che vanno dal 1945 al 1973]. Tutte quelle brave persone che pretendono di rappresentarci parlano per noi, e decretano fino alla nausea cos'è che si suppone dovrebbe essere bene per noi; vale a dire, che dovremmo finalmente diventare degli adulti ragionevoli. Ma quello che invece ci viene proposto, è che anche noi dobbiamo accontentarci di essere sfruttati allo stesso modo in cui è stato fatto con le generazioni precedenti. E così, oggi ci viene chiesto di darci una mossa, dal momento che in tempi lontani a venire - quando saremo vecchi e stanchi - potremo vivere nel paradiso terrestre del quel «salario differito» che chiamano pensione e che, per noi, in soldoni, consisterà sicuramente in ancor meno di quello che oggi è uno SMIC (Salario Minimo di Crescita Interprofessionale).
L'idea di felicità, comune alle generazioni dei nostri genitori e dei nostri nonni, si basava su una crescita economica che noi non abbiamo mai conosciuto. Da un punto di vista antropologico, si traduceva nell'immagine del buon cittadino lavoratore-consumatore: un mutuo immobiliare ventennale, in modo da poter così «diventare proprietario di una casa»; un credito sul consumo, in modo da poter provare «la libertà» di guidare un'auto; uno o due figli; simulare una carriera in un lavoro di merda; una scheda elettorale nell'urna di tanto in tanto senza crederci troppo. Oggi sappiamo fino a che punto questo sogno è stato un miraggio. Sappiamo anche quanto tutto questo ci sia costato, in termini di implicazioni politiche delle quali oggi paghiamo il prezzo. Non serve ricordare come questa società si reggeva, e si regge tuttora - da un lato - sul più immondo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, e – dall'altro - sull'eccessivo sfruttamento delle risorse della terra - cosa di cui si cominciano a sentire gli effetti, i quali si accentuano sempre di più.
Per la nostra generazione va tutto male, eppure tuttavia non si muove niente. Per non dire che - con l'inflazione e con l'aumento generale dei prezzi - molti di noi hanno già superato ormai la soglia di povertà. Eppure, nonostante tutto ciò, ancora niente. Ovunque e dappertutto sentiamo dire che: «Lavorare non paga», e bisognerebbe aggiungere che neanche prima pagava. Da circa vent'anni, per i nuovi arrivati sul mercato, il messaggio è essenzialmente questo: «Andrai in malora». In questo nostro tempo, ciò che si impone in maniera evidente, è la sofferenza sul lavoro, la quale è diventata uno dei principali indicatori delle trasformazioni sociali della società attuale. Oramai, non si lavora più, non si fa più carriera, ma piuttosto si trova un lavoretto, si fa poco, si lotta, si cerca di intrecciare relazioni. La nostra generazione non ha mai creduto nell'emancipazione attraverso il lavoro. Al contrario, ciò che per noi struttura un mondo felice non è il salario, né la sacrosanta proprietà privata o il regno dei piccoli interessi, quanto piuttosto la cooperazione e le relazioni gioiose, l'aiuto reciproco e lo scambio, l'amicizia e il desiderio di prendersi cura di chi amiamo, così come cercare di rispondere a tutto questo cumulo di problemi che abbiamo ereditato, e che ci pone tutti di fronte alla necessità di rimediare alla follia di un mondo sull'orlo del precipizio.
Tutto questo dà le vertigini, siamo d'accordo. L'epidemia di Covid 19 ci ha costretto all'isolamento. E se è vero che, in un certo qual modo - sovente incollati ai nostri schermi, isolati, prigionieri degli algoritmi - finiamo per essere fragili, manipolabili, sfruttabili, e tuttavia oggi ci troviamo nondimeno a esser parte di un movimento che si pone come antagonista al potere dell'economia e all'autoritarismo governativo, e stiamo cercando di trovare i mezzi per riuscire a fare irruzione in quest'epoca. Siamo tutti dalla parte dello sciopero, del blocco, del sabotaggio e dello straripamento. Ci sentiamo vicini a coloro che, ovunque nel mondo, cercano di alzare la testa insorgendo contro il regno della disuguaglianza e dell'ingiustizia. Ma sono diverse le ragioni, per cui è pericoloso che quella contro la riforma delle pensioni possa apparire come se fosse la madre di tutte le battaglie, quando invece si tratta solo del sintomo – uno tra gli altri - di una dittatura di un'economia che sta cercando di affermare il proprio regno totale sulle nostre vite.
Pericoloso, lo è innanzitutto, perché ci fa rimettere in scena l'inenarrabile movimento sociale “alla francese”, e questo sebbene oggi non ci sia quasi nessuno che possa davvero credere nell'attualità delle forme di lotta che esso veicola, tranne forse all'interno di alcuni bastioni sindacali (RATP, SNCF, energia, educazione nazionale). Si tratta di forme di lotta che sono state ampiamente superate dalla forza della rivolta immediata dei Gilet Gialli. E in secondo luogo, perché, così facendo riduciamo la conflittualità solamente a questi bastioni sindacali, finendo per diventare tutti spettatori di un conflitto nel quale non contiamo. Se infatti, come era avvenuto giovedì 19 gennaio, appariamo in questo tipo di movimento come se fossimo solo una una massa informe, «facendo solo numero», vale a dire buona solamente perché permette di fotografare in tal modo quale sarebbe lo stato dei rapporti di forza esistenti tra le centrali sindacali e il governo. Ma soprattutto, c'è da dire che sono passati almeno 40 anni da quando il repertorio d'azione del movimento sociale classico è stato superato dalla ristrutturazione contemporanea dell'economia (globalizzazione dei flussi di capitale, deindustrializzazione, terziarizzazione dell'economia, gestione per algoritmi, ecc.) In modo che così, oggi, costretto in una posizione difensiva, il movimento sociale classico, "à la française", rigido in quello che è il suo solito repertorio d'azione, finisce per bloccare una ristrutturazione antagonista delle lotte che si basa su una matassa di situazioni sociali, ovviamente diverse, ma che in fondo puntano tutte a una massiccia messa in discussione dell'attuale sistema economico.
Tuttavia, nel momento in cui una rabbia diffusa si prepara a confluire, riunendosi intorno al rifiuto della riforma delle pensioni, ecco che l'occasione è troppo ghiotta per non coglierla come se fosse un trampolino di lancio. Inoltre, uno sciopero è pur sempre un'opportunità per fermarsi, e smettere di lavorare. Il momento dello sciopero, è perciò assai spesso anche quello di una riflessione collettiva sulle nostre condizioni di vita, sui mondi che desideriamo. Ed è anche un momento in cui sviluppare delle nuove strategie di lotta. In che modo fare irruzione e straripare? Come fare a diventare ancora più potenti? Come non fare per non essere recuperati da tutti quei politici ambiziosi? Queste sono tutte domande urgenti alle quali dovremo rispondere nelle prossime settimane. Il movimento che chiede l'abolizione del capitalismo acquista sempre più consistenza, soprattutto tra le giovani generazioni. Tuttavia, rimane ancora bloccato in una critica astratta del mostro economico, e non riesce a trovare delle forme di apparizione che gli siano proprie. Di conseguenza, questo movimento che si contrappone alla dittatura dell'economia sulla vita, si mostra in maniera silenziosa, e quasi invisibile, in quello che è il suo rifiuto sempre più forte e deciso dell'ideologia del lavoro. I sintomi di un simile rifiuto così diffuso sono assai numerosi. Anno dopo anno, lo possiamo vedere nelle statistiche sulla sofferenza del lavoro, sull'ansia e sulla depressione, oppure nel semplice fatto che molti di noi "lavorano" solo nell'ottica di ottenere un salario, vale a dire, senza alcuna altra giustificazione che non sia quella della pura sopravvivenza.
Per farla breve, quasi nessuno ormai si aspetta più dal lavoro qualcosa che possa essere emancipatorio. Tranne forse coloro che sorvegliano e controllano gli altri, rendendo ancora più miserabile la loro vita: la classe dei manager. Oltre tutto, non ingannano più nessuno. Di questo ne sono testimonianza tutti quegli influencer che inondano i social media con i loro video-elogi di ogni redditiere che abbia investito in borsa, in cripto-valute o in immobili, e che nell'ideologia del capitale ha ormai sostituito l'immagine dell'onesto lavoratore nell'ideologia del capitale. Certo, questo rifiuto del lavoro è ancora largamente ed enormemente passivo, ragion per cui queste rare forme di apparizione pubblica sono solo quelle di coloro che possono "permetterselo", come gli studenti delle grandi scuole di ingegneria che dichiarano che la loro è una "diserzione" e una “secessione”, o come quei dirigenti in crisi esistenziale che si reinventano come artigiani o come neo-ruralisti. Nel momento in cui noi interveniamo in un movimento come quello delle pensioni, abbiamo il compito di restituire a questo rifiuto tutta quanta l'ostilità che lo caratterizza. Noi pensiamo che fare irrompere nella scena pubblica tutta questa ostilità collettiva, attraverso tutte le diverse voci che la veicolano, possa essere un modo per andare oltre il quadro sindacale, aprendo la porta a ogni sorta di nuove pratiche di riappropriazione, sia nella lotta che nella vita quotidiana, tanto in questo movimento quanto negli anni a venire.
- TOUS DEHORS - 30/1/2023 -
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