Se spesso la storia finisce per ridursi a una fredda successione di eventi e date, la musica spalanca una porta segreta su un racconto tragico intessuto di illusioni e dolore. Con l’orecchio del critico, lo sguardo dello storico, lo spirito del narratore, sulle tracce di Schönberg, Strauss, Šostakovic e Britten, Jeremy Eichler ci riporta ai giorni del massacro di Babyn Jar, non lontano da Kyiv, e tra le rovine della cattedrale di Coventry; al principesco rifugio di Richard Strauss nel Sud della Baviera e ai resti di una quercia nel campo di Buchenwald.
Da quattro opere in cui questi giganti della musica del Novecento hanno immortalato sogni, speranze e paesaggi sgorgano innumerevoli significati e connessioni. Il filo che lega Beethoven, un’ode di Schiller sull’utopia di un mondo di libertà, uguaglianza e fraternità, le Metamorphosen di Strauss e i versi di un Goethe assorto, appoggiato a un albero di cui oggi non rimane che un ceppo coperto di pietre della memoria. I timori di un giovane Benjamin Britten a Bergen-Belsen che lo condurranno al War Requiem, straziante omaggio all’esperienza bellica del suo paese e insieme invocazione pacifista di un futuro senza guerre.
Gli abitanti di Kyiv e una tragedia già consegnata all’oblio, se la Tredicesima sinfonia di Šostakovic non avesse interrotto quell’amnesia coatta. L’ambizioso progetto del Moses und Aron, estremo tentativo di difendere la profonda sintesi fra tradizione ebraica e cultura tedesca in cui Schönberg aveva creduto e che lui stesso incarnava. Mentre scompare l’ultima generazione dei sopravvissuti alle catastrofi del secolo scorso, stabilire un contatto con queste opere rimane una delle rare occasioni per fare i conti con le sue eredità. Per questo, chiarisce Eichler, «il libro è anche un elogio dell’ascolto in profondità, della capacità di sentire nella musica il riverbero di un’epoca, l’eco del tempo». Il mondo sopravvissuto alla tragedia della Seconda guerra mondiale vede annientati il pensiero e la parola davanti all’orrore indicibile. L’arte conserva invece una memoria inconsapevole di ciò che è fugace e trascendente e la musica può diventare strumento di conoscenza profonda e commovente. La Storia si rivela una trama di melodie e racconti sottratti all’oblio, in cui le piccole storie di grandi compositori non misurano lo scorrere del tempo ma lo ricreano. Al trauma del conflitto Schönberg, Strauss, Šostakovic e Britten reagiscono componendo opere tra le più intense del secolo, in cui è inscritta l’essenza di un’intera epoca. Ripercorrendone le vicende, Jeremy Eichler allestisce uno struggente viaggio nel tempo perduto e della perdita, un labirinto di risonanze in cui si intrecciano i destini di scrittori e poeti, filosofi e musicisti
(dal risvolto di copertina di: Jeremy Eichler, "L'eco del tempo". Traduzione di Francesco Peri. Marsilio, pag. 432, €22)
Se questa è (solo) musica
- di Wlodek Goldkorn -
«La musica ha saputo evocare anime, revocare il tempo e risvegliare i defunti fin dai giorni leggendari in cui Orfeo ha strappato l'amata Euridice all'oltretomba grazie al potere magico del canto». Lo scrive Jeremy Eichler in un affascinante saggio "L'eco del tempo. Quattro compositori, la guerra e l’Olocausto, la musica della memoria", tradotto da Francesco Peri e pubblicato da Marsilio. L'autore è un critico musicale e storico della cultura e insegna a Harvard. Si è detto saggio, in realtà il libro consiste in una serie di racconti, divagazioni e aneddoti, quasi un metaromanzo, con protagonisti Arnold Schonberg, Richard Strauss, Benjamin Britten e Dmitrij Sostakovic, e parla del rapporto dell'arte con i poteri e con la questione dell'identità e memoria. Con un solido impianto filosofico e letterario: da Walter Benjamin a W.G. Sebald. Si è detto memoria. Prima di tutto la memoria dell'immaginabile: la Shoah. I monumenti alle vittime non sono in grado di rappresentare fino in fondo l'accaduto. Ecco dunque che Eichler pensa a "monumenti invisibili” e dice che solo la musica permette di costruirli. Ma pone subito un problema.
La composizione più pregnante che parla dell'Olocausto è "Un sopravvissuto di Varsavia", scritta da Schònberg nell'esilio americano, nell'agosto 1947. Ma quell'oratorio di sette minuti, comincia con la frase: «Non posso ricordare ogni cosa». E allora, la memoria è incompleta, la verità del testimone parziale. E ancora, le date della composizione di "Un sopravvissuto", coincidono (grosso modo) con quelle della scrittura di "Se questo è un uomo" di Primo Levi. Delle difficoltà di pubblicare che ebbe Levi sappiamo tutto. Ma pure per Schonberg non era facile mettere in scena la sua opera. Tanto che la prima ebbe luogo ad Albuquerque nel New Mexico con un'orchestra e un coro composti in parte da volontari: insegnanti, impiegati, cowboy. Comunque fu un trionfo, ma poi arrivarono le critiche. L'obiezione è sempre valida: fin dove è lecito mettere in scena l'Olocausto, senza rendere kitsch l'accaduto? In ogni caso, è uso, oggi nelle sale dei concerti non applaudire l'oratorio.
Eichler colloca Schonberg, la sua vita e opera, compresa la dodecafonia nell'ambito del rapporto contraddittorio fra l'ebraismo e la modernità. In breve: la modernità contiene una promessa di stampo illuministico, la promessa dell'integrazione degli ebrei come cittadini uguali a tutti gli altri. In Germania, in particolare, moltissimi ci credono. Schonberg sposa l'idea della musica come elemento chiave dell'identità tedesca. E aderisce fino in fondo al sogno di una società in cui il sentimento è unito alla ragione che esclude il pregiudizio. Il resto è storia, esclusione al posto di inclusione e fino ad Auschwitz. Eppure ad Auschwitz, Alme Rosé, nipote di Gustav Mahler deportata in quanto ebrea, incaricata di dirigere l'orchestra delle prigioniere, ci tiene tantissimo alla qualità della musica che suonano, perché l'arte è verità. E al dottor Mengele piace "Traumerei" (Il sogno) di Robert Schumann: ricorda al boia la sua infanzia innocente.
Poi c'è il caso Strauss. Il geniale compositore ha lavorato assieme a Hugo von Hofmannsthal, letterato di origini ebraiche: suo il libretto di Elektra, e poi con Stephan Zweig (viennese e quindi non tedesco), amico e sodale, fra più popolari autori dell'Europa prebellica, nonché specie di sacerdote di un umanesimo che oggi sarebbe considerato “buonista”. Ma il giorno in cui Zweig (nel 1942), travolto dalla catastrofe europea, si dà la morte nell'esilio brasiliano, Strauss va al teatro per essere omaggiato dal pubblico. Coincidenza? Probabilmente sì, ma che spiega molto, sottolinea Fichler. Il compositore non si oppone al nazismo, accetta di rimpiazzare come direttore d'orchestra persone sgradite al regime: da Bruno Walter ad Arturo Toscanini. Però, ecco, negli ultimi mesi della guerra compone Metmorphosen, uno studio per archi in cui cita Beethoven, si riallaccia al modernismo come se avesse voluto dialogare con Schònbeng e in fondo alla partitura mette la scritta In memoriam. In memoria di chi? Del mondo perduto? Della Germania sconfitta?
Resta l'ombra dell'ambiguità. Di Shostakovic si parla per raccontare la memoria di Babij Jar, luogo a Kiev dove i nazisti ammazzarono nel settembre 1941 quasi 34mila ebrei. Quella memoria, così come la memoria della Shoah fu rimossa da Stalin e dai suoi successori, fino al quando ai primi anni Sessanta il poeta Eugenij Evtusenko poté scrivere un poema intitolato appunto Babij Jar e Shostakovic compose una sinfonia, non senza censure del regime. Stupendo il racconto del viaggio che a primavera del 1945, Benjamin Britten intraprende assieme al violinista Yehudi Menuchin fra i superstiti dei campi nazisti in Germania. I due geni intuiscono quanto i reduci di Bergen Belsen avessero bisogno non solo del pane e cure mediche ma anche della bellezza e di una musica che non lenisce le ferite ma crea memoria.
- Wlodek Goldkorn - Pubblicato su Robinson del 9/9/2023 -
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