Giorgio Manacorda ricostruisce la Germania del Novecento con questa raccolta di saggi dedicati ai maggiori autori di lingua tedesca. Un panorama letterario su una cultura che nella seconda metà del secolo scorso è stata centrale in Europa, sia a livello politico – Sessantotto, caduta del Muro di Berlino, riunificazione della Germania, fine della Guerra Fredda –, sia a livello culturale – dal pensiero sociologico, filosofico e politico della Scuola di Francoforte al Nuovo Cinema Tedesco, e ancora, per la letteratura, a scrittori come Günter Grass, Peter Weiss, Hans Magnus Enzensberger, Uwe Johnson, Ingeborg Bachmann, Heiner Müller, Rainer Werner Fassbinder, Peter Handke. Lo sguardo di Manacorda si allarga ad autori come Hugo von Hofmann-sthal, Paul Klee, Frank Wedekind, Stefan George, Bertolt Brecht, Franz Kafka, Heinrich Mann, Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann, Rainer Maria Rilke, Joseph Roth. Se è vero che la letteratura riflette l’anima di un popolo, in questo libro si specchia tutta la Germania del Novecento.
(dal risvolto di copertina di: Giorgio Manacorda, "Novecento tedesco. Narrativa, poesia, teatro”. Castelvecchi)
Il ’900 tedesco tra Kafka e Brecht
- di Alfonso Berardinelli -
Oltre a essere stato, con Patrizia Cavalli, il solo poeta della sua generazione, quella del ’68, ad aver avuto una vera e inaspettata evoluzione, passando dall’epigramma autobiografico al poema antropologico, Giorgio Manacorda è anche l’unico dotato di originali capacità di teorico e critico letterario. Per decenni ha insegnato come cattedratico di letteratura tedesca, eppure ha sempre agito più da critico scrittore che da studioso. Ha scritto saggi di totale libertà metodologica e stilistica, in cui si immerge nei testi e negli autori smontandone gli apparati difensivi. Il suo istinto conoscitivo è demolitore e interessato soprattutto a capire dove cominciano e finiscono poesia e ideologia. Leggendo ora Novecento tedesco. Narrativa, poesia, teatro ho avuto l’impressione che pur contenendo pagine su Wedekind, George, Hofmannsthal, Rilke, Heinrich Mann, Schnitzler, Roth e perfino Goethe, il libro abbia il suo baricentro storico nei tre decenni successivi al 1945 e perciò polarizzi l’intero Novecento su due autori antagonistici, Kafka e Brecht. Nel primo sembra che la narrativa contenga anche la più necessaria dimensione della poesia, cioè una forma di letteratura assoluta che non ha neppure bisogno di un pubblico. In Brecht non c’è invece letteratura senza un pubblico a cui rivolgersi e da pedagogizzare. Dunque da un lato il narratore poeta allegorico in cui la tragedia non esclude una specie di comicità metafisica. D’altro lato, Brecht scrittore didattico e manipolatore, ipocrita perché politico, sempre astutamente in maschera. Anche se i nomi di Kafka e Brecht non ricorrono molto spesso, è quello che rappresentano a dominare la dialettica critica con cui Manacorda affronta gli autori, in particolare nelle pagine sulla letteratura inevitabilmente politicizzata del secondo dopoguerra. In effetti le argomentazioni di Manacorda si surriscaldano quando fa i conti con i due opposti eredi di Brecht, cioè Hans Magnus Enzensberger e Heiner Müller, nati entrambi nel 1929. Il primo con la sua intelligenza più illuministica che poetica cade nell’equivoco di una letteratura politicamente utile. Il secondo cancella nel suo teatro la pedagogia brechtiana e riscopre una intrattabile poesia tragica, a costo di perdere il controllo sulla sua stessa opera, spodestando il suo maestro Brecht grazie a Kafka.
Non vorrei insistere troppo sul teorema Kafka contro Brecht (anche Benjamin ne fu coinvolto). Ma credo che la letteratura tedesca si trovò dopo il 1945 a non avere niente di meglio che quei due autori, mentre il famoso romanticismo nazionale sembrava ormai infrequentabile e si doveva risalire al razionalismo scettico degli illuministi. Kafka maestro di parabole chassidiche da incubo, in fondo poteva anche convivere con le acutezze materialistico-sapienziali di Brecht, e magari correggerne l’ottimismo pragmatico. Dopo il nazismo la politica in Germania era diventata una maledizione. Quel mondo in macerie imponeva a intellettuali e scrittori dei doveri di impegno sia politico che antipolitico (non a caso il secondo libro saggistico di Enzensberger sarà intitolato Politica e crimine). Di qui anche quello che Manacorda definisce «l’engagement gentile» del gruppo 47. I suoi due fondatori, Richter e Andersch, libertari e antitotalitari, praticavano una forma di «resistenza letteraria» che negli anni cinquanta attirò scrittori esordienti come Bachmann, Grass, Enzensberger, Johnson. Ma fu Peter Weiss a offrire un modello di impegno politico sia estremo che contraddittorio con la pièce documentaria L’istruttoria (1965), montaggio di documenti tratti da un processo sui crimini di Auschwitz, in cui l’impegno politico della letteratura, per essere asceticamente fedele a una verità che ammutolisce, eliminava la letteratura riducendosi a citazione.
Enzensberger non si lasciò sfuggire che il metodo di Weiss era tanto rigoroso quanto rinunciatario: prescriveva il silenzio agli scrittori in quanto scrittori. Strano che più tardi lo stesso Enzensberger fosse attratto da una letteratura come montaggio di documenti e seguì Weiss almeno in parte sia in Interrogatorio all’Havana (1970) che in La breve estate dell’anarchia(1972) in cui compito politico dell’autore è soprattutto raccogliere testimonianze e ridurre la letteratura a documentazione storica. È precisamente questo che Manacorda non riesce a perdonare a Enzensberger e all’impegno politico in letteratura, perché una letteratura che si sottometta a uno scopo pratico tradisce sé stessa. Se si deve valutare la lezione di Brecht, meglio allora studiare il lavoro di un altro suo seguace, Heiner Müller. Allievo diretto di Brecht a Berlino Est, Müller ne ha distrutto l’ideologia letteraria dall’interno. In questo la sua strada è andata in direzione opposta rispetto a Enzensberger, un poeta saggista a cui il teatro brechtiano ha sempre interessato poco. Müller, da vero drammaturgo, si concentra sul tema della maschera per andare oltre Brecht, dichiarando di non avere più nessuna fiducia nell’ideologia del dramma didattico. Questa la conclusione di Manacorda: «Heiner Müller è riuscito nell’impresa di attraversare tutte le macerie e tutte le maschere (storiche e letterarie) del secolo». I suoi testi in questo senso «non somigliano neppure più a pièces teatrali. Sono testi di poesia, sono poesia». Müller arriva alla poesia, intesa come assenza di maschere, superando Brecht grazie a Kafka.
Più che il Gruppo 47, una conventicola di scrittori, furono i socio-filosofi della Scuola di Francoforte, soprattutto Adorno e Marcuse, a essere presenti nell’impegno politico dagli anni sessanta in poi con la loro idea di un’utopia antiistituzionale. «I giovani intellettuali del Sessantotto» dice Manacorda «con la Scuola di Francoforte avevano in casa quello che serviva per sentirsi di nuovo eredi di Schiller, Heine e Büchner e insomma di tutta la loro cultura fino a Marx, magari passando per la Luxemburg». Una generazione che letterariamente non ha prodotto molto di nuovo, trovando espressione soprattutto nel cinema, con Herzog, Wenders, Fassbinder.
- Alfonso Berardinelli - Pubblicato su Domenica del 3/9/2023 -
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