sabato 6 gennaio 2024

La Critica & la Calunnia... ovvero Oliver & Olivier !!

Come fare a dimenticare
- di - Nedjib SIDI MOUSSA -

«A volte, la ragione vorrebbe scacciare i nostri pensieri. Chi di noi non ha sognato di perdere la memoria, eppure spesso dobbiamo costruire il futuro con i nostri ricordi»  (Dalida "Comment faire pour oublier”, 1971.)

Negli ultimi mesi, diversi amici mi hanno chiesto la mia opinione sul saggio di Gloag su Camus. Ma di quale dei suoi saggi stavano parlando? Se avessi avuto modo di leggere il libro di Oliver Gloag dal titolo "Albert Camus. A Very Short Introduction" (Oxford University Press, 2020), non mi sarei di certo precipitato su "Oublier Camus" di Olivier Gloag.  Senza l'amichevole sollecitazione di "À contretemps" non mi sarei certo preso la briga di scrivere questa recensione...
Basti dire che quando Oliver scrive per gli studenti di lingua inglese, l'accademico – Professore Associato di Studi Francesi e Francofoni (University of North Carolina) – attenua i suoi sentimenti anti-camusiani, e presta maggiore attenzione all'uomo e alla sua opera (il che non impedisce affatto inesattezze e omissioni); ma d'altra parte, quando Olivier scrive per gli attivisti francofoni, ecco che l'opuscolo dà libero sfogo al suo tropismo sartriano, in modo da cedere così al regolamento di conti e lusingare un pubblico di lettori già conquistato in partenza. "Dimenticare Camus" è un libro deludente. Da O. Gloag ci aspettavamo argomenti più forti, una lettura più rigorosa dei testi, un maggiore rispetto per la storia (culturale, politica o sociale, in Francia come in Algeria). Per essere chiari, il problema non è la critica a Camus – e nemmeno l'avversione nei suoi confronti, fino a detestarlo, che è prevalente in certi ambienti – ma piuttosto ciò che la sottende. Infatti, sia nella forma che nel contenuto, il saggio cristallizza tutti i difetti di un certo "radicalismo": ignoranza, supponenza, esagerazione. Vecchia robaccia rivestita di espressioni alla moda. Insomma, in breve, miseria postmoderna. Già nella prefazione di Frederic Jameson, professore di letteratura comparata (Duke University), il lettore viene subito tratto in inganno: «Leggendo questo libro, scoprirete che le sue critiche non sono rivolte tanto a Camus stesso quanto alla sua canonizzazione mainstream; e, per di più, alla canonizzazione della sua immagine piuttosto che a quella della sua opera» (p. 8). Nel suo saggio, tuttavia, O. Gloag dedica solo poche righe a questo problema della "canonizzazione", e anche in questo caso lo fa in modo del tutto improvvisato. Allontanandosi dall'ambivalenza suggerita nel suo primo libro, l'autore si diletta a dipingere un ritratto di Camus ridotto alla caricatura di un Pied-Noir: imperialista, maschilista e razzista. Già subito nella sua introduzione, O. Gloag viene colto in flagrante delitto di disonestà intellettuale. Secondo lui, Camus «vuole mantenere la disuguaglianza tra colonizzati e coloni» (p. 16). A tal fine, si basa su un articolo dal titolo "La speculazione contro le leggi sociali" (Alger Républicain, 12 ottobre 1938), del quale però non cita alcun estratto, accontentandosi, per meglio sostenere la sua tesi, di parafrasare e interpretare il testo: «Camus constata che i salari dei pied-noir sono aumentati del 20%, mentre quelli degli algerini sono aumentati del 60%. Vediamo come ciò che Camus non trova sconvolgente è il dettaglio della paga oraria  degli uni e degli altri – dopo gli scioperi, gli algerini guadagnano 2,30 franchi l'ora e i pied-noir 7,20 franchi. Camus non mette affatto in discussione questa palese ingiustizia, al contrario, nei suoi calcoli, l'assume come un dato assoluto; si tratta dell'accettazione dell'assioma imperialista: a parità di lavoro, gli europei guadagnano più degli algerini»(pag. 16). Tuttavia, se ci riferiamo all'articolo di Camus – che non è molto difficile, basta andare su https://gallica.bnf.fr per leggere la sua prosa giornalistica: "Albert Camus in Alger Républicain" leggiamo questo passaggio: «L'aumento dei salari ha quindi migliorato un po' la situazione del lavoratore autoctono. Ma nel caso di un uomo che prima guadagnava solo 11,20 franchi al giorno, si può vedere come un miglioramento di quest'ordine sia ancora solo un palliativo». E questo è solo un esempio tra i tanti, ma fin dall'inizio O. Gloag espone il proprio metodo: riferimento tronco, estrapolazione dubbia e condanna definitiva. Chiudiamo il libro. I lettori onesti potrebbero chiedersi se è vero che Camus accetti l'«assioma imperiale», come sostiene l'accademico-pamphleter... Ma prima bisognerebbe rispettare i fatti e i testi – per non parlare del contesto – invece di indulgere in questo gioco del massacro da cui nessuno uscirà indenne.

Nel primo capitolo – intitolato "Per un colonialismo dal volto umano" – O. Gloag finge di affidarsi allo storico Charles-Robert Ageron per affermare: «Riferirsi ai coloni come 'algerini' costituirebbe pertanto una forma di spoliazione. Ancora oggi, ci sono dei commentatori che definiscono Camus come se fosse uno "scrittore algerino": simili termini tradiscono la nostalgia per un'epoca in cui la colonizzazione veniva data per scontata» (p. 19). Una tale espressione della sua ira – che contribuisce, tra l'altro, a gettare a mare ogni possibilità di poter tener conto in maniera sottile dell'uso paradossale che fa di quelle che sono categorie storiche o attuali (cfr. l'articolo della sociologa Maïlys Kydjian pubblicato nel 2019 sulla rivista Mots] – può senza dubbio essere spiegata a partire da una nota finale, alla fine del libro, in cui scocca una frecciatina al giornalista e scrittore Kamel Daoud, balzato agli onori della cronaca nel 2016, accusato di aver definito Camus uno "scrittore algerino" (p. 144). Ma è davvero l'unico? Nel 2003, Ali Yédes – Professore Associato di Lingua e Letteratura Francese (Oberlin College) – ha pubblicato un libro intitolato "Camus l'Algérien" per L'Harmattan. E più vicino a noi, Alek Baylee Toumi – Professore Associato di Francese (Università del Wisconsin) – ha scritto l'articolo "Albert Camus, l'algerino. In Memoriam", pubblicato nel 2010 sulla rivista Nouvelles études francophones. L'elenco potrebbe continuare, evidenziando i dibattiti e le interpretazioni contraddittorie specifiche del mondo accademico – in particolare negli studi letterari e francofoni; ma i questo campo, la cosa più importante è senza dubbio il giudizio dei suoi contemporanei. Il 18 febbraio 1957, nel suo "Diario" (Le Seuil, 1962), Mouloud Feraoun scriveva: «Vorrei dire a Camus, che è anche lui algerino, che io e tutti gli algerini sono fieri di lui, ma voglio anche aggiungere che c'è stato un tempo, non molto lontano, in cui l'algerino musulmano, per poter andare in Francia, aveva bisogno di un passaporto» (p. 205). In maniera analoga, nell'edizione del maggio 1960, l'organo del Movimento Nazionale Algerino (MNA) guidato da Messali Hadj, “La Voix du Peuple”,riportava, nella sua "Revue de la presse", il punto di vista di Camus, «questo grande scrittore algerino» favorevole a una soluzione pacifica della guerra d'Algeria e alla parola d'ordine della "tavola rotonda". Non c'è alcun dubbio che questa inclusione del movimento indipendentista sia stata tattica, in un momento in cui l'MNA stava perdendo terreno – con la sua concezione esclusiva della nazione – ma non per questo era meno importante. Ovviamente, una simile caratterizzazione non incontrava l'unanimità, e questo né prima né dopo l'adesione dell'Algeria all'indipendenza, come testimoniato dalla raccolta "Alger 1967: Camus, un si proche étranger" [Algeri 1967: Camus, uno straniero così vicino], presentata da Agnès Spiquel (El Kalima, 2018). La simpatia o, al contrario, l'ostilità nei confronti dello scrittore evidenziano le divisioni tra intellettuali e nazionalisti algerini – anche gli intellettuali possono essere piuttosto nazionalisti – sia sull'autonomia degli artisti che sulla concezione della nazione algerina e, più in generale, sulla possibilità di erigere una società pluralista – e questo al di là dell'opposizione di Camus all'indipendenza sotto l'egida del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN). Ora, prendendo una posizione ferma contro l'algerinità di Camus, O. Gloag si allinea di fatto alle opzioni più conservatrici e retrograde; un paradosso ricorrente tra molti intellettuali della sinistra "occidentale", divenuti paradossali alleati della destra "orientale", e questo a causa di un antimperialismo a volte nutrito da buoni sentimenti, ma assai spesso basato su una mancanza di conoscenza delle società colonizzate e poi decolonizzate, la cui lunga storia non può essere ridotta a un unico rapporto conflittuale con l'imperialismo occidentale. Accecato dal suo irresistibile desiderio di riparare i torti, O. Gloag conferma, a più riprese, di non saper padroneggiare la sua materia. La malafede lo porta a spiegare le dimissioni di Camus dal Partito Comunista Algerino (PCA), nel 1937, come se fosse il risultato di un cambiamento nella strategia dell'organizzazione, che sarebbe stata quella del«la strada del sostegno all'indipendenza» (p. 26). A sostegno di questa tesi, l'autore cita un estratto di un'intervista a Henri Alleg – pubblicata nel 1998 sulla rivista Mots – che chiaramente non aveva particolarmente in simpatia lo scrittore. Tuttavia, se ci riferiamo alla nota biografica su Camus, scritta dallo storico René Gallissot e pubblicata sul sito di Maitron, scopriamo una versione assai diversa: «Albert Camus fu espulso dal Partito nell'ottobre-novembre 1937 attraverso una laboriosa procedura che rivelò, o meglio smantellò, "la cellula degli intellettuali"». In sostanza, sembra che egli esprimesse la propria contrarietà all'esagerazione della linea comunista, applicata all'epoca dall'inviato del partito francese Robert Deloche, e dalla giovane segreteria algerina che era stata promossa nel corso della trasformazione dell'ex Regione algerina in "Partito Comunista Algerino", all'interno del quale gareggiavano Benali Boukort e Amar Ouzeguane. La divergenza era su due punti; Camus era riluttante sia agli appelli alla difesa nazionale sia alla celebrazione dell'esercito, e manteneva posizioni pacifiste, se non antimilitariste, vicine alle inclinazioni delle correnti intellettuali socialiste trotskiste, simile per esempio alla riluttanza espressa in Francia dai surrealisti e dall'avanguardia del teatro militante costituitosi intorno a Jacques Prévert. Questo orientamento pacifista, tra l'altro, era largamente presente anche nel sindacalismo degli insegnanti. D'altra parte, Albert Camus rifiutava di assimilare al fascismo – assimilazione che veniva praticata oltraggiosamente dal Partito Comunista Algerino – il Partito Popolare Algerino, creato nella primavera del 1937 da Messali, il quale era appena stato arrestato e incriminato in Algeria (agosto 1937). Il PCF e il PCA applaudivano allo scioglimento dell'Étoile nord-africana, avvenuto alla fine di gennaio 1937. Ci furono scontri tra i messalisti e i comunisti, che tuttavia continuarono a coesistere nel movimento sindacale CGT. Nel leggere tutto questo, ci troviamo nell'esatto contrario di quella che è la versione propagandata dagli avversari stalinisti di Camus, e dai loro epigoni autoritari di sinistra. Ma i fatti sono ostinati. Nella sua lettura unilaterale, O. Gloag arriva persino ad accusare addirittura lo scrittore di «voler intensificare la colonizzazione» (p. 31), dopo la sanguinosa repressione del maggio-giugno 1945 a North Constantine che si trasformò in un massacro. A tal proposito, cita un articolo pubblicato il 23 maggio 1945 su Combat, dal titolo "È la giustizia che salverà l'Algeria dall'odio", nel quale Camus cercherebbe di convincere i suoi lettori «circa il benessere di cui gode il popolo algerino». Qui la disonestà è al suo apice, dal momento che in questo testo – liberamente disponibile su Gallica: "Albert Camus dans Combat" – Camus afferma: «Di fronte agli atti di repressione che abbiamo appena compiuto in Nord Africa, desidero esprimere la mia convinzione che il tempo dell'imperialismo occidentale è finito». Dopo aver dato ragione al nazionalista Ferhat Abbas, riferendosi al suo pamphlet J'accuse l'Europe, pubblicato nel 1944, Camus aggiunge: «Oggi gli uomini liberi di questa Europa hanno vinto; per un momento hanno fermato il corso terribile di questa decadenza. Ora vogliono rovesciare la storia. E certamente possono farli, se pagano il prezzo del sacrificio. Ma faranno questa rivoluzione solo se la faranno completamente. Salveranno l'Europa dai suoi demoni e dai suoi dèi codardi solo se libereranno tutti gli uomini che dipendono dall'Europa.» Ciascuno è libero di decidere se si tratta di un'affermazione di principi anticolonialisti o, al contrario, di una dichiarazione che invita a «intensificare la colonizzazione»...

Nel secondo capitolo - intitolato "Rappresentazioni coloniali" - O. Gloag attacca il controverso libro di Michel Onfray, "L'ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus"(Ponte alle Grazie, 2013), del quale denuncia giustamente - sebbene lo faccia in maniera antipatica - la natura manipolatoria (p. 38). Nello specifico, l'autore cerca di contrapporre «la copertura favorevole della grande stampa francese» alla «critica algerina», ignorando del tutto le confutazioni provenienti dagli ambienti anarchici, come quello di Lou Marin – che ha pubblicato l'antologia "Ecrits libertaires (1948-1960)" (Indigene)  – apparso su Le Monde Libertaire, o quello di Floréal Melgar, pubblicato online il 7 marzo 2012, oppure  quello di Albert Gadjo, pubblicato su À contretemps, n° 43, luglio 2012. In questo caso, la "critica algerina" cui O. Gloag dà valore, proviene da Mohammed Yefsah, e più precisamente dal suo articolo "L'imposture Onfray" pubblicato il 22 agosto 2012 su La Tribune e poi  ristampato sul sito web di Ahmed Bensaada , così come viene menzionato nella nota a piè di pagina (p. 146). Ora, però, l'estratto citato in "Oublier Camus" spinge al lettore a pensare che gli oppositori del regime algerino, contrariamente ai suoi difensori, avrebbero criticato lo scrittore premio Nobel, nel modo in cui lo faceva Yasmina Khadra, «rappresentante ufficiale di un'istituzione algerina» (p. 39). Ma se è vero che Y. Khadra era allora direttore del Centro Culturale Algerino a Parigi – nominata nel 2007, sarebbe stata poi licenziata sette anni dopo – la distinzione, nel modo in cui viene presentata da O. Gloag, è artificiosa, soprattutto perché A. Bensaada, uno dei pochi «intellettuali algerini» che viene citato come riferimento (pp. 39 e 146),  durante l'Hirak si impegnò in un'odiosa attività di denuncia e diffamazione di alcune personalità, propagando delle tesi confusioniste e cospiratorie e giustificando la repressione del movimento popolare da parte del regime militare-poliziesco. Se O. Gloag si fosse interessato alla società algerina odierna – e non solo alle polemiche interne del periodo coloniale – avrebbe senza dubbio evitato un errore simile. Oltre tutto, l'articolo di Yefsah, che è più sottile della prosa di O. Gloag, voleva essere soprattutto una risposta all'intervista accordata da Onfray a Hamid Zanaz – autore di un saggio, anch'esso controverso, "L'Impasse islamique" (Éditions libertaires, 2009), che aveva una prefazione di Onfray – pubblicata il 10 agosto 2012 su El Watan, sullo sfondo delle polemiche intorno alla mostra dedicata a Camus, prevista per il 2013 e curata da Onfray dopo che c'era stata la cacciata dello storico Benjamin Stora. Immancabilmente, O. Gloag invoca la celebre frase di Camus – «Credo nella giustizia, ma difenderò mia madre prima della giustizia»; frase pronunciata durante una conferenza stampa il 12 dicembre 1957 a Stoccolma - per poter così meglio affermare, in maniera perentoria che: «In tal modo, questo rifiuto del movimento storico in direzione della decolonizzazione, che egli sa essere inevitabile, fa di Camus una figura baudelairiana: ultimo grande scrittore coloniale, si erge contro la storia» (p. 42). Conoscevamo già tale dichiarazione grazie all'articolo del corrispondente di Le Monde, in data 14 dicembre 1957. E interpellato da un rappresentante del FLN, Camus, vincitore del premio Nobel per la letteratura, aveva affermato: «Sono stato in silenzio per un anno e otto mesi, il che non significa che abbia smesso di agire. Non sono stato in grado di farlo. Ero e sono tuttora a favore di un'Algeria giusta, dove le due popolazioni debbano vivere in pace e nell'uguaglianza. Ho ripetuto più volte che bisognava rendere giustizia al popolo algerino e garantirgli un regime pienamente democratico, e l'ho fatto fino a quando l'odio da entrambe le parti non è diventato tale da rendere non più opportuno il fatto che un intellettuale intervenisse, dacché le sue dichiarazioni rischiavano di aggravare il terrore. Mi è sembrato che fosse meglio aspettare il momento giusto, per unire anziché per dividere. Tuttavia, posso affermare che oggi avete dei compagni grazie ad azioni che voi non conoscete. Ed è con una certa riluttanza che pertanto espongo le mie ragioni in pubblico. Ho sempre condannato il terrore. E devo condannare anche quello che è un terrorismo che viene esercitato in maniera indiscriminata, come ad esempio nelle strade di Algeri, e che un giorno potrebbe anche colpire mia madre o la mia famiglia. Credo nella giustizia, ma prima della giustizia difenderei mia madre». Si capisce come sia soprattutto il problema del terrorismo – in particolare quello diretto dai gruppi del FLN contro i civili europei – a preoccupare Camus, la cui madre vive ancora ad Algeri. Si tratta pertanto di un'opposizione rispetto a un mezzo ingiusto – vale a dire l'uso della violenza indiscriminata – e non a una giusta causa – la decolonizzazione – a essere qui evidenziata, per quanto lo scrittore non si pronuncerà mai a favore dell'indipendenza; cosa che non può essergli rimproverata, se non fraintendendo le sue parole. Infatti, in una lettera indirizzata a Le Monde, e pubblicata nell'edizione del 19 dicembre 1957, Camus arrivava persino a esprimere la sua sincera solidarietà al militante che lo aveva apostrofato: «Vorrei anche aggiungere, a proposito del giovane algerino che mi ha risposto, che mi sento assai più vicino a lui che a molti francesi che parlano dell'Algeria senza conoscerla. Lui sapeva di cosa stava parlando e il suo modo di vedere non era di odio, ma di disperazione e di sofferenza. Condivido questa infelicità e il suo sguardo è quello del mio Paese. Per questo ho voluto dare pubblicamente a questo giovane algerino, e solo a lui, le spiegazioni personali che avevo taciuto fino ad allora, e che il vostro corrispondente ha fedelmente riprodotto altrove.» Ma tutto questo non suffraga in alcun modo l'argomentazione di O. Gloag , che in questo capitolo esibisce quel che di peggio c'è nella critica letteraria, abbandonandosi a interpretazioni sconcertanti dell'opera letteraria di Camus, trascurando il lavoro – certamente meno vistoso – dei migliori conoscitori dell'argomento, come Alice Kaplan, "Looking for the Stranger" (The University of Chicago Press, 2016), Jeanyves Guérin, "Dictionnaire Albert Camus "(Robert Laffont, 2013). In tal modo, a differenza degli specialisti e dei contemporanei dello scrittore – come André Julien in Le Libertaire, Maurice Nadeau in Combat o Marcel Péju in Franc-Tireur – O. Gloag ci propone una "nuova lettura" di "La Peste" (Gallimard, 1947), argomentando, senza alcuna dimostrazione convincente che: «La peste non è la Germania o i tedeschi, ma è la resistenza del popolo algerino all'occupazione francese; un fenomeno saltuario ma ineluttabile, che visto dal punto di vista dei colonizzatori viene equiparato a una malattia mortale» (p. 48). Reductio ad coloniam... Ecco qual è il tentativo che viene fatto da alcuni sostenitori degli studi postcoloniali, o del movimento de-coloniale, che pretendono di reinventare la scienza sulla base di una distorsione dei fatti.

Nel terzo capitolo –dal titolo, "Sartre e Camus, inseparabili" – O. Gloag cerca di evidenziare il rapporto ambivalente esistente tra i due intellettuali, rifacendosi alla recensione de "La Nausée" (1938, Gallimard) che venne pubblicata il 20 ottobre 1938 su "Alger Républicain". Il saggista sottolinea soprattutto le «riflessioni negative» di Camus, anticipando in tal modo, in maniera del tutto anacronistica, quella che sarà la rivalità tra i due autori, spiegandola addirittura con un ipotetico «risentimento di classe nei confronti di Sartre», che sarebbe stato sperimentato da Camus; si tratta di una splendida inversione accusatoria, nella misura in cui poi, successivamente lo scrittore si esporrà al disprezzo di classe dell'intellighenzia parigina. Eppure, e non è certo a caso, O. Gloag ignora quella che è la conclusione, assai positiva, della recensione: «Del resto, questo è il primo romanzo di uno scrittore da cui ci si può aspettare tutto. Una flessibilità talmente naturale che gli consente di mantenersi a un estremo del pensiero cosciente, e una lucidità così dolorosa, rivelano delle doti illimitate. E questo è sufficiente a farci amare La Nausée come se fosse il primo appello che ci viene rivolto da una mente singolare e vigorosa, dalla quale attendiamo con ansia le opere e le lezioni a venire». Ma O. Gloag non si sottrae alla manipolazione. E nello stesso capitolo, sempre a gloria di Sartre – e a scapito di Camus – ecco che la serie di otto articoli pubblicati su Combat, tra il 19 e il 30 novembre 1946, con il titolo "Né vittime né carnefici", viene stranamente interpretata come se si trattasse del «rifiuto di scegliere tra la violenza dei colonizzatori e la controviolenza dei colonizzati» (p. 72). Anche in questo caso, il fraintendimento è totale. Qui, Camus menziona tre regimi politici – Russia, Spagna e Stati Uniti (19 novembre 1946) –, rifiuta per principio «la legittimazione dell'omicidio» (20 novembre 1946), sottolinea la «crisi di coscienza del socialismo francese» (21 novembre 1946), mette in discussione la nozione di rivoluzione nel contesto della guerra fredda (23 novembre 1946), delinea i contorni di un «ordine universale» sostenuto da una «democrazia internazionale» (26 novembre 1946), si schiera a favore dell'«abolizione generale della pena di morte» (29 novembre 1946), e infine difende «il dialogo e la comunicazione universale tra gli uomini» (30 novembre 1946). In realtà, rispetto alle questioni sollevate dalla rivalità americano-sovietica, la questione coloniale era del tutto marginale e compare esplicitamente solo in un paragrafo dell'articolo datato 27 novembre 1946: «Lo scontro tra imperi, si trova di già in procinto di diventare secondario rispetto allo scontro delle civiltà. Dovunque, infatti, le civiltà colonizzate stanno facendo sentire la loro voce. Tra dieci anni, o tra cinquant'anni, la preminenza della civiltà occidentale verrà messa in discussione. Ragion per cui, tanto vale pensarci subito e aprire il Parlamento Mondiale a queste civiltà, in modo che la sua legge divenga davvero universale, e universale sia anche l'ordine che sancisce.»
Ancora una volta, O. Gloag induce in errore i lettori, analizzando questo testo come se esso esprimesse il desiderio di «mantenere nell'ovile coloniale» (p. 73) i popoli soggiogati dall'imperialismo occidentale, anziché vedere in esso una critica al funzionamento dell'ONU e al desiderio di veder trionfare un ordine veramente universale, e che, per scongiurare lo spettro di una terza guerra mondiale in cui verrebbero utilizzate armi nucleari, non sia per questo soggetto ai desideri dei due "Grandi". Nel farlo, nell'insistente e maldestro tentativo di ridurre l'intervento e il pensiero di Camus alla sola questione coloniale – in particolare nella sua serie "Né vittime né carnefici", che ha una portata assai più generale – O. Gloag manca completamente il bersaglio.
Nella sua lettura de "L'uomo in rivolta"(Gallimard, 1951), O. Gloag si dimostra recidivo, nel citare l'acida critica di Francis Jeanson pubblicata su Les Temps modernes. In opposizione a Camus, Jeanson viene presentato come se fosse un futuro «protagonista della lotta metropolitana per l'indipendenza algerina, a fianco del FLN» (p. 82); il che sarebbe anche corretto, se non fosse per il fatto che il suo impegno anticolonialista, a favore dell'organizzazione che avrebbe monopolizzato la causa nazionalista, si espresse anche attraverso le calunnie nei confronti dell'organizzazione rivale, l'MNA, ei n particolare nel libro che scrisse insieme a sua moglie Colette, "L'Algérie hors la loi" (Le Seuil, 1955). Questo libro provocò la reazione, tra le altre, anche di Yves Dechézelles – amico di Camus e avvocato di Messali – che, in una "lettera aperta" pubblicata all'inizio del 1956 su "La Vérité" e su "La Révolution prolétarienne", espresse il suo stupore per la faziosità e per i «grossolani attacchi alla verità» che caratterizzavano l'opera dei Jeanson. Due anni dopo, in seguito all'assassinio, da parte del FLN, nell'autunno del 1957, di Embarek Filali – braccio destro di Messali e cofondatore, nel 1937, del Partito Popolare Algerino (PPA) – il cui onore F. Jeanson non esitò a diffamare nel primo numero de "La Giguë", costringendo Dechézelles a rispondere con un articolo intitolato "L'infamia" e pubblicato nel marzo 1958 su "La Commune", Organo del Comitato di Collegamento e d'Azione per la Democrazia Operaia (CLADO): «Quanto alla sua integrità intellettuale, è da tempo che il signor Francis Jeanson ha smesso di farsi delle illusioni. Egli si è schierato a gran voce nel grave e doloroso conflitto che ha contrapposto l'FLN e l'MNA; e questo era e rimane un suo diritto. Ma per un uomo che - nel suo libro "L'Algérie hors-la-loi" - pretendeva di scrivere la storia della rivoluzione algerina, la passione non giustificava né l'errore né la distorsione sistematica dei fatti, né, tanto meno, la loro falsificazione.»
Quasi si trattasse di un'inquietante eco che proviene dal passato, il metodo Jeanson assomiglia in maniera impressionante al metodo Gloag; per ciò che riguarda la rivalità tra Camus e Sartre... Ma nel suo limitarsi a Les Temps Modernes, "Oublier Camus" accenna appena all'accoglienza favorevole che nella stampa di sinistra ebbe "L'uomo in rivolta", ad esempio negli articoli di Jane Albert-Hesse su Franc-Tireur, di Georges Fontenis su Le Libertaire, o di Jacques Muglioni su La Révolution prolétarienne. Ma visto che il punto è quello di forzare la mano e rileggere la storia – ma anche interpretare il nostro presente – attraverso il conflitto dei primi anni '50, sebbene ciò significa cancellare o sminuire quelle convergenze la cui esistenza è dimostrata. O. Gloag decreta che «Camus e Sartre sono diventati così paradossalmente inseparabili: in quanto essi rappresentano quelli che, nei dibattiti fondamentali sul razzismo e sull'oppressio nel sociale in tutte le sue forme, sono dei poli opposti» (p. 85). Se così fosse, come si fa a capire come mai Jean-Luc Mélenchon, il fondatore della France Insoumise (LFI) – una formazione citata favorevolmente da O. Gloag in un'intervista a "Jeune Afrique" – si riferisca così spesso a Camus, associandolo, talvolta, a Sartre? In questo caso, il manicheismo metodologico, unito all'evitare alcune fonti considerate meno prestigiose, secondo una certa concezione della storia culturale, rende un cattivo servizio alla comprensione dei dibattiti politici e intellettuali in Francia. Perché non ha citato l'"Appello all'opinione internazionale", pubblicato il 24 dicembre 1947 su Gavroche? Questo testo – che nel suo genere è un modello che sintetizza le migliori concezioni del socialismo e dell'internazionalismo del suo tempo – scritto a quattro mani da Camus, Sartre e da una dozzina di altri intellettuali della sinistra francese, stabiliva in particolare che: «Se si è determinati a trovare una soluzione ai problemi nazionali, allora è necessario cercarla nel quadro di un'organizzazione internazionale, e se si vuole istituire una simile organizzazione, dobbiamo essere consapevoli che essa richiede una rivoluzione socialista e la sostituzione della proprietà privata con una vera proprietà collettiva. D'altra parte, poiché l'Europa che si sta costruendo comprende in sé diversi imperi coloniali, appare ovvio che l'emancipazione delle classi lavoratrici - che è il fine e il mezzo della Rivoluzione - non avrebbe alcun senso senza la parallela emancipazione delle masse colonizzate».

Nel quarto capitolo – intitolato "L'Anti-Sartre" – O. Gloag si lascia andare alle stesse interpretazioni approssimative e ossessive dell'opera di Camus, in particolare su "La caduta" (Gallimard, 1956), "L'esilio e il regno"(Gallimard, 1957) e "Il primo uomo" (Gallimard, 1994). Queste sono sicuramente le pagine meno interessanti del libro. Passiamo quindi subito all'ultimo capitolo – intitolato "Ricevimenti" – in cui l'autore mostra tutto il suo talento di falsario. O. Gloag cerca di dimostrare che Camus non sempre abbia cercato di impedire le esecuzioni degli indipendentisti algerini condannati a morte. Per farlo, cita un estratto del racconto di Gisèle Halimi, "Le Lait de l'oranger" (Gallimard, 1988), che sembra sostenere tale tesi: «Quel giorno mi rifiutò qualsiasi aiuto. Brevemente e senza fronzoli.» Il motivo sembra sia stato così evidente che O. Gloag è molto attento nel sottolineare questo rifiuto. Tuttavia, se invece si fosse preso la briga di continuare a leggere quel brano, avrebbe dovuto avere l'onestà di riconoscere che Camus, alla fine,si era trovato d'accordo con Halimi che, insieme a Dechézelles (a casa del quale incontrò lo scrittore nell'estate del 1956) perorava la causa di Badèche Ben Hamdi,  accusato di aver assassinato il 28 dicembre 1956 ad Algeri, Amédée Froger, portavoce degli ultras di "Algeria francese" (cfr. la storica Sylvie Thénault, "Les Ratonnades d'Alger", 1956; Le Seuil, 2022). Questo attentato, promosso da una rete messalista, non venne rivendicato dall'MNA a causa delle divisioni nell'organizzazione nazionalista, e delle manifestazioni razziste che fecero seguito a questa azione. Questo episodio, distorto in maniera faziosa da O. Gloag, gli permette di scrivere che «pertanto, l'opposizione di Camus alla pena di morte è condizionata: egli non vuole intervenire a favore di coloro che considera terroristi» (p. 117). Quella che vediamo è una nuova scorciatoia, a dir poco discutibile, dal momento che basta esaminare gli scritti e il comportamento di Camus per confutare o per qualificare una tale affermazione. Infatti, in una lettera del 25 marzo 1955, indirizzata al militante trotskista Daniel Renard, lo scrittore aderisce al Comitato per la liberazione di Messali Hadj e delle vittime della repressione, pur esprimendo la sua disapprovazione per il terrorismo: «Voi potete, quanto meno, in quella che è la vostra azione attuale, utilizzare il mio nome ogni qual volta si tratti di liberare dei militanti arabi, o proteggerli dalla repressione poliziesca. Ma nella misura in cui la mia opinione può interessare i nostri compagni arabi, io conto su di voi per far loro sapere che disapprovo in tutto e per tutto il terrorismo contro le popolazioni civili. (Ovviamente, ho la stessa opinione sull'antiterrorismo.) In realtà, l'unico risultato che ottengono questi metodi ciechi è, come ho visto, quello di rafforzare in maniera potente la reazione colonialista, e ridurre all'impotenza quei francesi liberali, il cui compito ora diventa sempre più difficile».
Questa presa diposizione, enunciata pochi mesi prima dell'Appello per una tregua civile in Algeria – e che non sembra interessare O. Gloag – attraverso la quale Camus cercò di «garantire la protezione dei civili innocenti» in un contesto di estrema escalation crescente, era in linea con i principi difesi da Camus, che era già intervenuto per denunciare la repressione colonialista prima dello scoppio dell'insurrezione del 1° novembre 1954, ad esempio in occasione del processo ai membri dell'Organizzazione Speciale, il ramo paramilitare del movimento messalista. Il «grande scrittore» – annoverato, per l'occasione, tra le «personalità democratiche francesi», tra le quali Claude Bourdet e André Mandouze – inviò anche una lettera al presidente del tribunale di Blida, un estratto della quale venne pubblicato su L'Algérie libre l'8 novembre 1951: «Possiamo almeno dire, a proposito degli uomini che vi stanno davanti e che rischiano delle condanne durissime che, se è possibile anche per un solo momento, sospettare che possano essere stati vittime di detenzioni arbitrarie o di gravi abusi, da quel momento in poi, dobbiamo sperare con tutte le nostre forze che la giustizia del nostro paese si rifiuterà di punire minimamente, con una sentenza, tali atti intollerabili. La causa della Francia in questo paese, se vuole mantenere un senso e un futuro, non può che essere quella della giustizia assoluta. E la giustizia, in questa occasione, per essere assoluta, non può fare a meno di certezze assolute. E un'accusa che avesse la debolezza di essere basata sugli abusi della polizia metterebbe immediatamente in dubbio quella colpevolezza che deve comunque prima provare».
In maniera analoga, in una lettera pubblicata su Le Monde il 19 e 20 luglio 1953, lo scrittore reagirà al massacro degli operai algerini a Parigi, che viene portato alla luce, in particolare, dal libro di Maurice Rajsfus, "1953, un 14 juillet sanglant" (Agnès Viénot, 2003): «Quando si constata che la maggior parte dei giornali (il vostro è tra le eccezioni) riportano con il modesto nome di "risse" o di "incidenti", quella che descrivono come una piccola operazione che è costata sette morti e più di cento feriti, e quando vediamo i nostri parlamentari, in fretta e furia, liquidare di nascosto questi morti ingombranti, mi sembra che sia lecito chiedersi se la stampa, il governo, il Parlamento sarebbero stati così disinvolti se i manifestanti non fossero stati nordafricani, e se la polizia avrebbe sparato con la stessa sicurezza e disinvoltura. Certo che no, e le vittime del 14 luglio sono state anche un po' uccise da un razzismo che non osa pronunciare il suo nome».
Evidentemente, simili prese di posizione non rientrano nel quadro analitico di O. Gloag. Tanto vale ignorarle: è più comodo. Il saggista preferisce addentrarsi in un territorio che egli ritiene sia più favorevole alla sua tesi, ma che tuttavia ancora una volta tradisce la sua ignoranza in materia. Così, per quel che riguarda la «tortura degli indipendentisti, da parte dello Stato francese, per mezzo del suo esercito» (p. 122), l'autore sostiene che si tratta di una «pratica che Camus non menziona, e che si rifiuta di condannare pubblicamente». Tuttavia, però, lo scrittore lo aveva spiegato nella prefazione alle sue "Chroniques algériennes" (Gallimard, 1958), in un lungo passo che, per coglierne la portata e i limiti, deve essere citato:

«E che cos'è questa efficienza che riesce a giustificare quanto di più ingiustificabile ci sia nell'avversario? A tal proposito, va affrontato di petto l'argomento principale di coloro che si sono schierati a favore della tortura: è quella che ci ha permesso di trovare trenta bombe, al prezzo di un certo onore, ma allo stesso tempo ha dato origine a cinquanta nuovi terroristi che, operando in modo diverso e altrove, causeranno la morte di un numero ancora maggiore di persone innocenti. Sebbene venga accettata nel nome del realismo e dell'efficienza, qui l'indecenza non ha alcun altro scopo se non quello di squalificare il nostro paese ai suoi stessi occhi e a quelli dell'estero. In ultima analisi, queste belle imprese aprono infallibilmente la strada alla demoralizzazione della Francia e all'abbandono dell'Algeria. Non saranno questi metodi di censura, vergognosi o cinici, ma sempre stupidi, che cambieranno qualcosa in questa verità. Il dovere del governo non è quello di reprimere le proteste contro gli eccessi criminali della repressione; è necessario invece reprimere tali eccessi, e condannarli pubblicamente, in modo che ogni cittadino non si debba sentire personalmente responsabile delle imprese di pochi, e quindi si senta obbligato a denunciarle, o ad assumersene la responsabilità. Ma, perché possa essere al contempo utile e giusto, dobbiamo condannare con la stessa forza, e senza peli sulla lingua, il terrorismo esercitato dal FLN contro i civili francesi e, del resto, in misura maggiore, contro i civili arabi. Questo terrorismo è un crimine che non può essere giustificato, né si può permettere che si sviluppi. Nella forma in cui viene praticato, nessun movimento rivoluzionario l'ha mai ammesso, e i terroristi russi del 1905 - per esempio - sarebbero morti (ne hanno dato la prova) piuttosto che abbassarsi a praticarlo. Il riconoscimento delle ingiustizie subite dal popolo arabo, non può trasformarsi in un'indulgenza sistematica per coloro che uccidono indiscriminatamente civili arabi e francesi senza alcun riguardo per l'età o per il sesso. Dopo tutto, Gandhi ha dimostrato che era possibile combattere per il proprio popolo, e vincere, senza smettere per un solo giorno di continuare a essere rispettabili. Qualunque sia la causa che si difende, essa rimarrà per sempre disonorata dal massacro indiscriminato di una folla innocente dove l'assassino sa già in anticipo che colpirà la donna e il bambino. Non ho mai smesso di dire, come si vedrà in questo libro, che queste due condanne non possono essere separate se si vuole che siano efficaci. Ecco perché mi è sembrato indecente e dannoso gridare contro la tortura facendolo insieme a chi ha digerito assai bene Melouza, o la mutilazione dei bambini europei. Così come mi è sembrato dannoso e indecente condannare il terrorismo, facendolo a fianco di coloro che trovano che la tortura sia leggera da sopportare. La spiacevole verità, ahimè, è che una parte della nostra opinione pubblica pensa segretamente che gli arabi abbiano acquisito il diritto, in un certo qual modo, di massacrare e mutilare, mentre un'altra parte di quell'opinione pubblica accetta di legittimare, in un certo qual modo, tutti gli eccessi. Per giustificarsi, ciascuna parte si basa sul crimine dell'altra. C'è una casistica del sangue in cui non credo che un intellettuale debba essere coinvolto, a meno che non prenda egli stesso le armi. Quando la violenza risponde alla violenza in un delirio che diventa esasperato, e rende impossibile il semplice linguaggio della ragione, il ruolo degli intellettuali non può essere, come leggiamo ogni giorno, quello di scusare da lontano uno degli atti di violenza e condannare l'altro, con il duplice effetto di far indignare fino alla furia il violento che è stato condannato, e incoraggiare a una maggiore violenza il violento che è stato scagionato. Se non si uniscono ai combattenti stessi, il loro ruolo (certamente più oscuro!) dovrebbe allora essere semplicemente quello di lavorare per la pacificazione, in modo che la ragione possa avere di nuovo la sua possibilità».

I lettori onesti avranno capito che Camus non solo parla di tortura, ma la denuncia, rispondendo anche a chi la difende in nome dell'efficienza. Lungi dal fermarsi a questo, egli condanna anche la censura oltre a ribadire la sua condanna del terrorismo basandosi su due esempi storici (il populismo russo e l'anticolonialismo indiano), per meglio situare la sua disapprovazione in una prospettiva risolutamente emancipatoria. A questo richiamo ai principi cardine, si aggiunge la denuncia dell'ipocrisia, prevalente tra gli intellettuali e gli attivisti della sinistra francese, che, pur opponendosi alla tortura esercitata dalle autorità francesi, sono tuttavia rimasti in silenzio di fronte alle atrocità perpetrate da elementi del FLN, come nel caso del massacro di Melouza-Beni Illemane alla fine di maggio 1957 contro i sostenitori dell'MNA. All'epoca, a parte la minoranza anticolonialista favorevole ai messalisti, solo una dozzina di "oppositori del governo", tra cui Robert Barrat e Jean Daniel, osarono chiamare in causa i separatisti, in un testo pubblicato nel giugno 1957 su La Révolution prolétarienne: «Senza rimettere in discussione le posizioni che possono aver assunto sullo sfondo politico del problema algerino – e in particolare sulla necessità di porre, per mezzo di un rapido negoziato, alla vera e propria strage di innocenti che la guerra d'Algeria era diventata - essi rivolgevano un appello urgente ai dirigenti del FLN e dell'ALN affinché sconfessassero pubblicamente tali metodi di lotta e facessero tutto il possibile perché tali metodi venissero abbandonati una volta per tutte».
Ma di questo clima, c'è veramente ben poco in "Oublier Camus", il quale libro, ignorando i rapporti di forza in continua evoluzione nel campo politico e mediatico francese, impedisce di cogliere il valore dei discorsi, rendendoli avulsi dal contesto in cui sono stati pronunciati. Per questo è indubbiamente meglio «rileggere davvero Camus», dimenticando senza dubbio Gloag, per poter comprendere il dramma che si è consumato nel secolo scorso sulle spalle dei più svantaggiati - non si sottolineerà mai abbastanza la violenza ipocrita delle guerre "francesi" condotte da fazioni "algerine" interposte, dalla lotta di liberazione nazionale alla "guerra civile" degli anni Novanta - e il dramma che si consuma ancora oggi, in Francia, Algeria, Israele, Palestina e ovunque. Ecco perché diventa più facile riconciliarsi con Camus quando egli espone quale può essere il ruolo degli intellettuali.

Per concludere, ma senza chiudere del tutto il discorso, al dossier mancano ancora due elementi; cosa che accade sovente, sia per gli anti-camusiani che per i filo-camusiani. A differenza degli intellettuali della sinistra francese che mantenevano il silenzio sulle violenze fratricide tra i diversi nazionalisti algerini – quando non sono addirittura arrivati a legittimare l'estromissione della corrente messalista, avvenuta con i mezzi più riprovevoli – Camus, nell'ottobre del 1957 redasse un breve testo, pubblicato nel numero di novembre de La Révolution prolétarienne: «Considerato che mi sto rivolgendo a dei sindacalisti, ho da porre una domanda, sia a loro che a me stesso. Permetteremo che i migliori sindacalisti algerini vengano assassinati da parte di un'organizzazione che è grazie all'assassinio che sembra voler assumere la direzione totalitaria del movimento algerino? I quadri algerini, dei quali l'Algeria di domani, qualunque essa sia, non potrà fare a meno, sono estremamente rari (e in questa situazione noi abbiamo le nostre responsabilità). Ma tra essi, in primo piano, spiccano i militanti sindacalisti. Li stanno uccidendo uno dopo l'altro, e a ogni militante che cade, l'avvenire algerino sprofonda sempre un po' più nella notte. Bisogna quanto meno dirlo, e il più forte possibile, in modo così da evitare che l'anticolonialismo diventi la buona coscienza che giustifica tutto, e in primo luogo gli assassini». Il problema sollevato da Camus, che evoca la futura Algeria– che, lascia intendere, potrebbe essere indipendente –, riguarda i metodi che vengono usati in nome della sua liberazione – vale a dire, gli omicidi e il terrorismo – in quello che è lo spazio dei sindacalisti, e quindi della lotta di classe: questo "post.scriptum" sarebbe servito come riferimento per il Comitato di Solidarietà e Difesa dei Sindacalisti Algerini – oltre che per il rispetto delle minoranze – e di conseguenza per le libertà  democratiche – in questo processo. Nel fare questo, Camus si trovò dalla parte della sinistra filo-messalista – cosa che gli fu più facile in seguito al rifiuto della direzione dell'MNA di usare e legittimare la violenza contro i civili – la quale pubblicò, in questo contesto, un "Appello all'opinione", scritto su iniziativa di Jean Cassou – rilanciato il 17 ottobre 1957 su La Vérité, e firmato da André Breton, Daniel Guérin, Edgar Morin, ecc. – in cui si può leggere: «Spetta di certo ai nazionalisti algerini dirigere essi stessi la propria lotta, e noi non abbiamo mai preteso di dare loro dei consigli. Ma esiste anche una forma di paternalismo altrettanto pernicioso e che noi rifiutiamo: è quello che consiste nell'approvare tutto ciò che fanno i nazionalisti, chiunque essi siano, e perfino anche se le loro azioni perseguono dei fini, e usano dei metodi antidemocratici». Sono testi come questo, emerso da un'epoca passata ormai lontana, a misurare fino a che punto sia ormai arrivato il grado di decomposizione del movimento operaio e rivoluzionario, e quale sia stato l'arretramento di tutti quelli che erano i principi elementari della riflessione e dell'impegno pubblico. Contrariamente a quel che scrive O. Gloag, Camus non rifiutò affatto di farsi coinvolgere nel conflitto algerino (p. 93). Lo fece in molte occasioni, con i mezzi che riteneva più consoni alla sua etica - per quanto ciò possa invece sembrare insufficiente, o ambivalente, sotto molti aspetti, come appare ne "La trahison permanente" di Louis Janover e Bernard Pêcheur pubblicato nel giugno 1961 su Sédition - e lo dimostra l'appoggio dato all'appello di Jean Cassou in risposta al discorso di Messali dell'11 giugno 1959, pubblicato in settembre su La Révolution prolétarienne: «I francesi firmatari, toccati dall'appello del leader algerino Messali Hadj per la cessazione delle lotte fratricide tra algerini e degli attentati terroristici, si uniscono a questo appello e protestano contro  tutti quei metodi che rendono sempre più difficile la fine della guerra d'Algeria, la pacificazione e l'instaurazione di migliori e durature condizioni di vita e di progresso per l'Algeria».

Per concludere, vorrei esprimere il mio accordo con O. Gloag, almeno su un punto della sua conclusione dal titolo "Camus postmoderno prima del suo tempo" – quando afferma: «"Dimenticare Camus", nel modo in cui lo presentiamo, vuole anche dire permetterci di dare uno sguardo più lucido alle false sembianze di una certa sinistra che maschera in maniera subdola il suo razzismo e il suo imperialismo per mezzo di una falsa universalità, che maschera anche la lotta di classe con un egualitarismo di facciata» (p. 140). Non credo affatto di essere quello messo peggio per quanto attiene alla mia quota di carenze di una certa sinistra – anche se dubito che stiamo parlando della stessa cosa – senonché O. Gloag si sbaglia completamente nel prendere di mira «questa sinistra, della quale Camus è diventato uno degli emblemi», a parte il fatto che non fa nessun nome di organizzazioni, correnti o personalità, e che gli avrebbero potuto permettere di uscire dall'ambiguità. Si tratta dei militanti della Federazione Anarchica – che, è vero, sono rimasti fedeli alla memoria di Camus, come ha fatto Maurice Joyeux che, il 9 novembre 1978, ha testimoniato la sua amicizia su Le Monde libertaire – o dei redattori de L'Humanité; che poi sono queste le due uniche istituzioni di sinistra menzionate nell'introduzione (p. 15)? O è piuttosto si tratta del fatto che la popolarità di Camus consente ogni sorta di appropriazione, più o meno fallace? Se questo fosse stato questo l'oggetto del libro di O. Gloag, in quel caso egli sarebbe stato elogiato per il suo lavoro di salute pubblica. Ma avendo caricaturato all'eccesso tutti i difetti dell'intellighenzia autoritaria, "Oublier Camus" non contribuirà in alcun modo all'opera di ricostruzione che viene richiesta da quest'epoca reazionaria. E dovremmo essere preoccupati per quella che è stata la sua accoglienza entusiastica in alcuni spazi politici e mediatici francofoni. Dal momento che, come scriveva Dechézelles, «criticare non significa calunniare».

- Nedjib SIDI MOUSSA, 24 dicembre 2023 - Pubblicato su A contretemeps

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