Esiste un filo sotterraneo e invisibile che lega due scrittori apparentemente lontani, appartenenti a mondi assai diversi; e David Markson e Milan Kundera mi sembrano assomigliarsi in quella che è una loro certa fiducia nelle inesauribili possibilità della forma romanzo. Ciò che in Kundera è cosmopolita e multilingue, in Markson invece è... americano; e questo non solo per la specifica circoscrizione dovuta al suo inglese, ma anche per il legame che unisce Markson a una scena d'avanguardia che lo rende vicino ad autori come Barthelme e Pynchon.
E tuttavia, malgrado ciò, Markson & Kundera si avvicinano grazie alla comune fiducia nelle possibilità del romanzo: Kundera, lo fa a partire da Cervantes e da Broch; mentre Markson, invece, procede a partire da… Wittgenstein.
Fino a che punto può essere utilizzato il materiale romanzesco? Fino a che punto, il lettore è in grado di poter identificare, come tale, il materiale romanzesco?
Sono queste, solo alcune delle domande che possono sorgere a partire dalla lettura dei romanzi di Markson, i quali romanzi appaiono caratterizzati da un'impressionante rarefazione di elementi, quali ad esempio il narratore e la trama.
Kundera, invece, interferisce nel discorso romanzesco facendolo a partire dal discorso filosofico, e viceversa si interessa al discorso filosofico facendolo partire proprio dal discorso romanzesco; a sua volta, questo movimento oscillante viene reso possibile da quella che, nell'opera di Kundera in generale, viene prodotto dall'interferenza compiuta dal discorso saggistico, il quale funziona come se fosse lo strumento per la cucitura degli altri due discorsi.
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