In un dramma degno del Dottor Živago, nel quale si intrecciano scienza, amori, rivoluzioni e guerre, Peter Pringle ricostruisce la storia di Nikolaj Vavilov, lo scienziato che, agli albori della genetica, sognava di sconfiggere la fame nel mondo coltivando piante in grado di sopravvivere in ogni condizione climatica e ad ogni latitudine, nei deserti di sabbia e tra i ghiacci della tundra, e gettando così le basi per un grandioso progetto di raccolta e conservazione della biodiversità alimentare. Il progetto pionieristico di Vavilov si inscriveva nella grande utopia dei primi rivoluzionari bolscevichi, che non esitarono a finanziare le sue spedizioni nei cinque continenti alla ricerca di quelle centinaia di migliaia di semi che avrebbero dato vita a un meraviglioso museo vivente della varietà delle specie botaniche. Alla morte di Lenin, però, il sogno di Vavilov si trasformò in un incubo. La sua indipendenza di pensiero, la fedeltà alla scienza e i rapporti con studiosi di tutto il mondo ne decretarono l’emarginazione da parte degli scienziati fedeli a Stalin, che con l’aiuto della polizia segreta montarono contro di lui un corposo dossier di accuse di sabotaggio e spionaggio, impedendogli di fatto di portare avanti le sue ricerche. E così, l’uomo che sognava di sfamare il pianeta fu una delle vittime più illustri delle purghe staliniane, condannato – per una sorte tragicamente ironica – a morire di fame nelle prigioni sovietiche. Attraverso documenti inediti degli archivi dell’Urss, tra cui il dossier della polizia segreta contro Vavilov, Peter Pringle ricostruisce la trama che portò all’assassinio di questo studioso brillante e profondamente umano, vittima della demagogia anti-scientifica e della cieca ideologia. Un visionario che, come sottolinea Carlo Petrini nella prefazione al volume, già un secolo fa aveva capito che «la biodiversità agricola è la chiave per la sicurezza e la sovranità alimentare a livello mondiale».
Dal risvolto di copertina di: PETER PRINGLE, "Il genio dei semi. Nikolaj Vavilov, pioniere della biodiversità". DONZELLI, Pagine 318, €28
I buoni semi della scienza che Stalin non digeriva
- di Telmo Pievani -
Voleva sconfiggere tutte le carestie e morì di fame: era il genio dei semi e fu rinchiuso in un carcere staliniano. La sua storia, ben raccontata dal giornalista britannico ed ex corrispondente da Mosca Peter Pringle, è una sintesi tragicamente perfetta del Novecento. Nikolaj Ivanovic Vavilov era nato a Mosca nel 1887, da una famiglia borghese originaria di un villaggio della Russia settentrionale. Studia all’Accademia Agraria e accarezza il sogno di migliorare la produzione agricola del suo Paese, mettendola al passo con le conoscenze della nascente genetica, fondata fra gli altri da William Bateson, di cui Vavilov diventa allievo a Cambridge nel 1913. L’anno dopo evita la guerra perché si era danneggiato un occhio durante un esperimento di chimica. Lo mandano in Persia per risolvere il mistero di un pane che intossicava i soldati e lui capisce subito qual è il parassita. Anziché rientrare, va nel Pamir, convinto che le varietà rare, nelle quali cercare geni di resistenza a malattie e a climi estremi, si trovassero in altura. Qui comincia la sua raccolta di semi e ha la grande intuizione: trovare i centri di origine delle piante perché lì ci sono le varietà affini, selvatiche e non, le più antiche, veri serbatoi genetici di biodiversità a cui attingere per migliorare le specie coltivate in patria.
Scoppiano la rivoluzione del 1917, la guerra civile e le carestie, ma la politica non gli interessa. Sacrifica tutto, anche la famiglia, alla scienza. L’Università di Saratov, sul Volga, gli offre, a soli 35 anni, la cattedra di Agronomia. I suoi campi sperimentali sono geniali e lo chiamano a Pietrogrado per dirigere l’Istituto di botanica applicata, dove trasferisce la sua banca di semi, in una splendida sede in piazza Sant’Isacco. Lenin lo appoggia. Dal 1921 Vavilov gira per il mondo, per cercare sementi e incontrare i migliori scienziati dell’epoca. Dopo gli Stati Uniti, è la volta di una perigliosa spedizione in Afghanistan. Poi nel 1926 è in Europa del sud, Maghreb, Medio Oriente, Somalia e Abissinia. Individua i possibili centri di origine della biodiversità vegetale. Spedisce all’Istituto una montagna di semi rari dai cinque continenti. Ma Lenin nel frattempo è morto e le spie di Stalin lo stanno già pedinando.
Nel 1927 l’infaticabile scienziato ha creato 115 stazioni di studio delle varietà vegetali in tutta l’Urss. In una di queste, in Azerbaigian, lavora Trofim Lysenko, un torvo funzionario di basso livello. La «Pravda» lo elogia in chiave anti-intellettualistica: è uno «scienziato scalzo», un orticoltore pratico che trova presto soluzioni anche senza aver studiato e non se ne sta chiuso in laboratorio come certi genetisti. Lysenko è convinto che il ruolo dell’ambiente sia cruciale e che la temperatura abbia effetti ereditabili sui tempi di maturazione delle piante. Vavilov gli concede il beneficio del dubbio, ma capisce che non è scienza, solo manipolazione di esperimenti. Mentre Vavilov si afferma come ambasciatore scientifico dell’Urss, organizza a Leningrado un convegno mondiale di genetica agraria e fa una spedizione in Cina e Giappone, cresce l’opposizione interna. Nel 1929 Stalin proclama la grande svolta: collettivizzazione agricola, istruzione superiore alle masse, industrializzazione, epurazione dei vecchi accademici e adesione al lamarckismo di Lysenko, più veloce, più consono alla dialettica della natura. L’opportunista Lysenko diventa per la propaganda un «eroe del socialismo». Mentre milioni di kulaki vengono deportati, cominciano gli arresti e i licenziamenti di tecnici e scienziati, tutti nemici del popolo. Stalin ha fretta, cerca capri espiatori per la nuova carestia. La polizia segreta assolda diffamatori e apre un fascicolo su Vavilov, per presunto sabotaggio contro la scienza socialista. Lui torna negli Stati Uniti e in Messico, porta a casa semi di grande valore anche economico (gomma, chinino, patate), cerca di far rientrare illustri connazionali come il genetista Theodosius Dobzhansky, insomma si comporta da vero patriota — benché non sia comunista ma un socialista umanitario — e in patria per tutta risposta gli scagnozzi di Lysenko gli stanno scavando la fossa.
Comincia un decennio in cui solo la visibilità internazionale lo protegge dall’arresto. Stalin gli taglia i fondi e impone un ultimatum capestro: deve trovare nuove colture per sconfiggere le carestie in quattro anni. Impossibile, la genetica è lenta. Nel 1934 Lysenko si fa avanti, proclamando di aver aumentato le rese di grano del 40% addestrando le piante. Non è vero, ma i capi sovietici vogliono crederci. Vavilov cerca un inutile compromesso e parte per un’ultima trionfale tournée nelle Americhe. Intanto i suoi ricercatori vengono arrestati e alcuni obbligati a confessioni forzate contro di lui. Nel 1935, Stalin loda pubblicamente Lysenko: è tempo di modificare il mondo vegetale e animale per la costruzione della società socialista. Il furore ideologico del dittatore ha sposato il lamarckismo. Segue il terrore: gli oppositori del ciarlatano Lysenko vengono arrestati e fucilati come traditori; su Vavilov pesano cinque faldoni di menzogne. Lui risponde che andrà al rogo, pur di non rinunciare alle sue convinzioni scientifiche. La genetica sovietica, ammirata nel mondo, è annientata. Inizia la guerra, la situazione è abbastanza caotica per far sparire Vavilov senza troppo rumore. Laurentij Berja lo spedisce in Ucraina occidentale e lo fa arrestare ad agosto del 1940. Nel carcere moscovita subisce interrogatori massacranti per undici mesi: tutte le notti, 400 sedute per 1.700 ore. Il 9 luglio del 1941 è condannato alla fucilazione e viene mandato nel carcere di Saratov, la città dove era cominciata la sua carriera. Si ammala di scorbuto, non si regge più sulle gambe. Nell’aprile del 1942, la Royal Society gli concede l’onore di eleggerlo membro straniero e le autorità sovietiche sono in imbarazzo. Poche settimane dopo, la pena capitale gli viene commutata in vent’anni ai lavori forzati. Ma è troppo tardi. Muore il 26 gennaio del 1943, ufficialmente per polmonite, in realtà per malnutrizione prolungata.
Tre anni dopo, il primogenito di Vavilov, Oleg, muore in uno strano incidente sugli sci nel Caucaso. Lo ritrovano sotto la neve con il segno di un colpo di piccozza nella tempia. Forse sapeva troppo. Quello stesso anno, con un cinismo spaventoso, per pararsi dagli attacchi stranieri Stalin impone al fratello di Vavilov, Sergej, illustre fisico, di diventare presidente dell’Accademia delle Scienze e di assistere impotente alla demolizione dell’eredità di suo fratello. La riabilitazione arriverà solo nel 1955 e Lysenko non ammetterà mai le sue imposture. Ma sono le idee di Nikolaj Vavilov ad aver vinto. Nel maggio del 1943, finito l’assedio di Leningrado, nell’Istituto la collezione di Vavilov era salva. Quattro dipendenti erano morti di fame pur di non mangiare i semi: lo specialista di arachidi e i responsabili delle collezioni di avene, risi e patate. Si scoprirà poi che Hitler aveva dato l’ordine alle SS di impadronirsi delle raccolte di Vavilov. Quei quattro non sacrificarono i preziosi semi di Vavilov e li trovarono accasciati sulle loro scrivanie. Avevano la stessa dedizione alla scienza del loro maestro.
- Telmo Pievani - Pubblicato su La Lettura del 25/6/2023 -
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