«Un libro, per quanto frammentario, ha un centro d’attrazione: tale centro non è fisso, ma si sposta per la pressione del libro e per le circostanze della composizione. Centro fisso, che inoltre – se è un vero centro – si sposta rimanendo tuttavia il medesimo e al contempo divenendo sempre più centrale, sempre più nascosto, sempre più incerto e sempre più imperioso. Chi scrive un libro, lo scrive perché desidera e al tempo stesso ignora questo centro. L’impressione d’averlo trovato può essere anche soltanto l’illusione d’averlo raggiunto; quando si tratta di un libro di chiarimenti, vi è una sorta di lealtà di metodo che induce a dire qual è il punto verso il quale il libro sembra dirigersi; qui, verso le pagine intitolate "Lo sguardo d’Orfeo".»
« Quando Orfeo scende verso Euridice, l’arte è la potenza che fa sì che la notte si apra. Attraverso la forza dell’arte, la notte lo accoglie, e si muta in intimità accogliente, nell’intesa e nell’accordo della prima notte. Ma è verso Euridice che Orfeo è sceso: per lui Euridice è l’estremo che l’arte possa raggiungere, ella è, sotto un nome che la dissimula e sotto un velo che la copre, il punto profondamente oscuro a cui sembrano tendere l’arte, il desiderio, la morte, la notte. Euridice è l’instante in cui l’essenza della notte si avvicina come altra notte.
L’opera di Orfeo non consiste, tuttavia, nell’assicurare l’avvicinamento a quel «punto» scendendo verso la profondità. La sua opera è riuscire a riportarlo alla luce del giorno e a conferirgli, nel giorno, forma, figura e realtà. Orfeo tutto può, eccetto che guardare in faccia quel «punto», eccetto che guardare il centro della notte nella notte. Egli può scendere verso di lui, egli può, capacità assai più forte, attirarlo a sé, e, insieme a sé, attirarlo verso l’alto, ma solo distogliendone lo sguardo. Voltarsi è l’unico modo possibile per avvicinarsi a esso: questo il senso della dissimulazione che si rivela nella notte. Ma Orfeo, nel suo moto migratorio, dimentica l’opera che deve portare a termine, e di necessità la dimentica, perché l’esigenza ultima del suo movimento non è che ci sia un’opera, ma che qualcuno si mantenga di fronte a quel «punto», ne colga l’essenza, là dove questa essenza appare, là dove è essenziale e insieme essenziale apparenza: nel cuore della notte.
Dice il mito greco: si può fare un’opera solo quando l’esperienza smisurata della profondità – esperienza che i greci riconoscono essere necessaria all’opera, esperienza in cui l’opera esperisce la sua dismisura – solo quando non è perseguita per se stessa. La profondità non si dà frontalmente, essa si rivela solo nel suo dissimularsi nell’opera. Risposta capitale, inesorabile. Cionondimeno, il mito dimostra al contempo che il destino di Orfeo è di non sottostare a questa legge estrema – e, certo, voltandosi verso Euridice, Orfeo rovina l’opera, l’opera si dissolve immantinente ed Euridice fa ritorno nell’ombra; l’essenza della notte, sotto il suo sguardo, si rivela come l’inessenziale. Così egli tradisce l’opera, e insieme Euridice e la notte. Ma non voltarsi verso Euridice, anche questo sarebbe stato tradirla, avrebbe significato non essere fedele alla forza smisurata e incauta del suo impulso interiore, che non vuole Euridice nella sua verità diurna e nel suo incanto quotidiano, ma la vuole nella sua oscurità notturna, nel suo allontanamento, col suo corpo rinchiuso e il volto sigillato, che vuole vederla non quando lei è visibile ma quando è invisibile, non come l’intimità della vita familiare, ma come l’estraneità di ciò che esclude qualsiasi intimità, non farla vivere, ma avere vivente in lei la pienezza della morte. È solo questo che egli è venuto a cercare negli Inferi. Tutta la gloria della sua opera, tutta la potenza della sua arte e il desiderio stesso di una vita felice alla limpida luce del giorno vengono sacrificati in nome di quell’unica preoccupazione: guardare nella notte ciò che la notte dissimula, l’altra notte, la dissimulazione che appare.
Movimento infinitamente problematico, che il giorno condanna come ingiustificata follia o come espiazione di un eccesso. Per il giorno, la discesa agli Inferi, il movimento verso la vana profondità, è già di per sé un eccesso. È inevitabile che Orfeo trasgredisca la legge che gli vieta di «voltarsi», perché l’ha già infranta fin dai suoi primi passi verso le ombre. Questa considerazione ci suggerisce che, in realtà, Orfeo non ha mai smesso di essere rivolto verso Euridice: l’ha vista invisibile, l’ha toccata intatta, nella sua assenza di ombra, in quella presenza velata che non dissimulava la sua assenza, che era presenza della sua assenza infinita. Se non l’avesse guardata non l’avrebbe attratta, e certo lei non si trova là, ma anche lui, in quello sguardo, è assente, non è meno morto di lei, e non morto di quella tranquilla morte del mondo che è fatta di riposo, silenzio e fine, bensì di quell’altra morte che è morte senza fine, prova dell’assenza di fine.
Il giorno, nel giudicare l’impresa di Orfeo, gli rimprovera anche d’aver peccato di impazienza. L’errore di Orfeo pare allora risiedere nel desiderio che lo porta a vedere e a possedere Euridice, lui, il cui unico destino è di cantarla. Orfeo è solo nel canto, non può rapportarsi a Euridice all’infuori dell’inno, egli esiste solo grazie alla poesia e attraverso di essa, ed Euridice non rappresenta nient’altro che quella dipendenza magica che fa sì che fuori del canto egli non sia che un’ombra e che lo rende libero, vivo e sovrano solo nello spazio della misura orfica. Le cose stanno così: è soltanto nel canto che Orfeo ha potere su Euridice, ma, al contempo, nello stesso canto, Euridice è già perduta e Orfeo stesso è l’Orfeo disperso, l’«infinitamente morto» come lo rende la forza del canto sin dal principio.
Egli perde Euridice perché la desidera oltre i limiti misurati del canto, e si perde lui stesso, ma quel desiderio, Euridice perduta e Orfeo disperso sono necessari al canto, così come l’opera necessita della prova dell’inoperosità eterna. Orfeo pecca d’impazienza. Il suo errore sta nel voler esaurire l’infinito, nel mettere un termine all’interminabile, nel non sostenere senza fine il movimento stesso del suo errore. L’impazienza è lo sbaglio di chi vuole sottrarsi all’assenza di tempo, mentre la pazienza è l’astuzia che cerca di gestire quell’assenza di tempo facendone un altro tempo, un tempo misurato in altro modo. Ma la vera pazienza non esclude l’impazienza, essa ne è invece l’intimità, è impazienza sofferta e sopportata infinitamente. L’impazienza di Orfeo è quindi un movimento giusto: in essa ha inizio ciò che diverrà la sua vera passione, la sua più grande pazienza, il suo soggiorno infinito nella morte.»
Maurice Blanchot - da "Lo spazio letterario" -
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