LA CRITICA DEL LAVORO NEL “DUPLICE” MARX
- Dialettica “categoriale” e “Wertkritik” -
di Afshin Kaveh
Premesse (o “cronache marxiane”)
Quando Roman Rosdolsky scrisse che «è chiaro che un'applicazione fruttuosa della teoria di Marx è possibile solo se in essa si tengono separati gli elementi esoterici e quelli essoterici» [*1], quello che lui anticipava come «chiaro» in verità non poteva di certo esserlo all’epoca, in un angusto panorama pullulato da dubbie ortodossie e animato da fedele estimazione per il “socialismo da caserma” (Kurz). Eppure, in riferimento al contesto nostrano, anche oggi, col fioco lamentìo di quegli spettri, la «fruttuosa applicazione della teoria marxiana» possibile solamente «se si distinguono gli elementi esoterici ed essoterici» della stessa, non trova alcuno sbocco per permettersi di prendere respiro, soffocata per mano di decenni di riletture limitate e fortemente problematiche dell’opera dell’agitatore di Treviri. Ben lontani dal volere indicare una suddivisione netta o, peggio, una tensione inconciliabile tra un Marx “vero” e uno “falso”, tra un Marx “autentico” e uno “inautentico”, tra una sua lettura “giusta” e una “sbagliata”, tra un Marx “filosofo” e uno “scienziato” [*2] ma anzi accogliere l’intuizione di Rosdolsky (poi sviluppata e approfondita, tra gli altri, anche da Robert Kurz [*3]) nella distinzione interna alla sua stessa opera tra un Marx “essoterico” (quello della “lotta di classe” così come tradizionalmente e politicamente intesa e rivendicata, notoriamente il Marx del Manifesto del Partito comunista) e un Marx “esoterico” (quello della teoria del feticismo, del lato astratto del lavoro, della merce, del denaro e del valore come categorie storicamente determinate, specifiche del o generalizzate sistematicamente nel solo modo di produzione capitalistico [kapitalistische Produktionsweise], notoriamente il Marx della “critica dell’economia politica” dei primi capitoli del primo libro de Il Capitale), insomma, come nel Faust di Goethe, due anime che albergano nello stesso petto, ebbene ci permette di comprendere l’importanza e la profondità di questo secondo lato e, oltre a ridimensionare profondamente la teorizzazione critica di Marx mettendo fuori gioco tutto il “marxismo tradizionale” e le sue decine di tendenze, cede uno sguardo d’insieme che sposta radicalmente l’ago della bilancia su un irreversibile punto di non ritorno che si potrebbe sintetizzare in questo modo: un conto è denunciare lo sfruttamento, l’ineguaglianza e l’ingiustizia del modo di produzione capitalistico però sovratemporalizzando, naturalizzando e rendendo eterne le sue categorie costitutive [*4] rivendicandone superficialmente una più equa e giusta ridistribuzione; altro conto è riconoscere le categorie citate come storiche, specifiche dell’irrazionalità del modo di produzione capitalistico, delineando dunque nella loro radicale messa in discussione – senza mai rivendicarsele né averle come fine – il vero campo di battaglia su cui creare e applicare strategicamente le pratiche di rottura per il superamento del modo di produzione capitalistico stesso. Scontato dire che questo presupposto dà vita a una vasta gamma di riflessioni impossibile da racchiudere in uno scritto singolo, ed è per questo motivo che ci daremo qui come punto da scandagliare la sola categoria del “lavoro”. Eppure, all’attenzione di tout le monde, prima di arrivarci è necessario visitare il cuore pulsante del misterioso Marx “esoterico”.
Il nocciolo “esoterico” in Marx
La comprensione del lato “esoterico” di Marx è sicuramente in parte mancata per via dell’oscurantismo che circonda il metodo con cui ha costruito ed esposto la propria teoria critica dell’economia politica. Concediamoci una rapida delucidazione: come riferì in una lettera a Engels del 14 gennaio del 1858, «quanto al metodo del lavoro mi ha reso un grandissimo servizio il fatto che by mere accident […] mi ero riveduto la Logica di Hegel» [*5]. Proprio lui, il «grande pensatore» di cui – in quanto trattato dai suoi contemporanei come un «cane morto» – si era «professato scolaro», al punto di non nascondere di avere «perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare» [*6]. Un “civettare” che non rappresenta certo un semplice esercizio di stile o di prosa, ma una vera e propria scelta metodologica. Tralasciando completamente l’effettiva lettura che Marx aveva di Hegel, completamente mediata dai giovani hegeliani, il procedimento che Marx fa proprio in decenni di confronto critico col Maestro di Stoccarda differisce in ogni singolo aspetto dai metodi di tutte quante le scuole e branche delle tradizionali scienze umane e sociali in cui Marx viene invece forzatamente inserito. Ci venga allora permesso uno sfogo: la tendenza a riporre Marx tra le file delle stesse è tanto riduzionistica quanto errata da causarci una forte fitta al petto e strapparci una furtiva lacrima di dolore, ma qui non vale scrollare le spalle, sghignazzare nervosamente tra sberleffi idioti e dire cosa fatta capo ha, anzi, bisogna sradicare con ferocia brutale questo tipo d’interpretazione e gettare nella pattumiera chi la compie. Dunque, facciamolo una volta per tutte: il procedimento di Marx, che come ammetteva nel «Postscritto alla seconda edizione» de Il Capitale altro non è che il «metodo dialettico» [*7], è un susseguirsi di categorie “logiche” e categorie “storiche” e anche quest’ultime, in quanto in rapporto dialettico tra loro, sono sviluppate e dispiegate “logicamente” e non, come si potrebbe dedurre dal termine, “cronologicamente” come succede, per esempio, nell’arida archeologia foucaultiana e genealogia ereditata e derivata, o anche nella confusione dello stesso Engels dei piani logico-storico e cronologico-storico [*8]. Questo movimento, o questo “processo di formazione dialettico” (Marx), procede «dal particolare al generale» [*9], seguendo comunque la distinzione che Marx faceva tra «modo di compiere l’indagine» [Forschungsweise] e «modo d’esporre» [Darstellungsweise] [*10], i quali rappresentavano per lui la dialettica della salita dal concreto all’astratto e della ridiscesa dall’astratto al concreto. Questa seconda fase, la Darstellung, hegelianamente lo “svolgimento della cosa stessa” [Auslegung der Sache selbst], è secondo Marx il vero e solo metodo scientifico. Tale modello e castello logico del funzionamento del modo di produzione capitalistico composto da Marx, per dirla con le parole di Fineschi, «a un altissimo livello di astrazione» [*11], nel partire dal semplice, e non dall’isolata datità positivista empiricamente determinata, e nell’arrivare poi al complesso, non inizia assolutamente dalle classi e dai loro conflitti ma, bensì, dall’«analisi della merce», identificandola come «forma elementare» [Elementarform] [*12] del modo di produzione capitalistico – il “germe”, l’“embrione”, la “cellula”, la “categoria fondamentale” – e, automuovendosi per negazione attraverso la sua contraddizione interna di “contenuto materiale” e “forma sociale”, da essa sale al “valore” – «l’espressione sociale del mondo delle merci» [*13], il «soggetto automatico» [automatisches Subjekt] [*14] del modo di produzione capitalistico basato sulla tautologica autonomizzazione della «valorizzazione del valore» [Verwertung des Werts] [*15] nella cui logica si inscrivono gli animali umani vestendo ognuno le proprie “maschere di carattere” [Charaktermasken] (presupposto che «le merci non possono andarsene da sole al mercato e non possono scambiarsi da sole» Marx precisa nell’esposizione della sua teoria che «le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra» [*16], nel senso che la socializzazione non si svolge nel proprio agire intenzionale ma bensì impersonalmente, alle proprie spalle, come forme derivate delle categorie capitalistiche da cui si è agiti) – per arrivare infine al “denaro” – il “rapporto sociale” [gesellschaftlichem Verhältnis] della “società delle merci” in cui tutte le finalità e necessità si riducono alla dinamica della corsa unidirezionale per trasformare 100 euro in 110 euro e così via [*17]. Da questo dispiegamento possiamo vedere come il cominciamento dalla “merce” contenga in sé la totalità concreta del “capitale” che, come ci ricorda Marx in polemica nei confronti di Wakefield, «non è una cosa ma», appunto «un rapporto sociale fra persone mediato da cose» [*18]. Tenerlo a mente non è affatto scontato.
Critica del lavoro “con” e “al di là” di Marx
Per amor del vero, l’aver iniziato aguzzando la vista sul lato “esoterico” di Marx, sul suo metodo e su una sintetica comprensione del modo di produzione capitalistico è stato un breve passaggio non per allenare determinate passioni filosofiche, ma per condurre chi legge attraverso il compito che si dà il qui presente articolo, ovvero costruire la base di una “critica categoriale” del “lavoro”; dunque non entreremo nel dettaglio di tante altre questioni essenziali e che man mano, inevitabilmente, si apriranno – per es. teoria del valore, teoria della crisi, ecc. – a cui invece verranno dedicati altri scritti. Scandagliamo l’oggetto della nostra ricerca: è un dato di fatto quanto il “marxismo tradizionale” abbia fatto del “lavoro” la propria ragion d’essere, l’alfa e l’omega, il bene supremo, la sostanza di cui sono fatti i sogni, limitandosi a descrivere il mondo nella sola ottica dell’antagonismo tra capitale e lavoro salariato, riducendo questo all’immediato rapporto conflittuale tra la classe borghese e la classe del proletariato, sbraitando sul plusvalore (quest’ultimo dato, in linea con la logica dello scambio di merci, dall’eccedenza del tempo di lavoro – pluslavoro – rispetto a quello in media necessario alla riproduzione della forza-lavoro) non come critica del valore in sé e per sé ma per richiederne una sua ridistribuzione. In questa maniera si è arrivati a naturalizzare categorie in verità storiche, dunque cosificare il “capitale” da “rapporto sociale” quale esso è a semplice accumulo materiale di una eterna, generale e indefinita ricchezza di cui semplicemente appropriarsi e, per questa ragione, metterne in discussione solo il lato della “circolazione” lasciando la “produzione” alla corrosiva critica dei topi, scontrandosi contro l’apparenza di forme fenomeniche senza arrivare al nocciolo categoriale delle stesse, insomma confondendo irrimediabilmente “forma” e “contenuto”, “essenza” e “apparenza” delle categorie. Ma qual è il ruolo della categoria “lavoro” nel castello teorico marxiano? A questo proposito in Marx si erge un fitto velo di ambiguità in parte dettato dalla difficoltà terminologica della sua esposizione, in parte dalla novità spaesante del campo in cui si era addentrato, ricco di ostacoli da non sottovalutare e, infine, per una complessa generalità e universalità del discorso che ha portato il nostro di Treviri a cadere egli stesso rumorosamente e incoerentemente nell’utilizzo aspecifico della categoria “lavoro”. Cercheremo qui di farne un brevissimo riassunto. Nella famosa Introduzione pensata da Marx a Per la critica dell’economia politica, composta ma poi scartata e non pubblicata (vedrà luce solo coi manoscritti conosciuti come Grundrisse) egli scrive che «il lavoro sembra una categoria semplicissima» ma «compreso in questa semplicità dal punto di vista economico, il “lavoro” è una categoria moderna quanto i rapporti che creano questa semplice astrazione» [*19] e utilizzando proprio «questo esempio del lavoro» e pur affermando che determinate categorie siano valide «per tutte le epoche» esse – dunque anche lo stesso “lavoro” – sono parimenti «il prodotto di condizioni storiche e hanno piena validità soltanto per e all’interno di tali condizioni» [*20]. Per Marx il lavoro in sé e di per sé non esiste, nel terzo libro de Il Capitale lo definisce addirittura un «fantasma» nel senso che si tratta di una mera «astrazione» [*21]. Per capirlo dobbiamo accettare di muoverci seguendo la segnaletica del lungo sentiero del metodo marxiano non negandoci l’utilizzo di categorie tipiche della logica hegeliana [*22], quelle che il Maestro di Stoccarda chiamava “pure essenzialità”: per prima cosa ci troviamo di fronte come “universale”, o “generale” [allgemeines], non il “lavoro” ma, bensì, il processo lavorativo. Questo si è presentato mediato da forme “particolari” [besonderes], e quindi in molteplici “contenuti” che ne fanno “singolare” [einzelnes], a seconda di ogni formazione storica proprio perché tale processo può esistere esclusivamente come forma sociale determinata. Eppure Marx, in un primo momento, ci invita a considerarlo indipendentemente da quest’ultima [*23], conducendoci dunque lungo una salita a un determinato grado di astrazione in cui non abbiamo degli individui associati e la loro riproduzione storicamente determinata ma soltanto il lavoro in generale (il «processo» che secondo lui «media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso [nda. l’uomo] e la natura» [*24]) e l’uomo in generale (che proprio come per il “lavoro” anche l’“uomo” in astratto, astorico e “isolato” non esiste: esistono rapporti sociali e modi di produzione e gli animali umani si inseriscono in rapporto dialettico tra questi, comunque non prescindendo mai dalla propria insopprimibile base biologica, anch’essa però incastonata nei processi storici). Marx scrive che «i momenti semplici del processo lavorativo sono l’attività conforme a scopo, ossia il lavoro stesso, l’oggetto del lavoro e i mezzi del lavoro» [*25] e dalla modalità in cui questi elementi dialogheranno e si medieranno tra loro dipenderà il carattere specifico di ogni modo d’organizzazione sociale della produzione. Ma è opportuno ricordare che a questo livello non si può ancora parlare in questi termini perché nell’esposizione non esistono ancora gli individui al plurale ma «da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali» [*26]. A questo livello d’astrazione per Marx il lavoro in generale, dunque semplificato e universalizzato, come abbiamo già riportato, «è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana» [*27]. La caratteristica teleologica della finalità cui Marx fa cenno nelle prime battute, distinguerebbe l’attività umana da quella degli altri animali non-umani, espressa nei famosi esempi del ragno e del tessitore o dell’ape e dell’architetto [*28]. Ma è qui nostro interesse sottolineare come questo passo, non tenendo conto degli altissimi livelli d’astrazione dell’esposizione, porti subito a pensare a un fondamento ontologico in cui sia il “lavoro” in “generale” di per sé come l’“universale”, l’“immediato” senza “mediazioni”, a essere specificità insopprimibile dell’essere umano. Se da una parte è vero che Marx non è affatto estraneo a questo tipo di lettura, gli strumenti che ci ha lasciato per poter leggere il “lavoro” sono decisamente più ricchi e intricati, decisamente molto più di quanto, probabilmente, li pensasse lui stesso. A tal proposito può essere utile incontrare un passaggio de Il Capitale molto simile all’ultima citazione riportata ma decisamente più ambiguo, qui provare a rifletterci sopra riscendendo i livelli d’astrazione e infine proporci in un’operazione che si muova sì con Marx ma che, cestinandone il lato “essoterico” grazie agli strumenti teorici della corrente internazionale della “Critica del valore” [Wertkritik] [*29], ne vada decisamente al di là. Il barbuto di Treviri scrive che «il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini» [*30].
1) il valore d’uso, generalmente impiegato per designare l’utilità di una cosa che non «aleggia nell’aria» ma è «un portato delle qualità del corpo» [*31] materiale e sensibile della stessa è, a parere del sottoscritto, non eterno ma storicamente determinato, e questo è più o meno sottolineato anche da Marx quando afferma che «è opera della storia scoprire questi diversi lati [nda. qualità e quantità] e quindi i molteplici modi di usare delle cose» [*32]. Ma perché non è una categoria sovra-storica? Perché il valore d’uso prescinde dall’utilità in generale, prescinde dai prodotti in generale ed esiste solo ed esclusivamente con la “merce”, il luogo materiale in cui il concetto ben più ampio di “utilità”, ridotto a valore d’uso, è sottomesso in funzione dell’astrazione del valore, fungendo da suo contenitore materiale, dunque ha pienamente senso – nonostante l’apparente generalità del termine – soltanto nel e col modo di produzione capitalistico [*33];
2) il ricambio organico tra uomo e natura o metabolismo con la natura [Stoffwechsel mit der Natur], ugualmente, è sì “una necessità eterna”, è indubbio perché in quanto esseri naturali agiamo con e nella natura che siamo e abitiamo, ma non è mai una necessità estranea al contesto e al periodo e, dunque, anch’essa è mediata e incastonata nei processi storico-sociali, non immobile ma in movimento, non legge ma lotta in un compenetrarsi dialettico di cultura-natura, di società-natura, due campi che appaiono separati ma che in verità non sono e non possono essere puramente isolati;
3) il lavoro, al contrario di quanto ingenuamente scritto da Marx, non è la condizione d’esistenza dell’uomo ma è anzi un fenomeno storico mai indipendente da qualsiasi forma della società, e questo, in ragione di quanto spiegato poc’anzi, anche se si considera il lavoro come formatore generale di valori d’uso [*34]. Anzi, come puntualizzato nella “Critica del valore”, il “lavoro” è nello specifico una categoria moderna e capitalista e soltanto in questo tipo di società diventa il suo mondo sociale, la sua finalità, la sua unica sorgente di ricchezza, produzione e di necessità, il suo unico modello di organizzazione e mediazione della vita, il suo eterno sogno di una notte di mezza estate in cui, secondo il principio del feticismo della merce o carattere di feticcio della merce [Fetischcharakter der Ware], ogni prodotto è ridotto a merce e ogni attività, appiattita a lavoro, alla sua produzione sotto mentite spoglie di evidenza oggettiva e naturale, e così astoricamente nei secoli dei secoli, amen e gloria al padre eterno. Così quella che in Marx è una generalizzazione puramente metodologica, solo nel modo di produzione capitalistico diviene problematicamente reale. Ma in che modo?
Le articolazioni della duplice esistenza di “merce” e “lavoro”
Ebbene, presupponendo che finalmente abbiamo degli individui associati in un determinato modo di produzione in cui «la forma di merce» è «la forma generale del prodotto del lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci» è «il rapporto sociale dominante» [*35], vediamo in che modo le condizioni feticistiche del processo lavorativo capitalistico tra individui privati si dispieghino nel processo di valorizzazione, unico fine-in-sé di questo specifico modo di produzione sociale. Il cominciamento per comprendere il modo di produzione capitalistico, come abbiamo già visto, è per Marx la “merce” ovvero un prodotto per lo scambio. Al primo livello d’astrazione Marx inizia l’analisi dalla merce singola, per poi riscendere al concreto delle merci, al plurale, in quanto è solo nella relazione e nel rapporto tra merci che la merce in sé si manifesta; ovviamente non per questo condividendo quelle letture che pensano che tutte le categorie capitalistiche esistano solamente nella “circolazione”, nello “scambio”, dunque come a posteriori, dimenticando così che “merce”, “valore” e “denaro” sono già presupposti in una produzione basata sul “lavoro astratto” (categoria che ritroveremo meglio a breve) dunque come a priori. Il filosofo ungherese Lukács aveva brillantemente indicato che «il problema della merce non appare soltanto come problema particolare e neppure semplicemente come problema centrale dell’economia intesa come scienza particolare, ma come problema strutturale centrale della società capitalistica in tutte le sue manifestazioni di vita» [*36], dunque, seguendone l’intuizione, possiamo constatare come questo “problema strutturale”, o meglio questa “contraddizione interna” o “immanente”, dalla “merce” si dispiega in tutta la società basata sulla sua produzione. Le merci, infatti, sono sia valore d’uso, oggetti con proprietà utili e quindi qualitativamente distinte tra loro, e sia valore, la sostanza che permette loro di essere scambiate e che le rende tutte uguali e comuni (da non confondere col “valore di scambio” che è invece la “forma di valore”, ovvero la forma fenomenica del “valore”) [*37]. Questo doppio carattere, non a caso, porta anche il lavoro che le produce a una duplice esistenza, presentandosi infatti attraverso un lato concreto, ovvero qualitativamente specifico e distinto (es. la differenza pratica e materiale che intercorre tra l’agricoltura, la muratura, la falegnameria o la sartoria, le loro mansioni e i loro prodotti), e un lato astratto, ovvero generico e indistinto in quanto mero produttore di valore, “lavoro astrattamente umano” come dispendio quantitativo e indifferenziato di energia o meglio ancora, per scriverlo direttamente con le parole di Marx, «come coagulo di lavoro umano indifferenziato. Infatti il lavoro che lo costituisce è presentato ora espressamente come lavoro che equivale ad ogni altro lavoro umano» [*38], «la riduzione di tutti i lavori effettivi al carattere a tutti comune di lavoro umano» [*39], «lavoro umano in astratto […] una semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio» [*40], nient’altro che «dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani, ecc.» [*41] in astratto e che per la prima volta nella storia umana si trasforma in categoria economica, in principale “relazione di produzione” (Kurz), in pilastro centrale e vitale della sintesi sociale capitalistica basata esclusivamente sull’irrazionale indifferenza rispetto al contenuto materiale della produzione se non come passaggio necessario alla “valorizzazione del valore”; «lavoro astratto, poiché si fa astrazione dal carattere determinato, utile, concreto del lavoro in esso contenuto; lavoro umano, poiché il lavoro conta qui solo come dispendio di forza-lavoro umana in generale» [*42]. Con Kurz possiamo dunque compendiare il “lavoro astratto” come un dispiegarsi dialettico sul piano del fisiologico, del sociale e dello storicamente determinato; persi questi tre livelli si cade in letture monche della categoria [*43]. Tutte quelle correnti che guardano di buon occhio al “valore d’uso” e al lato “concreto” del lavoro dimenticano che il primo, come abbiamo già visto, esiste assieme al “valore” e il secondo assieme al lato “astratto”; merce e lavoro sono il proprio duplice carattere e non possono esserne separate: una merce non può non essere in un qualche modo oggetto d’utilità, che sia di pancia oppure di fantasia, o nessuno la comprerebbe, e il lavoro nel modo di produzione capitalistico non è “concreto” e “astratto” in momenti differenti, è immediatamente sia l’uno che l’altro. L’utilità è dunque capitalisticamente una determinazione necessaria della merce così come l’astrazione lo è per il lavoro. Riallacciandoci alla “Critica del valore”, possiamo qui osare ulteriormente: il lato “concreto” del lavoro prescinde dall’attività in generale in quanto ha senso d’esistere, in modo categoriale, soltanto nel modo di produzione capitalistico dove funge da appropriazione materiale del lato “astratto” del lavoro, da “forma apparente” (Kurz) del “lavoro astratto” e da momento sensibile sussunto feticisticamente nella sovrasensibile inversione tra concreto/astratto. Anche dotati della DeLorean del film di Zemeckis e con questa gettati verso un passato precapitalistico o antico, se parlassimo della universalità del “valore d’uso” e del “lavoro concreto” di fronte a un servo della gleba, a un feudatario, a un signore, a uno schiavo greco o a un soldato della guardia imperiale di Persia, questi si gratterebbero la testa perplessi (per dirla alla Kurz). Ma, senza bisogno di certe fantasie e permettendomi di portare degli esempi personali, per potare un melograno, piantare qualche patata, dell’aglio, trapiantare del basilico, nel fare delle conserve di salsa di pomodoro o delle olive in salamoia, non ho mai avuto bisogno di parlare in termini di “valore d’uso” e “lavoro concreto” – a differenza di chi crede che certe attività di “consumo diretto” rientrino in queste sfere –, se invece le stesse produzioni dovessero guardare al fine della “forma-merce” le due categorie diverrebbero imprescindibili come portatrici materiali del processo tautologico e feticistico della “valorizzazione”.
E se il problema fosse proprio il “lavoro”?
Giunti al nocciolo del discorso si è dunque colta la non-neutralità della categoria: è proprio la definizione di “lavoro” ad appiattire feticisticamente a sé ogni attività umana – decretando cosa sia produttivo e cosa no – e non soltanto il suo semplice lato “astratto”. Quest’ultimo è l’ulteriore astrazione di una cosa che è già astrazione e, come ci ricorda Jappe, il lato “concreto” del lavoro «è esso stesso un’astrazione, perché vi si separa, nello spazio e nel tempo, una certa forma di attività dal campo intero delle attività umane» [*44], così come per Robert Kurz «la denominazione di “lavoro astratto” rappresenta un pleonasmo logico», questo perché «l’attributo è già contenuto nel concetto stesso» infatti il «“lavoro” è immediatamente un’astrazione», allo stesso tempo «la denominazione di “lavoro concreto” rappresenta una contradictio in adjecto» perché «l’attributo è questa volta in contraddizione con il concetto», non a caso, «in quanto astrazione» che «compresa concettualmente potrebbe vedere la luce solo dove regna un’astrazione sociale reale» (precisazione, questa dell’“astrazione reale” [*45], da tenere sempre a mente in quanto fa capire come Kurz non cade nell’errore di confondere i “gradi” o “livelli d’astrazione” dell’esposizione dialettica marxiana, cioè tra lavoro in generale e lavoro astrattamente umano), quello che noi definiamo «“lavoro” in sé non può essere concreto» [*46]. La categoria di “lavoro” così come tradizionalmente intesa, nella propria digressione etimologica ha affrontato storicamente varie fasi molto differenti tra loro, dal designare una “fatica”, una “pena”, una “sofferenza”, sino all’attuale status di “diritto” che ne fa una categoria essenzialista. Certo, come già notato da alcuni autori della “Critica del valore” il punto non è certo discorsivo o dialogico e per quanto esistano definizioni probabilmente più idonee, razionali o neutre per racchiudere la naturalità organica dell’agire umano (come, per esempio, “attività” o, ironicamente, persino “oggettivazione” se seguiamo alla superficie l’illuminata, seppur a tratti severa e ingiusta, autocritica del giovane Lukács [*47]), nessuna messa in discussione radicale e seria può pensare che questo possa essere sufficiente senza passare per una “concretizzazione reale” [*48]. Presupponendo che il carattere di feticcio della merce sia l’inversione delle relazioni tra persone rovesciate in rapporti tra cose [Sachen] dunque il capovolgimento in esse del proprio rapporto sociale interpretato come proprietà fisica del prodotto [*49] – la celebre teoria della “reificazione” [Versachlichung] – il “lavoro” in sé e per sé come “sostanza del capitale” (Kurz) è, col “denaro” (quest’ultimo il “luogo”, assieme alla “merce”, in cui si manifesta il “valore” nell’immediata forma del ciclo infinito e tautologico M-D-M-D-M-D che diviene D-M-D’…) uno dei massimi gradi di questo specifico rapporto sociale fra cose che, nell’inversione feticistica del soggetto-oggetto, appare ai più come astoricamente oggettivo e naturale nel movimento in cui gli animali umani che vi partecipano «non sanno di far ciò ma lo fanno» [*50]. Insomma, rompere l’inversione significa comprendere che il “modo di produzione capitalistico” è innanzitutto una forma storicamente specifica e particolare degli esseri umani associati che, riconoscendosi individualmente e privatamente “autonomi” e “indipendenti”, “liberi” e “uguali”, producono e riproducono la propria vita, da “persone” isolate e private, nei nessi immediatamente sociali [*51], l’epoca in cui qualsiasi contenuto materiale di questa produzione/riproduzione è generalizzata nell’astratta “forma-merce”, dunque indifferente allo “scopo” dell’utilità diretta se non come incidente di percorso necessario al fine della realizzazione della “valorizzazione del valore” in profitto, in denaro e sempre più denaro; la “merce” è una forma altrettanto storica, specifica e particolare del prodotto del “lavoro” pensato esclusivamente per lo scambio; il “lavoro” è lo stesso una forma particolare e storicamente collocata dell’attività degli esseri umani associati, quella in cui questi producono “merci” agendo dunque solo per esse e il loro fine in sé, e così il cerchio si chiude, ovviamente hegelianamente a spirale – nessun “eterno ritorno” in senso irrazionalistico e nietzschiano. Se la carrellata terminologica marxiana può stordire tra – solo per citarne alcuni – “lavoro in generale”, “processo lavorativo”, “lavoro utile”, “lavoro produttivo”, “lavoro concreto”, “lavoro astrattamente umano”, “forza-lavoro”, “lavoro vivo”, “lavoro morto” e così via, ubriacandoci nel labirinto dei livelli d’astrazione dell’esposizione logico-dialettica, per ciò che vogliamo qui auspicare si può forse concludere con una citazione tratta da L’Ideologia tedesca (testo che pur deve essere letto con le pinze, ovvero non come opera organicamente vera e propria) [*52] da cui leggiamo: «il lavoro “è” libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo» [*53].
La “critica categoriale” sfugge dalle mani dei “criticoni” adialettici
L’importanza della “critica categoriale” del lavoro appare imprescindibile una volta colta la centralità della “forma-valore” e, quindi, della “forma-merce” nel modo di produzione capitalistico. È questa “forma” il fulcro del dispiegamento contradditorio della sua “astrazione reale”. Parlare in questi termini tuttavia non ci pone di fronte all’eterna scissione tra una “struttura” come base materiale (in cui regnerebbe la “forma-merce”) e una “sovrastruttura” come base ideale (in cui regnerebbe la “forma-valore”). Appiattire tutta l’analisi a una distinzione tra struttura/sovrastruttura (binomio che in tutta l’opera di Marx compare una sola volta), come succede per esempio nei subaltern studies, postcolonial studies o in tutti gli “studies” e le “theory” dei “criticoni” di derivazione post-strutturalista e postmoderna, è metodologicamente problematico: sia che se ne faccia una rappresentazione rigidamente distinta e gerarchizzata (con la prima che determina la seconda o viceversa, come nei classici schemi del “materialismo storico” e del “materialismo dialettico” – termini inesistenti negli scritti di Marx) e sia che si facciano dialogare le due componenti (che sia come “azione reciproca” o “blocco storico”) ciò che si ha non è mai una dialettica che di fronte a una “totalità” (concetto che queste letture negano o, alla peggio, accolgono decapitandolo) si dispiega e procede per contraddizioni intrinseche, ma una dialettica nominale meccanicizzata (o peggio una gnoseologia storicizzata) in nessi nettamente duali, in un aprioristico distinguo fortemente limitante tra fattori “materiali” – derivati da “leggi” date a “strutture” oggettive – e “ideali” – derivati da interessi e bisogni soggettivi, di classe, d’identità, di subalternità ecc. descritti in sociologismi spiccioli, empirismi, dubbi culturalismi, simbolismi, paradigmi, archetipi, idealtipi isolati e universalizzati a cui si appiccicano irrazionalmente immobili contraddizioni dall’esterno [*54]. I “criticoni”, giunti alla battaglia contro i “dispositivi” – loro nemici giurati, nella cui lettura originaria non hanno né inizio né fine [*55] – gli si oppongono con un’eterna baruffa letteraria epistemica. Così la lotta “discorsiva” diviene l’unico fine. Non a caso questo tipo di letture si sdialettizzano molto rapidamente, vivendo vampirescamente la vanità per la propria multidisciplinarità accademica come la “notte in cui tutte le vacche sono nere” (Hegel) e, lungo il corteo del “carnevale permanente dell’interiorità feticizzata” (Lukács), abbracciano il “decostruzionismo” di Derrida, il “rizoma” di Deleuze e Guattari, l’“archeologia” di Foucault [*56], la “genealogia” di Nietzsche, l’“ermeneutica” di Heidegger o il “materialismo aleatorio” di Althusser. Sfugge, come sabbia tra le dita, la “totalità-totalitaria” della “forma-valore” per cui le sfere dell’economia e della politica sono in rapporto di reciprocità dialettica: così la “ragione economica” altro non è che l’autoreferenziale processo della “valorizzazione del valore” e la “ragione politica” concerne la logica di funzionamento, di gestione e le condizioni generali in cui si svolge e avviluppa lo stesso processo (anche nella forma di “dissociazione” tipica del “patriarcato produttore di merci” così come descritta da Roswitha Scholz nello sviluppo della “Critica del valore” in Wertabspaltungkritik [*57] e che approfondiremo in altra sede); questo, per poter essere messo radicalmente in discussione, deve passare per la critica della sua stessa “sostanza”: il “lavoro”.
Dialettica della necessità
Avviandoci alle conclusioni è giusto precisare un’ultima cosa. Tra le splendide pagine dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche a un certo punto Hegel segue gli intrecci, le relazioni, i processi e l’esporsi dell’automovimento per negazione del “concetto”: stiamo parlando del “metodo dialettico”, un “circolo dei circoli” scandito, per ragioni espositive, in tre momenti – il positivo: l’immediato, l’universale o generale; il negativo: il mediato, il particolare; l’unità di positivo e negativo: la mediazione del mediato, l’individualità o il singolare come esprimersi dell’unità della contraddizione e compresenza dei contrari [*58] – ma, ignorando la questione speculativa, questi momenti sono in verità un unico, singolo e solo momento, non si dispiegano frammentariamente, sono cioè simultanei tra loro perché nel primo è contenuto il secondo e nel secondo il terzo, e quest’ultimo, pur nella riconciliazione, non rappresenta una quiete chiusura: in Hegel la famigerata “fine della Storia” non esiste (il sistema hegeliano non è statico e conchiuso, lo “Spirito” non si ferma e l’automovimento del “concetto”, anche allineato nel “Sapere assoluto”, non ha conclusione), se non nei manuali scolastici e accademici assieme alle altre falsità sul Maestro come fautore dello Stato prussiano [*59] o del suo metodo come “tesi-antitesi-sintesi” [*60]. Chiusa la parentesi su questo preludio da inguaribile hegeliano [*61], vorrei porre l’accento a proposito dell’ultimo momento citato – a prescindere che lo si conti come terzo, quarto o come unico – perché qui, una volta giunto al trapasso dalla “logica dell’essenza” alla “logica del concetto”, Hegel riconosce nella «libertà» la «verità della necessità» [*62]. Le due cose sono quindi strettamente un tutto, un’unità; “necessità” e “libertà” non sono estranee, sono invece dialetticamente legate, si riconoscono l’un l’altra e viceversa. Ciò rimanda bruscamente a uno dei cavalli di battaglia di Engels (che certo, seppur in misura molto minore, bisogna ammettere che esiste anche in Marx [*63]) ovvero quello del passaggio emancipatorio dal regno della necessità al regno della libertà, come fossero momenti duali che si escludono vicendevolmente. Comprendere invece quella che hegelianamente è l’unità dei due “regni” non può che porre qualche punto interrogativo sulla “necessità” di un modo di produzione come quello capitalistico che prescinde da qualsiasi utilità diretta o contenuto materiale se non come portatore irrazionalistico di valore da accrescere tautologicamente e il cui movimento diviene una “forza cieca” (Marx) autodistruttiva, così come dimostrano la gravità irreversibile del collasso ambientale e la crisi ecologica [*64]. A questo punto ogni rivendicazione dovrebbe porsi lontano dagli anacronismi feticistici della “forma-valore” e della “forma-merce” che da “astrazioni” divorano ogni aspetto “concreto”, “reale” e ogni sfera differenziata – da esse stesse costituite – della moderna vita quotidiana prendendovi il posto di “soggetti automatici”. Non è semplice afferrare completamente i livelli d’astrazione, da lì scendere verso un concreto in cui ridisegnare razionalmente quel metabolismo con la natura e ripensare le pratiche del ricambio organico (questione che, giorno dopo giorno, diviene sempre più urgente quanto centrale), soprattutto tenendo conto di quella necessità alla “sopravvivenza aumentata” (Debord) che letteralmente ci costringe a passare per il lavoro e il dispendio di forza-lavoro per sopravvivere, per esistere e resistere (per cui anche certe “lotte” e “rivendicazioni immediate” hanno pur sempre la propria importanza e dignità), e certo, nessuno qui, in uno scritto che è tutto fuorché programmatico, ha la pretesa di immaginare una pratica alternativa che caschi dritta dal cielo, ma è così elettrizzante pensare che, finalmente e per la prima volta, il lavoro in sé, la sostanza del capitale, non sarà più un fine così desiderabile e, anzi, il suo superamento sarà una necessità.
- Afshin Kaveh - Pubblicato il 7/10/2023 su L'Anatra di Vaucanson -
NOTE:
[*1] - R. Rosdolsky, «Der esoterische und der exoterische Marx», Arbeit und Wirtschaft, Vol. 11, n. 11, novembre 1957, p. 348.
[*2] - Chi scrive non nasconde di avere un interesse che ricade aprioristicamente sempre e solo verso la filosofia; a tal proposito, la distinzione citata in corpo al testo, riconducibile alla famosa “rottura epistemologica” althusseriana, è una di quelle gravi problematiche adialettiche e afilologiche da cui ci si dovrebbe liberare e per cui il detto “gettare via il bambino con l’acqua sporca” diviene totalmente positivo: buttare nella pattumiera questa teoria e il suo teorico vere dignum et iustum est!
[*3] - Cfr. R. Kurz, «Il duplice Marx», in: https://www.exit-online.org/druck.php?tabelle=transnationales&posnr=119
[*4] - Questo tipo di denuncia così posta è talmente superficiale che non ci aiuta a dare una definizione puntuale del “capitalismo” dal momento che tutte le società storiche organizzate sotto la civilizzazione – che si faccia riferimento all’Antica Grecia, ai Romani, ai Persiani, all’Impero cinese, a quello che Marx definiva “modo di produzione asiatico”, ai sistemi schiavistici, a quelli feudali, al signoraggio, al paese dei Balocchi e chi più ne ha più ne metta – sono state caratterizzate da una organizzazione stratificata e gerarchizzata e da ineguali possibilità nell’accesso alle risorse… con la sola eccezione del paese della Cuccagna.
[*5] - K. Marx – F. Engels, Carteggio, Volume III (1857-1860), Editori Riuniti, Roma 1972, p. 155.
[*6] - K. Marx, Il Capitale, Libro primo, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 44-45.
[*7] - Ivi, p. 44. Marx precisa subito dopo che il suo metodo è direttamente l’opposto di quello di Hegel, che secondo lui faceva dell’Idea il punto di partenza come demiurgo della realtà, mentre per Marx il processo materiale è il punto di partenza reale che si traduce poi nel pensiero. In questa sede non ci interessa minimamente valutare quanto sia veritiera o meno questa critica marxiana al sistema hegeliano.
[*8] - «La critica dell’economia, anche dopo che era stato acquisito il metodo, poteva ancora essere intrapresa in due modi: storicamente o logicamente. Poiché nella storia, come nel suo riflesso letterario, l’evoluzione va pure, in sostanza, dai rapporti più semplici ai rapporti più complicati, lo sviluppo storico-letterario dell’economia politica offriva un filo conduttore naturale a cui la critica poteva aggrapparsi, e in sostanza le categorie economiche sarebbero apparse anche in questo caso nello stesso ordine che nello sviluppo logico. Questa forma offre il vantaggio apparente di una maggior chiarezza, poiché viene seguita la evoluzione reale, ma in realtà essa si ridurrebbe tutt’al più a una esposizione più popolare. La storia procede spesso a salti e a zigzag, e si sarebbe dovuto tenerle dietro dappertutto, il che avrebbe obbligato non solo a inserire molto materiale di poca importanza, ma anche a interrompere spesso il corso delle idee. Inoltre non si può scrivere la storia dell’economia senza quella della società borghese, e il lavoro non sarebbe mai arrivato alla fine perché mancano tutti i lavori preparatori. Il modo logico di trattare la questione era dunque il solo adatto. Questo non è però altro che il modo storico, unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali perturbatori. Nel modo come incomincia la storia, cosi deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà altro che il riflesso, in forma astratta e teoricamente conseguente, del corso della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo leggi che il corso stesso della storia fornisce, poiché ogni momento può essere considerato nel punto del suo sviluppo in cui ha raggiunto la sua piena maturità, la sua classicità»; in: F. Engels, Per la critica dell’economia politica (Recensione), in: K. Marx, K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzamonti, Newton Compton, Roma 1979, p. 208.
[*9] - K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 3. Per comprendere il metodo espositivo è interessante riportare la citazione di Marx per intero: «Avevo buttato giù un’introduzione generale, ma poi, dopo matura riflessione, l’ho eliminata: mi sembrava infatti che l’anticipare delle soluzioni che dovevano ancora essere dimostrate poteva costituire un elemento di disturbo per il lettore, il quale, se è bene intenzionato a seguirmi, deve decidersi a procedere dal particolare al generale»; questa scelta, per chi ha confidenza con l’opera hegeliana, riporta subito alla mente questo passaggio: «Innanzitutto, la filosofia – anche per il fatto di muoversi essenzialmente nell’elemento di quell’universalità che include in sé il particolare – dà l’impressione, in misura maggiore che le altre scienze, di esprimere nel proprio fine o nei propri risultati ultimi la Cosa stessa nella sua essenza compiuta; e, rispetto a tale essenza, l’attuazione e l’esposizione anteriori avrebbero un carattere propriamente inessenziale»; in: G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006, p. 49.
[*10] - K. Marx, Il Capitale, cit., p. 44.
[*11] - R. Fineschi, Marx e Hegel, cit., p. 9. Ringrazio di cuore Sergio Crescenzi per avermi indirizzato alla lettura di questo autore. Si rimanda anche a: R. Fineschi, Marx, Scholé/Morcelliana, Brescia 2021; R. Fineschi, La logica del capitale, Istituto Italiano per gli studi filosofici Press, Napoli 2021.
[*12] - K. Marx, Il Capitale, cit., p. 67.
[*13] - Ivi, p. 99.
[*14] - Ivi, p. 187.
[*15] - Ivi, p. 185.
[*16] - Ivi, pp. 117-118.
[*17] - L’“incubo freddo” (Debord) strutturalista e post-strutturalista ha poi condotto Louis Althusser e Toni Negri a iniziare la loro lettura adialettica direttamente dal “denaro” trasformato in “capitale” poiché più facilmente politicizzabile nell’ottica di “classe”. Che avventura tragicomica! Il detto recita “chi sbaglia strada torni addietro”; in questo caso è meglio lasciar andare loro e i rispettivi apologeti per la propria strada. Il primo, Monsieur lo scienziato anti-Hegel, all’inizio della sua arlecchinesca “Prefazione” alla maggiore opera di Marx, lanciava una «recommandation impérative» a lettrici e lettori: saltare e mettere tra parentesi la prima sezione «Merce e denaro» perché difficile e ostacolo alla lettura del libro, passando direttamente alla seconda sezione, «La trasformazione del denaro in capitale»… davvero da strangolare (sic!); il secondo, dagli scritti del periodo dell’autonomia sino a Impero, Moltitudine e oltre, rivendica continuamente concetti problematici come “autovalorizzazione”, dimenticandosi così, nella sua “ontologia del valore” da una parte e nel meta-mito eternalista dell’operaio di fabbrica ontologicamente rebel dall’altra, che è il capitale ad autovalorizzarsi. Incappa poi in pietosi scivoloni come il suo parlare kantianamente della “forza-lavoro” come “l’unico trascendentale concreto” in quanto elemento ineliminabile dell’uomo, dimenticando che la “forza-lavoro”, essendo una “merce”, è storicamente determinata o meglio è la forma che questa capacità assume nel modo di produzione capitalistico; infine, molto peggio, confonde, da ormai più di un trentennio, il concetto marxiano di “lavoro astratto” (il lato del lavoro che costituisce la “sostanza” e la “grandezza” del valore, in quanto quest’ultima è il risultato del tempo di lavoro astratto socialmente necessario in media) con quello di “lavoro immateriale”, categorie che vede addirittura come “soggetto rivoluzionario” contro il capitale. Non è difficile credere che stia ancora aspettando che il comunismo nasca da internet e dai computer… ma troppo tempo davanti a uno schermo fa arrossare gli occhi.
[*18] - K. Marx, Il Capitale, cit., p. 828.
[*19] - K. Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, tr. it. di G. Backhaus, Pgreco, Milano 2012, p. 28. Si veda sopra, la nota 9.
[*20] - Ivi, p. 30.
[*21] - «Un semplice fantasma “il” lavoro che non è altro che una astrazione e che, in generale non esiste di per sé», in: K. Marx, Il Capitale, Libro terzo, tr. it. di M.L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 928.
[*22] - Ovviamente tenendo presente che è scorretto pensare che Marx si sia limitato a utilizzare la Logica hegeliana come insieme manualistico di categorie pronte e confezionate facendole piombare dall’esterno, rischiando così di immobilizzare la “dialettica” del proprio automovimento. Così facendo si attribuirebbe a Marx lo stesso strafalcione che a suo tempo rimproverava a Lassalle: «Da questa sola osservazione vedo che il tipo ha l’intenzione di esporre l’economia politica alla Hegel in un suo secondo grande opus. Imparerà a sue spese che ben altra cosa è arrivare a portare per mezzo della critica una scienza al punto da poterla esporre dialetticamente, e altra applicare un sistema di logica astratto e bell’e pronto a presentimenti per lo appunto di un tale sistema»; in: K. Marx – F. Engels, Carteggio, cit., p. 166.
[*23] - «[…] il processo lavorativo deve essere considerato, in un primo momento, indipendentemente da ogni forma sociale determinata», in: K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., p. 211.
[*24] - Ivi, p. 212.
[*25] - Ibidem
[*26] - Ivi, p. 218.
[*27] - Ibidem
[*28] - «Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà»; in: Ivi, p. 212.
[*29] - Per approfondire la corrente internazionale della “Critica del valore” [Wertkritik] nata in Germania alla fine degli anni ’80 del Novecento e sviluppata tra le pagine delle riviste Krisis ed Exit!, si rimanda ai libri che più hanno influenzato questo articolo: A. Jappe, Le avventure della merce, tr. it. di R. Frola, Mimesis, Milano-Udine 2022; R. Kurz, Die Substanz des Kapitals (tr. fr. La substance du capital, L’échappée, Paris 2019). Si rimanda anche a: M. Postone, Time, Labor and Social Domination, Cambridge University Press, New York 2006; nonostante abbia più volte richiamato alla storicità del modo di produzione capitalistico (che nulla ha a che vedere col problematico “storicismo” crociano o gramsciano!) in questo contributo, come già accennato in corpo al testo, non sarà affrontata l’idea della “crisi” che si dà nel lunghissimo periodo secondo la teoria della “Critica del valore” la quale, basandosi sui testi marxiani, vede nel modo di produzione capitalistico un limite interno irreversibile: da una parte esso dipende dalla “valorizzazione” come movimento tautologico la cui “sostanza” è il lavoro mentre dall’altra, nella rincorsa all’automazione per incrementare i processi produttivi, avviene l’esclusione e l’espulsione tecnica dello stesso lavoro vivo, la cui diminuzione comporta la caduta della massa del “plusvalore sociale”, una stagnazione della “valorizzazione del valore” compensata dalla moltiplicazione autoreferenziale del “credito” e del “capitale fittizio” e la creazione crescente di masse di “superflui”. A riguardo si veda: R. Kurz, Il collasso della modernizzazione, tr. it. di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine 2017; R. Kurz, Il capitale mondo, tr. it. di S. Cerea, Meltemi, Milano 2022; Crise, champagne et bain de sang, Jaggernaut, n. 2, Crise&Critique, Albi été 2020; A. Jappe, S. Aumercier, C. Homs, G. Zacarias, Capitalismo in quarantena, tr. it. di A. Kaveh et al., ombre corte, Verona 2021.
[*30] - K. Marx, Il Capitale, cit., p. 75.
[*31] - Ivi, p. 68.
[*32] - Ivi, p. 67.
[*33] - «Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali del – valore di scambio», in: Ivi, p. 68.
[*34] - Questa radicale storicizzazione allargata delle categorie citate sinora tiene sempre conto del rapporto dialettico di continuità/discontinuità tra diverse epoche storiche, ma abbraccia in ultima istanza la tesi kurziana dell’ingresso nel modo di produzione capitalistico come ontologizzazione “scritta a tratti di sangue e di fuoco” (Marx) e non hegelianamente come una tappa e un approdo necessario.
[*35] - K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., p. 92.
[*36] - G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. di G. Piana, Sugarco, Milano 1974, p. 107.
[*37] - Precisazione certamente pignola ma dovuta, dal momento che Marx si distaccava profondamente dall’economia classica di Smith e Ricardo, oltre che attraverso la doppia natura del lavoro nei suoi lati “astratto” e “concreto”, anche per l’idea della “forma di valore”: «Uno dei difetti principali dell’economia politica classica è che non le è mai riuscito di scoprire, partendo dall’analisi della merce, e più specificamente del valore della merce, quella forma del valore che ne fa, appunto, un valore di scambio […]. La forma di valore del prodotto di lavoro è la forma più astratta, ma anche la più generale del modo borghese di produzione, ed essa per ciò viene caratterizzata come forma particolare di produzione sociale, e così viene insieme caratterizzata storicamente. Quindi ritenendola erroneamente la eterna forma naturale della produzione sociale, si trascura necessariamente anche ciò che è l’elemento specifico della forma di valore, quindi della forma di merce e, negli ulteriori sviluppi, della forma di denaro, della forma di capitale, ecc.»; in: K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., pp. 112-113.
[*38] - Ivi, p. 95.
[*39] - Ivi, p. 99.
[*40] - Ivi, p. 70; la parola tedesca utilizzata da Marx e che Cantimori traduce in “concrezione”, era in verità Gallerte, meglio traducibile come “gelatina”.
[*41] - Ivi, p. 76.
[*42] - K. Marx, «La forma di valore», in Id., L’analisi della forma di valore, tr. it. di C. Pennavaja, Laterza, Bari 1976, pp. 69-70; si tratta dell’Appendice alla prima edizione tedesca de Il Capitale del 1867 pensata da Marx, dopo i consigli di Engels e Kugelmann, per “popolarizzare” e semplificare le trattazioni del primo capitolo sul “valore” per i lettori “non dialettici”.
[*43] - Nel corso della “battaglia del tempo” (Debord) sono tantissimi i pensatori che, di fronte alla categoria del “lavoro astratto”, sono caduti goffamente sul campo della guerra speculativa: tra chi l’ha confusa con il “lavoro immateriale”, chi col “lavoro intellettuale”, chi col “lavoro non specializzato” o “non qualificato”, chi col “lavoro in generale” in quanto, leggendo superficialmente il “dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani” come tipico di qualsiasi attività umana, ha ceduto al “lavoro astratto” un senso naturalista. C’è anche chi, fermandosi fedelmente alla primissima esposizione marxiana dell’astrazione del lavoro tra le pagine dei Grundrisse si è perso in una “selva oscura”: «La misura comune dell’attività umana, il lavoro astratto, è ciò che Marx contrappone all’idea di lavoro concreto o reale (cioè ogni specifica forma di lavoro). In sintesi, il “lavoro astratto” si riferisce all’“indifferenza per ogni specifico tipo di lavoro”. In sé, esso non tende al capitalismo. Una società “barbarica” – come dice Marx – può essere caratterizzata da una divisione del lavoro abbastanza sviluppata da far sì che i suoi membri abbiano “disposizione [naturale] a essere utilizzati per tutto” […]. Secondo l’argomentazione di Marx, era del tutto concepibile che in una società del genere il lavoro astratto fosse presente anche se i suoi membri non erano in grado di coglierlo teoricamente. La teorizzazione diventava possibile soltanto con il modo di produzione capitalistico, entro il quale l’attività stessa dell’astrazione diventava la caratteristica più comune della maggior parte dei lavori»; in: D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, tr. it. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004, pp. 78-79. Per il nostro eroico “studioso dei subalterni” il “lavoro astratto” non è tipico del modo di produzione capitalistico ma è anzi sempre esistito – confondendolo con la divisione sociale del lavoro (!) – tuttavia è visibile soltanto nel “capitalismo” perché qui vi sarebbe «l’individuo astratto – il portatore dei diritti, per esempio – reso celebre dai filosofi dell’Illuminismo» (Ibidem) e “l’indifferenza verso il lavoro specifico” sarebbe generalizzata a tutti quanti i lavori particolari. Il “lavoro astratto” viene dunque ontologizzato e letto non come indifferenza al contenuto materiale del suo dispiego ma come la possibilità per ogni singolo individuo di svolgere in società più di una mansione: «I “barbari” di Marx avevano il lavoro astratto: ogni membro della società poteva impegnarsi in ogni attività» (p. 80). Al nome di “Chakrabarty” si risponda dunque “Presente!”, perché tra tutti i caduti abbiamo il più clownesco dei decorati.
[*44] - A. Jappe, Le avventure della merce, cit., p. 104.
[*45] - «L’universalità della forma di merce determina quindi un’astrazione del lavoro umano che si oggettualizza nelle merci, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo. (D’altro lato la sua possibilità storica è a sua volta determinata dalla reale effettuazione di questo processo di astrazione). […] quest’uguaglianza formale del lavoro umano astratto non è soltanto il comune denominatore a cui vengono ridotti i diversi oggetti nel rapporto di merci, ma si trasforma in principio reale dell’effettivo processo di produzione delle merci»; in: G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 113.
[*46] - R. Kurz, La substance du capital, cit., p. 50 (traduzione mia).
[*47] - Nell’autocritica in apertura dell’edizione del 1967 di Storia e coscienza di classe, rispetto al proprio errore per aver posto sullo stesso piano “alienazione” e “oggettivazione” leggiamo che quest’ultima, a differenza della prima, «è effettivamente un modo insuperabile di estrinsecazione nella vita sociale degli uomini», in: G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. XXV. Per onestà intellettuale è comunque giusto sottolineare che Lukács ha sempre inserito erroneamente e imperdonabilmente il “lavoro” tra le “oggettivazioni”: «Senza oggettivazioni la vita dell’uomo, il suo pensare e sentire, la sua prassi e la sua riflessione sono del tutto inconcepibili. A prescindere dal fatto che tutte le oggettivazioni in senso stretto del termine hanno una parte importante nella vita quotidiana degli uomini, anche le forme fondamentali della vita specificamente umana, il lavoro e il linguaggio, sotto molti punti di vista hanno già, in sostanza, il carattere di oggettivazioni», in: G. Lukács, Estetica, vol. I, tr. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, p. 5.
[*48] - «Naturalmente, la critica categoriale del lavoro non può consistere nella sostituzione del concetto astratto di lavoro con un’altra astrazione etimologicamente neutra come “attività”. Si tratta piuttosto del reale superamento dell’economia “svincolata”»; in: R. Kurz, N. Trenkle, Il superamento del lavoro, in: Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, tr. it. di G. Rossi, A. Jappe e S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 118.
[*49] - «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori», in: K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., p. 104.
[*50] - Ivi, p. 106.
[*51] - Curioso che uno dei presupposti del modo di produzione capitalistico, quello di individui che di fronte alla compravendita di forza-lavoro e di fronte alla merce si riconoscono formalmente come “liberi” e “uguali”, sia diventato invece una delle principali rivendicazioni nelle agende della sinistra, sia essa di movimento che di partito. Che poi, nello stato attuale delle cose, questa “libertà” e “uguaglianza” non sia affatto data concretamente non ha nessuna importanza, perché se non ci fosse questo presupposto non parleremo di modo di produzione capitalistico ma di schiavismo, feudalesimo, signoraggio o altri e diversi rapporti sociali precapitalistici.
[*52] - Per approfondire si rimanda all’articolo: R. Fineschi, «L’ideologia tedesca dopo la nuova edizione storico-critica», Historia Magistra, n. 30, 2019, pp. 89-104.
[*53] - K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 187.
[*54] - «Un’unica forma immobile adattata dal soggetto conoscente ai dati disponibili, il materiale immerso dall’esterno in questo elemento statico: tutto ciò, congiunto ad arbitrarie fantasie sul contenuto, è molto lontano dal compimento di ciò che si richiede nella conoscenza scientifica, molto lontano cioè dalla ricchezza che scaturisce da se stessa e dalla differenza autodeterminantesi delle figure. Si tratta piuttosto di un formalismo monocromatico che perviene alla differenza del contenuto solo perché essa è già nota e disponibile»; in: G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 65.
[*55] - «Il punto di vista da cui si pone il pensiero anti-storico dello strutturalismo è quello dell’eterna presenza di un sistema che non è mai stato creato e che mai finirà»; in: G. Debord, La società dello spettacolo, tr. it. di P. Salvadori, Baldini&Castoldi, Milano 2015, § 201, p. 171.
[*56] - Di cui per lo meno, e per grazia ricevuta, nonostante il metodo, si salva – ed è anzi ricchissima di stimoli – l’opera Sorvegliare e Punire.
[*57] - Cfr. R. Scholz, «Der Wert ist der Mann», Krisis, n. 12, Erlangen 1992; R. Scholz, Le sexe du capitalisme, Crise&Critique, Albi 2019.
[*58] - «Nel concetto l’identità è sviluppata a universalità, la differenza a particolarità, l’opposizione, che torna nel fondamento, a individualità»; in: G. W. F. Hegel, Scienza della Logica, tr. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1968, p. 705. I momenti speculativi in verità sarebbero quattro: i primi due momenti, essendo una differenza, sono entrambi doppi: la “logica dell’essere”, il momento “positivo”, si presenta non come affermazione tautologica (per es. A è A) ma come “differenza interna”, invece la “logica dell’essenza”, il “primo negativo”, come “contraddizione posta”, dunque l’ultimo momento, ovvero la “logica del concetto”, in quanto esprimersi dell’unità dei due doppi dati dalla differenza e dalla contraddizione, sarebbe un quarto momento e non un terzo.
[*59] - Per quanto riguarda questa fiaba dello Hegel come «fautore dello Stato reazionario e poliziesco prussiano», che è giusto definire «un’immagine che avrà molta fortuna», come ci insegna Bodei è stata in verità «definitivamente smontata dapprima da Eric Weil in Hegel e lo Stato e, successivamente, dalla pubblicazione delle lezioni di filosofia di diritto, tenute tra il 1817 e il 1831»; R. Bodei, «Introduzione», in: K. Rosenkranz, Vita di Hegel, tr. it. di R. Bodei, Bompiani, Milano 2012, pp. 26-27.
[*60] - Quella triade, inesistente in Hegel ma centrale nel sistema filosofico di Fichte, è stata introdotta erroneamente da Chalybäus nei suoi compendi su Hegel e da lì tradizionalmente accettata. Al di là di quelli da noi già citati in corpo al testo, provenienti dai capitoli sulla “Logica” dell’Enciclopedia, è sufficiente fare il piccolo sforzo di sfogliare la Fenomenologia per rendersi conto che i tre momenti per Hegel sono l’Essere-in-sé [Ansichsein], l’Essere-per-sé [Fürsichsein] e l’Essere-in-sé-e-per-sé [Anundfürsichsein].
[*61] - A tal proposito sono state stimolanti (soprattutto per riprendere poi in mano autonomamente l’Enciclopedia, la Fenomenologia e la Logica) le relazioni di P. Vinci dal titolo «Dall’essere all’idea. Le articolazioni decisive della Logica di Hegel» tenute per l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in data 29 e 30 marzo 2021.
[*62] - G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Vol. I, tr. it. di B. Croce, Laterza, Bari 1967, §158, p. 142.
[*63] - Inizialmente Marx scrive che «di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria», per poi rivalutare subito dopo che «il vero regno della libertà […] può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità», per infine entrare essotericamente a gamba tesa affermando che la «condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa»; in: Il Capitale, Libro terzo, cit., p. 933.
[*64] - «Da ultimo, i settori vincenti in Occidente si scavano la fossa a causa del potenziale di distruzione ecologica del sistema della merce. Lo sfruttamento astratto di forza-lavoro umana ritorce la medesima astrazione contro le risorse naturali impegnate in questo processo. Il lavoro astratto, come punto iniziale e terminale della merce moderna, una volta assurto a principio universale della riproduzione globale, devasta in maniera sempre più frenetica i fondamenti naturali comuni dell’umanità. […] I rifiuti tossici, cinicamente esportati nei paesi affamati di entrate valutarie, tornano al mittente attraverso i cicli ecologici. La distruzione di giganteschi ecosistemi nei paesi debitori immiseriti minaccia di scatenare catastrofi climatiche e naturali per l’intera umanità, che non risparmieranno nemmeno i “ricchi”, neppure per tutto l’oro del mondo. Anche sul versante ecologico della sua crisi il sistema della merce ha creato inevitabilmente un mondo unico, la cui interconnessione appare innegabile»; in: R. Kurz, Il collasso della modernizzazione, cit., p. 181.
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