sabato 7 ottobre 2023

Figli di un dio “sospettato” e ambiguo …

La maschera di Dioniso: estasi e alterità in La leggenda del santo bevitore
- di Berta Ares Yáñez -

Lo scrittore di origine galiziana, Joseph Roth (1896-1939), non fu solo un brillante affabulatore, ma anche uno straordinario stratega oltre che un grande conoscitore delle principali fonti della tradizione europea; soprattutto quella biblica e quella proveniente dall'antica Grecia. I suoi contemporanei ne ammirarono la scrittura sobria, chiara e precisa, e il suo stile ironico. I critici germanistici, oggi, lo considerano uno dei più importanti scrittori in lingua tedesca, nonostante, alcuni sottolineino che la sua narrativa fosse tradizionale e continuista, vale a dire, epigonale. Tuttavia, alcuni recenti studi narratologici ne evidenziano l'azione sovversiva, soprattutto attraverso l'uso dell'ironia e dell'ambiguità. In effetti, tale qualità di molti dei testi di Roth - la quale di fatto costituisce il segno del suo stile - potrebbe rispondere più a una mentalità creativa mistica, che alla ricerca di nuove forme di esplorazione che nascono con il XX secolo; tuttavia, non fanno che sottolineare quale sia l'enorme potenziale creativo di tutta questa eredità. Per niente esausto. Il misticismo ebraico abbraccia entrambe le sostanze - il bene e il male - in quanto elementi di redenzione. Il suo sistema consiste di  un continuo dialogo tra gli opposti, dove perfino il dio bifronte dell'Olimpo, Dioniso, ha trovato un suo accomodamento. In questa ambiguità, si svolge - così come nella dualità, nell'ibridazione e nell'esperienza del doppio - "La leggenda del santo bevitore". In questo dialogo degli opposti si esprimono i fenomeni della morte e della vita, del miracolo e del caso, della volontà e della colpa, dello stato di grazia e del peccato. Per ben due volte, appare lo stesso signore a offrire denaro al protagonista senzatetto della leggenda, Andreas Kartak. Ci sono due donne, che ama. Due, sono le teofanie che sperimenta, con Santa Teresa, in forma di sogno e in forma di apparizione. Dualità e ambiguità fanno sì che questa storia possa essere letta in chiave religiosa o profana, ebraica o cristiana, cattolica o ortodossa, di ispirazione chassidica o barocca. Il racconto si basa sulla duplicità: delle strutture, dei significati, delle linee narrative e di quelle logiche.

Joseph Roth ibrida tradizioni, strutture, forme ed elementi appartenenti a vari e diversi generi narrativi – narrazione moderna, racconto fantasy, parabola religiosa – e lo fa in uno stile profondamente ironico; eppure, tuttavia, si presenta agli occhi del lettore come se si trattasse di un testo di grande semplicità. Con maestria, crea una dimensione onirica e la incorpora nel ritmo della vita quotidiana, per confrontarsi così con la realtà e con l'illusione, e creare un duplice piano piano in cui l'eroe della sua storia finisce per perdersi. Ci sono due tradizioni su cui la storia si basa: Gerusalemme e Atene. Fin dall'inizio riprende immagini, simboli e miti della Genesi biblica, attraverso il cui contenuto uomini e donne hanno cercato di spiegare l'ingresso del male nel mondo, e attraverso il limite etico proteggere ciò che ci rende umani. Ma prende anche elementi della tragedia greca, un genere capace di mostrare l'umano terribile senza smettere di cercare la bellezza. La leggenda del santo bevitore, è il canto del cigno di un uomo alcolizzato e apolide di origine ebraica e perseguitato dal nazismo. Il testo è scritto sotto il segno dell'alterità, dell'estasi e del delirio che il dio Dioniso rappresenta: sull'Olimpo, un dio sempre "sospettato" per essere figlio di una madre mortale, per essere nato due volte – la seconda da Zeus – e per essere consapevole della morte. Un dio che si compiace di apparire come un estraneo, come uno straniero. Dio della vegetazione, che similmente a essa muore e rinasce, dio dell'impeto naturale, dell'impulso alla vita sfrenata, del vino e dell'entusiasmo o enthousiasmós, vale a dire, dell'ispirazione o della possessione divina. Dioniso ispira frenesia: cosa che può essere una benedizione o una punizione. Libera da quello che sono i legami sociali, invita a festeggiare. «Un dio ambiguo», dice Carlos García Gual, «per gli  umani, il più dolce e il più crudele». Tutti coloro che gli si sono accompagnati e che sono stati toccati dal suo amore - sottolinea l'ellenista - hanno dovuto condividere con lui il suo tragico destino. La sua stessa presenza denota la vicinanza della morte. E alla morte, lo scrittore galiziano si arrese il 27 maggio del 1939, pochi mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e solo due settimane prima di finire di scrivere questo libro. Era un rifugiato a Parigi. E per ogni pagina che scriveva, aveva bisogno di un bicchiere di Pernod.

Un tramonto a Parigi, nella primavera del 1934
Già le prime righe della storia, collocano l'azione nel tempo. La prima scena – la quale possiede tutti gli elementi religiosi comuni alle storie bibliche: la scala, il messaggero, il percorso deviato, la missione o il servizio da svolgere – avviene concretamente nel corso degli ultimi minuti del tramonto, in quello spazio di tempo che lo Zohar, uno dei principali libri della mistica ebraica, definisce come l'ora della misericordia, perché si trova sospeso tra la luce che rappresenta la clemenza di Dio e l'oscuramento, o il rigore di Dio. Esso è anche il tempo dell'ultima preghiera. Nel calendario ebraico - che è lunare - è il tramonto ad annunciare il nuovo giorno. Poi, il narratore ci fa notare che è primavera; un tempo liturgico collegato e in relazione con la Salvezza. È la fine della Quaresima, che annuncia la Pasqua, e coincide con il momento in cui si celebra la festa principale dell'ebraismo: l'Esodo degli israeliti dalla loro Schiavitù in Egitto. Questo, è anche il periodo dell'offerta spirituale a Dioniso. Oggi riteniamo che i miti degli dei che nascono e muoiono, come lui, si riferiscono necessariamente al cambiamento delle stagioni e al destino della vegetazione: è vita e morte, scomparsa e ritorno, annientamento e rinascita. Infine, ci viene anche detto che la storia si svolge nel 1934 a Parigi. L'anno indica lo stigma umano del tempo, ben lontano dall'intramontabile «c'era una volta» di quelle storie che lo scrittore invece intende emulare nelle pagine successive – ironicamente – attraverso quel duplice livello in cui si è perso il protagonista. Perché citare l'anno, e poi farci credere che stiamo leggendo una favola? Quando l'anno ci dice che non ci sarà un lieto fine tipico del genere. Il 1934, in un'Europa dove Hitler detiene il potere assoluto, è un anno di estrema violenza . È un periodo storico in cui già dominava un'atmosfera di violenza, e di trionfo del fascismo. A Parigi, è un anno di grande instabilità economica e politica, con numerose manifestazioni e rivolte delle bande di estrema destra. Sono le conseguenze della Grande Depressione. La Francia era l'area europea dov'erano arrivati più immigrati, soprattutto da quell'Est europeo dal quale proviene Andreas Kartak, l'eroe della storia. Questa è la loro condizione politica. Pertanto, egli è assai incline ad abbandonarsi alle braccia di Dioniso, il dio che accoglie tutti gli esclusi dai culti politici, di cui egli si appropria anima e corpo.

Questo è il primo giorno in cui - dopo che c'è stato l'incontro con un signore che gli ha regalato dei soldi - Andreas festeggia la sua vita, facendolo «come in uno stato di grazia». È un giovedì – nuovamente, il segno del tempo – e l'eroe decide di festeggiare il proprio compleanno, come dire, un rito di passaggio. Ma chi è quest'uomo che porta un nome greco il cui significato etimologico indica la qualità di "virile"? Uno slavo con un passato criminale, un alcolizzato, un immigrato senza documenti, senza lavoro, senza un tetto sotto cui ripararsi. In una tasca delle giacca custodisce qui documenti che certificano la sua espulsione. È un paria, un pharmakós nel senso della Grecia antica. È il 1934, e Andreas può essere facilmente trasformato in una vittima sacrificale. Egli incarna la vittima, spregevole e addirittura colpevole,dal momento che né il crimine né l'adulterio gli sono estranei. Egli rappresenta - se vogliamo usare la terminologia di René Girard - sia il veleno che l'antidoto, simultaneamente. La favola che ci viene raccontata è sostenuta dal delirio e dall'estasi. Questo romanzo, che non rinuncia al mistero, prende i simboli e miti dell'Antico Testamento e quelli della tragedia, e li fa dialogare tra di essi, facendolo in quello che costituisce un momento cruciale nella storia europea, in un'epoca fortemente caratterizza dal suo carattere escatologico, apocalittico e messianico: gli anni Trenta. Un tempo questo, che potremmo descrivere - per continuare a usare la terminologia di Girard - come un tempo in cui la «violenza insoddisfatta» va alla ricerca di vittime sopra le quali convogliare e riversare un irrazionale desiderio di rabbia e furore. Ci muoviamo su uno sfondo che rimanda alla tragedia sacrificale. Ne "Le origini del totalitarismo", Hannah Arendt descrive come all'epoca l'Europa si arrese alla violenza. Gli Stati nazionali non avevano la capacità di risolvere la situazione di quelle migliaia di immigrati che principalmente le politiche di Stalin e Hitler creavano. Via via, e nella misura in cui cominciarono a formarsi masse di apolidi, essi venivano anche spogliati di tutti i loro diritti. Nel suo libro, "Noi rifugiati" (1943), descrive la figura del rifugiato visto come portatore di un'identità e di un destino imposto, per il quale non esiste più alcuna legge che possa proteggerlo, poiché si tratta oramai di esseri esclusi dalla comunità politica; e nel farlo, sottolinea anche l'atteggiamento di coloro che erano consapevolmente dei «paria coscienti» (pochi di loro lo ammisero, se non nel momento in cui era ormai troppo tardi). Joseph Roth è stato uno di quelli coscienti, così come, alla fine, lo sarà anche Andreas.

Il fenomeno del doppio
Una lettura attenta del racconto, fatta allo stesso modo in cui si leggono le poesie, ancora una volta, fino a toccare l'essenza del testo, alla fine riesce a segnalare qualcosa come la presenza di un doppio dionisiaco di Andreas: Woitech, anche lui slavo, paria e alcolizzato. Otto Rank, lo psicoanalista austriaco di origine ebraica contemporaneo di Joseph Roth, nel suo magistrale studio sul fenomeno del doppio, fa riferimento al suo uso ricorrente tra gli scrittori che soffrivano di follia, autodistruzione, alcolismo e che, a partire dall'esperienza della loro condizione di orfani, avevano attacchi di irritabilità e malinconia, come Roth. Andreas e Woitech sono due figure gemelle, una condizione questa che molte società primitive consideravano come impura e sulla quale  ricade quella che Girard chiamava «tragica simmetria», poiché, quando avviene che in una società si risveglia il desiderio di violenza, ecco che allora le vittime diventano gemelle: appaiono intercambiabili tra di loro, e questo avviene a partire dal fatto che la loro identità non venga formalmente riconosciuta; sono facilmente convertibili in un oggetto di odio. La prima cosa che la violenza attua, è eliminare l'unicità di ogni essere umano. Sono tutti dei doppi.

Sotto la maschera, appare Dioniso
Il filologo Otto F. Rank, uno dei massimi studiosi del dio bifronte, scriveva: «Sotto la maschera, appare Dioniso»: in sé, la maschera è incontro, ed è solo impatto, nient'altro che facciata, essa non ha un rovescio. Simbolo e apparenza di ciò che è e non è. La maschera ci dice che l'apparizione di Dioniso è legata all'enigma insondabile della doppiezza e della contraddizione. Quelli sono gli ultimi fantasmi dell'essere e del non-essere, osservano l'uomo con i loro occhi mostruosi. Dioniso viene chiamato "colui che rilassa" o "il liberatore", il quale però viene a turbare una profonda oscurità: in un primo momento, il mito si presenta alla luce di quella che è una terribile persecuzione. Dioniso predilige il doppio. Un tema, questo che ha permesso a numerosi artisti di sviluppare le questioni nucleari dell'esistenza umana, quali l'identità e la paura della morte. Rimane legato al tema dell'ombra, che a sua volta viene associato a idee paranoiche di persecuzione. Sotto la maschera del doppio prendono posto anche fenomeni come l'allucinazione: il soggetto vede manifestarsi ciò che si trova simultaneamente sia in lui che fuori di lui. Lo scindersi del doppio, per mezzo dell'ubriachezza, porterà al delirio finale in cui si dissolve La leggenda del santo bevitore. Nell'ultimo capitolo, il quindicesimo, Woitech convince Andreas a continuare a bere e lo convince a rimandare la missione che nella scena iniziale della storia gli aveva affidato il gentiluomo. Nel medesimo momento in cui il protagonista accetta questa allettante proposta allettante, una ragazza entra nel caffè con lo stesso aspetto della giovane donna che lui aveva visto nei sogni, e proprio in quel preciso momento Andreas sente «improvvisamente un misterioso dolore al cuore, una strana pesantezza e una grande angoscia nella sua testa».

Il poeta descrive questo dolore improvviso e misterioso con l'aggettivo «unheimliches» («ein unheimliches Herzweh») ["un perturbante battito cardiaco"], un termine questo, che in tedesco rientra nella categoria del terrificante o dello spaventoso, che qui si trova a essere connesso anche con lo status di senzatetto. Sigmund Freud, ha usato questo termine per cercare di definire ciò che è sinistro, minaccioso, lo stranamente familiare. E in questa “leggenda”, a essere rappresentato è il momento in cui si manifesta il meraviglioso e il demoniaco del divino, che, come in tutta l'opera di Roth, si manifesta come delirio. La scena che segue, nella quale Andreas e la ragazza  - che nel suo delirio rappresenta Santa Teresa di Lisieux - conversano, viene raccontata dal punto di vista di Woitech: «Woitech vide la scena allo specchio», sottolinea il narratore, come se non volesse guardare direttamente. Così facendo, Roth forza lo spostamento del punto di vista narrativo portandolo su un personaggio, e la cosa è il risultato di quella che è una scissione etilica di Andreas. Vale a dire che  la scena ci viene mostrata attraverso la maschera dionisiaca che Woitech rappresenta. A imporsi, è la realtà dionisiaca che prende vita con la morte di Andreas, in un atto consolatorio per mezzo del quale straripa allucinazione e demenza. Al suono delle campane della chiesa che richiamano Andreas a compiere la sua missione, prevale il delirio. L'immagine di una Teresa vestita di blu viene a sottolineare l'esperienza estatica. Andreas muore nel delirio. Alla fine della storia, è la follia che illumina la realtà, trasformandola. Se la morte irrompesse nella vita senza bellezza, allora vorrebbe dire che non siamo di fronte a un'opera di Joseph Roth: è un mistico, e pertanto rende luminoso il transito. E lo stesso stesso anche per sé: «Dio dia a tutti noi bevitori, una morte così, leggera e bella». Nel desiderio finale, o preghiera che sia, il poeta si lega alla sua opera, si perpetua in un'unione in cui elegia e addio si mescolano. Tuttavia, non godrà dello stesso privilegio di Andreas. Joseph Roth morirà nel delirio, come Andreas, ma preda della sindrome da astinenza.

- Berta Ares Yáñez - Pubblicato nel mese di novembre 2022 su https://www.jotdown.es/  -

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