Eleutério F. S. Prado, ansioso e desideroso di sottolineare i meriti della Critica del Valore, e di Anselm Jappe, cerca inutilmente di "salvare" tutto il pacchetto – oltre a salvare simultaneamente in qualche modo anche il marxismo - depurandola di quel suo abbaglio, che secondo lui sarebbe solo quello di ritenere che "la lotta di classe sia solo un feticcio". Per farlo, scomoda anche Ruy Fausto, senza però accorgersi che ciò di cui continua a parlare - tirando in ballo Marx, a prescindere - non è altro che la sostanza del capitale: si tratta di quel lavoro che, ormai allo stremo, continua a lottare per i propri interessi, e che il destino vuole che coincidano con quelli del suo gemello, il capitale. Privo di una teoria della crisi - e resosi conto che in Marx manca qualsiasi teoria della lotta di classe - lo aveva sempre ammesso Marx stesso, che la lotta di classe era solo un concetto preso in prestito, non certo inventato da lui - Prado si attacca come può a quel che ha a disposizione tra i suoi sodali, e arriva persino a minacciarci ... di morte !!
Sotto il cielo nero del capitale
- di Eleutério F. S. Prado - [*1]
Il nome dato a questo articolo deriva da una mera traduzione del titolo dell'ultimo libro di Anselm Jappe, "Sous le soleil noir du capital", recentemente pubblicato [*2] in Francia. Già fin dall'inizio - ed è fortemente consigliato - va notato il suo carattere iperbolico: se il sole giallo che fa il giorno e si nasconde nella notte garantisce la vita sulla faccia del pianeta, allora un sole nero non può che rappresentare la morte. Il sole nero, com'è noto, è anche un simbolo fascista. La negazione della vita che ciò rappresenta, è quindi enfatica, terribile, assoluta. Nasce da un profondo risentimento, e persino dall'odio generato da quelle frustrazioni che il capitalismo garantisce a molti, soprattutto ai membri della classe media. Ma nell'opera dell'autore, una simile cupa visione non costituisce una novità. Vale la pena ricordare che anche il suo penultimo libro, "La Société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction", preannunciava una conclusione tragica. Il libro raccoglie venticinque articoli che sono stati scritti negli ultimi dieci anni da uno dei principali attuali leader di quella corrente di pensiero critico che si fa chiamare "critica del valore" o "critica della dissociazione-valore". Fondata da Robert Kurz all'inizio degli anni '90, attualmente conta seguaci in Germania, Francia, Brasile e in altri Paesi, ma sempre sotto forma di piccoli gruppi. Il libro comincia con una breve storia della critica del valore basata sugli scritti di Kurz, discute il feticismo in Lukács e in Adorno, insieme ad altri temi, per chiedersi poi, alla fine, cos'è che manca ai bambini.
Da dove viene Anselm Jappe?
In tal senso, vale la pena ricordare quali sono gli inizi di questa corrente di pensiero che rivendica Marx, ma solo fino a un certo punto. Essa viene alla luce lo stesso anno della caduta del Muro di Berlino. L'Unione Sovietica con il suo modello di accumulazione centralizzata si era già appena dissolta, i liberali celebravano la fine del comunismo, ma Kurz invece annunciava nel suo libro - quasi oscuramente - il crollo del capitalismo, pubblicando in Germania, nel 1991, "Il collasso della modernizzazione" . Come sappiamo, una traduzione di quest'opera venne pubblicata in Brasile [*3] nel 1992, con la precisazione che si trattava di «un libro audace». Roberto Schwarz, grazie alla sua lucidità e perspicacia, aveva considerato che la sua pubblicazione sarebbe stata un contrattacco nei confronti dell'avanzata del liberismo e del neoliberismo, in quanto veniva messa in dubbio la tesi che nella caduta del comunismo storico vedeva la fine del comunismo. La tesi di Kurz andava controcorrente, nella misura in cui all'epoca prevaleva in maniera quasi unanime il senso comune: per il quale, all'epoca ciò che si vedeva all'orizzonte era la vittoria indiscussa e incontrastata del capitalismo. Secondo quell'anomalo critico, invece, ciò che la rovina del socialismo reale aveva mostrato non era il trionfo dell'«economia di mercato», bensì l'inizio spettacolare del graduale crollo del sistema economico basato sulle merci, sul lavoro astratto, sul denaro borghese e sull'insaziabile accumulazione di capitale. Per Kurz, ricorda Jappe, «il modo di produzione capitalistico aveva raggiunto, dopo due secoli, i suoi limiti storici: la razionalizzazione della produzione, che sostituisce la forza lavoro con le tecnologie, aveva già minato le basi della produzione di valore e plusvalore». E senza più - sempre più - "plusvalore", come è noto, il sistema del capitale non può fare altro che entrare in una crisi strutturale definitiva. Nel capitolo di apertura, Jappe traccia i riferimenti della corrente di pensiero della "critica del valore". In primo luogo, essa si presenta come critica radicale e incorruttibile che non fa concessioni: «difende la salutare tradizione del filosofare con il martello, contro tutti gli eclettismi, gli irenismi, le elaborazioni consensuali e gli ossequi ai "cari amici"». Si tratta di criticare il capitalismo e non solo il neoliberismo, la finanziarizzazione o la cattiva distribuzione del reddito e della ricchezza. E soprattutto, non intende e non ritiene possibile far rivivere il keynesismo, che è stato in voga per circa trent'anni nel secondo dopoguerra. Mostrando,subito, fin dall'inizio la sua caratteristica più rilevante, quella che sottolinea l'estraneità a ciò che egli definisce il marxismo tradizionale, egli afferma in maniera perentoria che «una vera critica del capitalismo è necessariamente una critica del capitale e del lavoro». È noto che il marxismo classico, al contrario, considera in maniera positiva il lavoro non alienato; lo afferma in quanto condizione eterna dell'esistenza dell'uomo, sebbene squalifichi l'attività lavorativa nel capitalismo vedendola come aliena all'essere umano. Or, ciò dimostra come questa corrente di pensiero sia marxista e, in un certo senso, sia anche non marxista. Il libro qui citato presenta molte cose interessanti nei suoi vari capitoli e, anche per questo motivo, è impossibile recensirlo nel suo complesso. Eppure, se non verrà trattato in sequenza né con le pinze né con il martello, non verrà nemmeno semplicemente applaudito. In realtà, l'obiettivo è quello di esaminare il suo punto più sensibile, quello che vede proprio la sua divergenza centrale rispetto al marxismo tradizionale.
La critica del valore rimprovera a questa tradizione il fatto che essa considera l'opposizione tra capitale e lavoro come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico e, allo stesso tempo, come la leva che ne permetterebbe la trasformazione. In questo modo, trasforma la critica del capitale in un sociologismo che guida e allo stesso tempo disorienta tutta l'azione politica della sinistra. «Pertanto» - spiega Jappe - «in base a una lettura che personifica la struttura sociale, il capitale e il lavoro vengono identificati, senza mezzi termini, rispettivamente con i "capitalisti" e con i "lavoratori". E in questo modo apre la porta a un anticapitalismo 'tronco', se non addirittura al populismo, all'antisemitismo e al cospirazionismo». Che sia diffusa ampiamente, o che invece rimanga limitata a una ristretta conoscenza, una tale critica - che costituisce il punto centrale di questa corrente di pensiero - è stata formulata da Robert Kurz ed Ernst Lohoff, già a partire dal 1989, nel testo "Il feticismo della lotta di classe". Secondo loro, infatti, la lotta di classe costituisce il feticismo del marxismo tradizionale. E se questa critica sintetizza quanto evidenziato nel paragrafo precedente, allora essa pone un'analogia che richiede un'analisi più approfondita. Com'è noto, il concetto di feticismo della merce viene introdotto da Marx nell'ultimo paragrafo del primo capitolo del Capitale, e si riferisce alla confusione spontanea tra la forma valore e la base di tale forma, un'illusione che viene generata dal modo stesso di essere della socialità capitalista. Un'espressione molto forte di quest'illusione, appare quando si dice che «l'oro è denaro», poiché all'oro in quanto tale viene attribuita la proprietà di avere valore, quando invece il valore è la forma di una relazione sociale che esprime una certa quantità di lavoro astratto.
Ora, in che modo possiamo analizzare, in maniera corrispondente, l'espressione «feticcio della lotta di classe»? In base a quanto già detto, nella loro forma, sembra che lavoratori e capitalisti debbano essere intesi come dei collettivi di persone-funzione, empiricamente esistenti nella società costituita dal modo di produzione capitalistico. E sempre per quel che attiene alla loro forma, sembra che le classi debbano essere intese non come semplici collettivi, ma piuttosto come delle presunte totalità, vale a dire, come universali metafisiche. La confusione così generata, tuttavia, non può essere considerata spontanea, ma si tratta in questo caso di un prodotto del discorso erroneo praticato dal marxismo tradizionale. A questo punto, però, quella che sorge inevitabilmente è una domanda cruciale: Marx stesso era caduto in questo equivoco concettuale? Aveva così brillantemente creato la nozione critica di feticismo, per poi riferirsi alla reificazione dei rapporti sociali in questo modo di produzione; ma in modo volgare, aveva stupidamente finito per creare una religione politica che associa operai e capitalisti a partire da dei concetti astratti di classi sociali antagoniste, separando in tal modo, nettamente, proletari e borghesi? La risposta che si trova negli scritti degli autori che si inseriscono nella corrente della "critica del valore" è un netto e deciso «sì»; e Marx, in fin dei conti, era caduto in questa trappola, maldestramente, come un uccellino indifeso. E con questo «sì», non solo individuano l'esistenza di una sociologia esistente nel marxismo tradizionale - in alcuni filoni che storicamente vi si sono rifugiati - ma pensano anche di trovarla negli stessi testi dell'autore del Capitale. In maniera più significativa, questi autori critici sostengono che esiste un duplice Marx, suddividendo questo autore in due autori, che non si riconoscono l'un l'altro, vale a dire, un Marx essoterico della lotta di classe e un Marx esoterico della critica della relazione di capitale e del suo sviluppo costruttivo/distruttivo. Il primo sarebbe stato un volgare sociologo, mentre invece il secondo era un filosofo fondamentale che aveva rappresentato il capitale mostrando come soggetto automatico, e su questa base aveva creato l'ineludibile critica dell'economia politica.
Ma dove sarebbe stato commesso l'errore? Gli autori di questa corrente - assumendo le classi come un'opposizione empirica di quelli che sono dei collettivi di operai e di capitalisti - sostengono che, nel processo di accumulazione, i loro interessi non sono inconciliabili; infatti, si tratterebbe solo in ultima analisi di confraternite in competizione per l'appropriazione del reddito. In fondo, entrambi avrebbero un interesse comune che consiste nel mantenimento della forma merce in quanto forma di produzione sociale. Così facendo, gli autori, sostengono quindi che questa analisi sociologica sarebbe in funzione dei fatti storici osservati nell'evoluzione del capitalismo realmente esistente. Ma, dopo tutto, per Marx, a cosa servono le classi? E qui troviamo una vera e propria problematica, a partire dal fatto che possiamo davvero parlare di una lacuna in quelli che sono stati gli sviluppi teorici di questo autore. Come sappiamo, la sua opera può essere divisa in due parti: una prima, più importante, in cui abbiamo la rigorosa esposizione dialettica del sistema del capitale, visto come totalità concreta, e una seconda, costituita da testi sparsi, nei quali troviamo esposizioni storiche e/o pezzi di intervento politico. La prima parte è rimasta incompleta, e quindi senza un vero collegamento esplicito con la seconda. Ora, una risposta rigorosa alla domanda appena posta [a cosa servono le classi in Marx?], potrebbe essere formulata solo all'interno della precedente esposizione dialettica. Come dice Ruy Fausto, riguardo tale questione chiave: «in realtà, in Marx, la teoria delle classi non è né presente né assente. È presupposta [nell'esposizione del Capitale], ma non viene postulata. Se prende una posizione, questa la si trova solo in quei testi che sono rimasti frammentari» [*4]. Come è noto, nel Capitale la lotta di classe è presente nella sua forma di lotta economica, non espressamente politica, cioè nella prospettiva della classe in sé, mai in quella della classe per sé. E anche in questo caso, come si sa, l'esposizione ricostruita da Engels non può certo essere considerata completa. Nel Capitale, dice Fausto, «ciò che si trova è solo l'inizio, purtroppo, di una teoria delle classi che viene inserita in una presentazione dialettica. Come per gli altri problemi, ad esempio lo Stato, l'insufficienza della tradizione marxista risiede nel fatto che essa si allontana dalla rappresentazione dialettica». E nel farlo, vuole ottenere un risultato solo deducendo immediatamente la lotta di classe a partire dalle categorie socio-economiche. «Il risultato di un simile equivoco, è un marxismo la cui comprensione si rivela sterile e poco rigoroso. Per poter analizzare le classi, così come per riuscire ad analizzare lo Stato, bisogna prima trovare il punto in cui esse vengono inserite in una rappresentazione dialettica», vale a dire, nella rappresentazione che si trova nell'opera omnia. Tuttavia, la critica del valore non ha risolto questo problema; al contrario, è rimasta al livello del marxismo tradizionale, sebbene non lo abbia fatto in modo affermativo, ma critico. Per questo motivo è stato oggetto di accuse volgari come quella che fa riferimento a un duplice Marx. Per risolverlo, sarebbe necessario prima, come mostra Fausto nei suoi commenti all'opera di questo autore, ricostruire la rappresentazione delle classi in sé, per poi mostrare come si possa passare dialetticamente dalle classi in sé alle classi per sé, e per sé stesse. In un tale movimento, ciò che viene solo presupposto nell'esposizione del Capitale verrebbe posto, o meglio, esposto in qualche modo. Solo così sarebbe possibile fare una buona - senza dubbio necessaria - critica dell'esperienza storica. Ma questo appunto, improntato alla franchezza nei confronti della critica del valore, non vuole essere distruttivo. Non si vuole sostenere che nei testi di questi autori non si trovino idee interessanti. Per inciso, uno studio più completo di questa corrente richiederebbe molto più spazio. E va anche aggiunto che il problema dell'esposizione dialettica rigorosa delle classi e del passaggio dall'in-sé al per-sé non può essere affrontato con leggerezza. I testi di Ruy Fausto ci portano in questa direzione. [*5]
In questa sede, per non chiudere bruscamente il discorso, vengono citati solo i passi principali necessari per arrivare alle classi in senso politico. Le classi vengono presupposte nel Capitale, ma poi appariranno nel corso dell'opera attraverso dei momenti che le collocano, ma non pienamente. I primi a comparire sono i supporter, le incarnazioni della forza lavoro e del capitale. In quanto tali, sono solo ruoli, seppur attivi, nella struttura dei rapporti di produzione, cioè semplici soggetti negati. Ma già nel I Libro possono apparire, in nuce, attraverso le lotte occasionali, tra gli agenti economici collettivi, per i salari, per la durata della giornata lavorativa, ecc. Alla fine del Libro III, le classi appaiono per inerzia, poiché ora vi si definiscono solo attraverso le forme di quelli che sono i loro rispettivi redditi, i quali derivano dai tipici modi di proprietà dei fattori di produzione: la forza-lavoro riceve salari, il capitale guadagna profitti e la proprietà terriera guadagna rendite dalla terra. In questo modo essi denotano solo l'apparenza del sistema, e lo fanno in modo mistificato, poiché tutte queste fonti sembrano essere indipendenti l'una dall'altra. Qui non c'è né lotta economica né lotta politica, e nemmeno funzione. Insomma, come spiega Fausto, a grandi linee, «nel Capitale, Marx studia solamente la tendenza oggettiva del sistema, e non gli effetti della lotta di classe». È solo a partire da qui che si può cominciare a pensare alle classi in termini di pratiche politiche trasformatrici, siano esse riformiste o radicalmente democratiche (vale a dire che realizzano una società basata «su lavoratori liberamente associati»). Al di là del Capitale in quanto opera realizzata, ma visto sempre nella prospettiva della rappresentazione dialettica, sarebbe necessario passare dalla classe presupposta alla classe che possa essere posta come tale, ossia nella condizione di una possibilità oggettiva che si realizza - o meno - nel corso della storia. In caso positivo, la classe cesserebbe di apparire come mero genere, per diventare un'esistenza politica sostanziale, un insieme integrato di relazioni di solidarietà. È qui che la classe operaia che era implicita, che prima era solo possibile, sarebbe diventata a questo punto esplicita attraverso un processo di insorgenza; i soggetti negati, che normalmente agiscono solo come supporti, sarebbero stati trasformati e costituiti nel processo di lotta come una totalità postulata di soggetti politici. Se così fosse, avremmo la costituzione di un universale concreto nella prassi sociale - e non un'ipostasi metafisica. Dal momento che questo percorso non ha avuto luogo storicamente, allora forse gli autori della critica del valore vorrebbero sostenere che alla fine, in ultima analisi, sarebbe un'utopia. In linea di principio, tuttavia, sembra dubbio che si possa trovare una buona prova in tal senso. Ma, se ciò è fattibile, la prova non potrebbe basarsi su fatti storici passati; ecco, una prova rigorosa potrebbe essere fornita solo nel corso dell'esposizione dialettica. Naturalmente, molte delle complicazioni legate alla questione non sono state menzionate in questa sede, come, ad esempio, il problema se una simile trasformazione sarebbe spontanea, o se richiederebbe anche il catalizzatore di movimenti politici organizzati. Forse l'ostacolo più grande è rappresentato proprio dalle condizioni in cui questa unificazione della pratica operaia può avvenire. Tuttavia, sembra necessario aggiungere che se questo processo, per qualsiasi motivo, venisse bloccato, allora forse non ci sarebbe alcuna alternativa che potrebbe permettere agli esseri umani di andare oltre il capitalismo. Perché l'unica prospettiva storica ineludibile che rimane è quella secondo cui il "sole nero", alla fine, prevarrà. E, insieme ad esso, la morte.
- Eleutério F. S. Prado - Pubblicato il 18/9/2022 -
NOTE:
[1] Professor aposentado do Departamento de Economia da FEA/USP.Email: eleuter@usp.br. - Blog su internet: https://eleuterioprado.blog
[2] Jappe, Anselm – Sous le soleil noir du capital – Chroniques d’une ère de ténèbres. Paris: Crise & Critique, 2021.
[3] Kurz, Robert – O colapso da modernização – Da derrocada do socialismo de caserna à crise da economia mundial. Rio de Janeiro: Paz e Terra, 1992.
[4] Fausto, Ruy – Marx: Lógica e Política. Tomo II. São Paulo: Editora Brasiliense, 1987, p. 202-203.
[5] Fausto, Ruy: Marx: Lógica e Política. Tomo III. São Paulo: Editora 34, 2002, p. 229-271.
fonte: Economia e Complexidade
Nessun commento:
Posta un commento