Quando la Coca Cola era un medicinale e la mela solo un frutto. Quando la pubblicità prometteva miracoli e i medici consigliavano sigarette. Quando le donne erano gli angeli del focolare e gli afroamericani trattati vergognosamente come schiavi. Quando la radio e la tv la facevano le marche di sapone e quando nacque il modo più romantico per dire «ti amo». Quando il Maggiolino sbarcò in America e i jeans in tutto il mondo. Quando una giovane ragazza disegnò lo swoosh e un ingegnere il primo computer. Quando la pubblicità nacque e quando cambiò per sempre. Un viaggio nella storia della pubblicità, dalla sua nascita fino ai nostri giorni, vista attraverso le vite dei pubblicitari, le più grandi campagne di sempre, le marche, gli slogan, i prodotti e la società che le ha dato vita. Prefazione Bruno Bertelli e Till Neuburg.
(dal risvolto di copertina di: ROBERTO BERNOCCHI, Storia della pubblicità. Prefazioni di Bruno Bertelli e Till Neuburg. UTET Pagine 704, €39)
Pensi davvero di vendere l’auto di Hitler negli Usa?
- di Aldo Grasso -
Una delle più belle definizioni della pubblicità la si deve a un futurista, a Filippo Tommaso Marinetti. Recita così: «La pubblicità ha soltanto una ragione d'essere, quella di agganciare la curiosità del pubblico con la massima sintesi, il massimo dinamismo, la massima simultaneità e la massima portata mondiale». La ragion d’essere continua a essere quella, è il resto che è cambiato. Inevitabilmente. La golden age della pubblicità, quella descritta in maniera esemplare dalla serie Mad Men, è finita. Da tempo immemorabile è finito anche Carosello, forse è finita l’egemonia della pubblicità come rappresentazione del mondo, come predominio di un discorso non tanto finalizzato a narrare una storia, quanto piuttosto a raffigurare, a descrivere, a mettere in forma un punto di vista. Sia ben chiaro, la pubblicità non è morta, come sosteneva anni fa Lord Maurice Saatchi, cofondatore della famosa agenzia Saatchi & Saatchi. La pubblicità è più viva che mai e continua a essere la scienza esatta del superfluo, ma a poco a poco ha perso la capacità di imporre la sua visione del mondo, di ergersi a ideologia (anche le grandi narrazioni ideologiche si sono frantumate) o di trasformare una bibita ghiacciata in una fede, in una filosofia. Non è più in grado di trasformare i media, i nuovi media, a sua immagine e somiglianza, ma è costretta rispettarne le differenze e le funzioni. Per capire questi fondamentali cambiamenti ci viene in aiuto un prezioso, indispensabile libro, Storia della pubblicità di Roberto Bernocchi, edito da Utet. Che ha un grande, grandissimo merito: è una miniera di informazioni. L’autore non si propone di spiegare al lettore cos’è la pubblicità da un punto di vista teorico, preferisce raccontargliela, offrirgli una miriade di esempi (soprattutto provenienti dall’America, il Paese che è stato la culla dell’advertising), introdurlo in un mondo misterioso dove il confine tra verità e invenzione (sogno?) è molto labile. Il volume è suddiviso per decenni e ogni capitolo riserva ampio spazio al contesto storico in cui fioriscono le campagne. Da sempre, la pubblicità raccoglie spunti, idee, immaginari diffusi e contribuisce a rafforzarli, a farli circolare nel contesto sociale e culturale. È in questo senso che la pubblicità ha giocato e gioca un ruolo centrale nel cogliere e raffigurare certi tratti del cambiamento sociale. Nel momento in cui si afferma la soggettività di massa, il consumismo inteso non più come strumento egualitario ma come contrassegno delle identità, dei valori, la pubblicità ha messo in scena nella maniera più esplicita la fantasmagoria dei desideri e dei sogni diffusi di Paesi che stavano scoprendo il benessere. C’è anche quella speciale forma di pubblicità che si chiama propaganda e che tanto piace ai regimi autoritari («I più grandi trionfi della propaganda sono stati compiuti non facendo qualcosa, ma astenendosi dal farlo», sostiene Aldous Huxley). Ripeto: l’aspetto più sorprendente del libro di Bernocchi è l’analisi di molte campagne pubblicitarie, ognuna delle quali nasconde una miniera di informazioni e di connessioni con la società del tempo. Abbandoniamoci ad alcuni esempi.
Il sapone delle dive
Scrive Bernocchi: «Lux divenne, a partire dal 1925, l’anno in cui la pubblicità lo lanciò sul mercato americano, il sapone delle star. Un sapone bianco per differenziarlo dal verde Palmolive e dal rosa Cadum; un sapone che doveva essere, secondo la pubblicità, uno strumento indispensabile per la cura della pelle di ogni donna che volesse assomigliare a una diva del cinema». A reclamizzare il sapone dei fratelli britannici William e James Lever ci pensa l’agenzia J. Walter Thompson che utilizza lo star system internazionale: da Judy Garland a Ginger Rogers, da Louise Brooks a Joan Crawford, da Bette Davis a Marlene Dietrich, da Ava Gardner a Grace Kelly. E quando il prodotto viene esportato si aggiungono altri volti: Brigitte Bardot, Claudia Cardinale, Sophia Loren. Accettarono tutte, tranne la divina Greta Garbo, che oppose un netto rifiuto.
Torches of Freedom
Nel 1928, il potente magnate del tabacco George Washington Hill, presidente dell’American Tobacco Company, che faceva già affari d’oro da quando le sigarette, durante la Prima guerra mondiale, erano state incluse nelle razioni dei soldati, si rese conto che poteva guadagnare ancora di più, se il mercato si fosse aperto alle donne. Per raggiungere lo scopo venne ingaggiato Edward Bernays, l’inventore delle Public Relations (o «consenso ingegneristico», come preferiva Bernays chiamare l’arte della persuasione). Nipote di Sigmund Freud, Bernays è stato il primo a teorizzare che le persone possono essere portate a desiderare cose di cui non hanno bisogno facendo appello a desideri inconsci (essere liberi, avere successo, ecc.).
«Torches of Freedom» fu uno slogan utilizzato per incoraggiare le donne a fumare, facendo leva sul loro desiderio di «aspirare» a una vita migliore e ottenere l’uguaglianza con gli uomini. Per mostrare quanto fosse glamour per una donna fumare, le fece sfilare a una delle manifestazioni più importanti degli Stati Uniti, la Easter Holiday Parade di New York del 1929, che ogni anno attirava fino a un milione di persone. Bernays riunì dozzine di donne, tutte scelte personalmente, giovani, belle, sane ed eleganti, a cui distribuì pacchetti di Lucky Strike e assegnò una posizione precisa. Convocò la stampa di tutto il Paese, promettendo «un grande evento». Nascosto tra la gente, diede un segnale concordato: sotto l’occhio dei fotografi della stampa, dozzine di donne, allo stesso tempo, tirarono fuori il loro pacchetto di sigarette e iniziarono a fumare. Ai giornalisti e ai curiosi che le intervistavano, spiegarono che queste erano le «torce della libertà», in riferimento alla Statua della Libertà, un discorso attentamente confezionato dallo stesso Bernays. Un’operazione commerciale spacciata come battaglia politica, oggi impensabile.
Think small
«Volkswagen è una casa automobilistica tedesca, nata a Berlino nel 1937. Il progetto originario, voluto da Adolf Hitler, prevedeva la creazione di una macchina economica da commercializzare a un prezzo accessibile per la maggior parte dei tedeschi». Con questa tara ideologica, com’è possibile vendere il Maggiolino negli Stati Uniti? Ci pensa l’agenzia Doyle Dane Bembach a partire dal 1959 che con una serie di slogan molto efficace convince gli americani, abituati ad auto di grandi dimensioni, a comprare un’auto così apparentemente antiestetica.
Questa campagna, basata sulla strategia del «negative approach» (trasformare in positivi gli aspetti negativi del prodotto con ragionamenti tanto plausibili quanto ironici) è stata celebrata dagli esperti come la pubblicità più importante di tutto il Novecento. Chi mi ama mi segua Nel 1973 nacque una delle più famose e controverse campagne della pubblicità italiana. Commissionata dal Maglificio Calzificio Torinese (già proprietario del marchio Robe di Kappa), per il nuovo brand Jesus Jeans, la campagna, affidata a Michael Goettsche e Emanuele Pirella, che coniarono lo slogan «Chi mi ama mi segua», mostrava le natiche semicoperte della modella Donna Jordan, in una celebre foto di Oliviero Toscani. L’accostamento tra frasi del Vangelo e immagini provocanti non mancò di scatenare accuse e polemiche. A seguito delle immagini pubblicitarie di Jesus Jeans, scoppiò lo scandalo. In tutta Italia partì una campagna di condanna e boicottaggio, iniziata sull’«Osservatore Romano» e arrivata fino alla denuncia di Vincenzo Salmeri, l’allora pretore di Palermo. Anche Pier Paolo Pasolini, dalle pagine del «Corriere della Sera», non mancò di esprimere il proprio dissenso e sdegno per quella che a suo avviso era un’indecente iniziativa commerciale. Con il suo articolo intitolato Il folle slogan dei jeans Jesus, pubblicato il 17 maggio 1973 e poi riportato anche nella raccolta Scritti corsari con il nuovo titolo Analisi linguistica di uno slogan, Pasolini condannava l’impudicizia dello spot del marchio di pantaloni, e profetizzava un uso sempre più dissacrante e sconveniente delle pubblicità senza rispetto per i valori prestabiliti, come segno di una corruzione morale dilagante.
Macintosh 1984
Lo spot Macintosh 1984 inizia in uno stanzone che sembra l’interno di una fabbrica. Ambientato in un mondo distopico ispirato a 1984 di George Orwell (e a Blade Runner del regista Ridley Scott, scelto da Apple non per caso), lo spot presenta un Grande Fratello che dà ordini a un uomo grigio al centro di uno schermo gigante. Poi una donna in pantaloncini rossi corre verso di lui. Fa girare un martello in aria e lo lancia al centro dello schermo, mandandolo in frantumi, distruggendolo. Appare una scritta in sovraimpressione: «Il 24 gennaio Apple introdurrà il Macintosh. E capirete perché il 1984 non sarà come 1984». Lo spot venne mostrato durante il Superbowl, la finale del campionato americano di football, l’evento sportivo più seguito negli Usa. Lasciò tutti a
bocca aperta: per diversi secondi il pubblico restò in silenzio. Lo spot è stato votato infinite volte dai creativi di tutto il mondo come il commercial più rivoluzionario della storia della tv.
Storia della pubblicità di Roberto Bernocchi è così ricco di curiosità che a ogni pagina c’è una sorpresa. Sono diverse le campagne ingannevoli, fin dalle origini. Barnum, quello del circo, compra una vecchia schiava, Joice Heth, e la esibisce al pubblico dicendo che ha 160 anni e la presenta come «la balia di George Washington». Questo primo esempio famoso ha fatto scuola, «inventando» un linguaggio sensazionalistico che la pubblicità ha sfruttato per anni, a discapito della propria credibilità. Le più significative campagne ingannevoli appartengono ai primi decenni del Novecento quando, con l’invenzione dell’elettricità, uomini senza scrupoli escogitarono prodotti miracolosi, sostenuti da fantasiose promesse sanitarie (la scossa elettrica poteva ogni cosa). Prima ancora ebbero molta fortuna i «beveroni» salutisti, capaci di sistemare qualunque acciacco fisico e mentale (i film western hanno mitizzato la figura del venditore di sciroppi toccasana). Con l’introduzione della reason why (la ragione per cui), negli anni Cinquanta, si diffuse il bisogno di dare un nome alla propria differenza di prodotto. Celebre il caso dell’Irium, contenuto nel dentifricio Pepsodent, contro la carie. Sostanza inventata solo per dare credibilità all’efficacia del prodotto. Per non parlare del bagno schiuma «al lime dei Caraibi». Per non parlare delle influenze sul linguaggio: Yes We Can, Think Different, Che mondo sarebbe senza Nutella?, Make Love Not War, Just Do It, Provare per credere, Così tenero che si taglia con un grissino, Un diamante è per sempre, Più bianco non si può, Dove c’è Barilla c’è casa, Falqui basta la parola, O così o Pomì... Tuttavia, la pubblicità, con la sua capacità di integrare forme testuali di differenti origini, col suo vampirismo o parassitismo culturale, con la vitale esigenza di restare in contatto con pubblici variegati e di saper interpretare i valori dati per scontati di una comunità nazionale, con il suo appello alle diverse dimensioni dell’esperienza (quella cognitiva, ma anche, e forse soprattutto, quella passionale), si conferma uno straordinario laboratorio linguistico.
- Aldo Grasso - Pubblicato su La Lettura del 7/8/2022 -
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