Noi siamo tutto. La miseria del (post-)operaismo
- di Robert Kurz -
« Il fatto che io sia paranoico, non vuol dire che io non sia perseguitato. » ( Woody Allen )
La svolta del marxismo occidentale verso la teoria dell'azione - una svolta che nella prassi ideologica postmoderna rimane separata dalla teoria di Marx in generale - invece di continuare a svilupparsi, lascia uno scheletro nell'armadio, vale a dire, la critica dell'economia politica: la critica che affronta le complicate "legalità" della macchina sociale capitalista sulla base della costituzione feticista, l'analisi continuata del processo capitalista "trasformatore della società", nella sua unità di oggettivazione e trattamento (soggettivo) della contraddizione, tra cui le ideologie assassine. La soluzione apparente di questa problematica non liquidata, ha prodotto la corrente forse più importante della nuova sinistra, sorta in Italia, parallelamente al marxismo strutturalista di conio althusseriano e all'atomizzazione foucaltiana della critica: il cosiddetto operaismo. Il punto di partenza fu la situazione specifica della giovane popolazione proveniente dal Mezzogiorno, che affollava le industrie fordiste del nord dell'Italia negli anni '60 e non aveva ancora interiorizzato la disciplina di fabbrica del "lavoro astratto". Mentre i regimi della "modernizzazione ritardata" del capitalismo di Stato, nella periferia del mercato mondiale, avevano imposto la frusta dell'azione disciplinatrice, fatta in nome dell'ideologia di legittimazione "marxista"; in Italia, a partire da una situazione simile, si sviluppa una determinata "militanza operaia" contro il regime produttivo fordista occidentale; una resistenza legittima, nella prospettiva adottata, ma immediatamente anche una forma specifica del trattamento limitato della contraddizione, la quale, nella sua immediatezza, poté diventare un campo di riferimento teorico per gli intellettuali di sinistra.
Il pensiero dell'operaismo sorto in tal modo, come ideologia di legittimazione di questa militanza diretta, assumeva ora un percorso peculiare. La lotta contro il regime del lavoro fordista veniva presentata come "lotta contro il lavoro"; ma questa era una confezione ingannatrice. In fin dei conti, quello che si vedeva era solo una manifestazione specifica della disciplina fordista, dal momento che non si rappresentava una moderna ontologia del lavoro in quanto tale, come avveniva nel caso dei situazionisti; in realtà, la "lotta contro il lavoro" fenomenologicamente limitata non abbandonò mai il paradigma tradizionale della "liberazione del lavoro" (ontologica). Così, partendo da un collegamento diretto col trattamento della contraddizione "del militante operaio" (che, ovviamente, doveva presto evolversi), non rendeva in alcun modo possibile una critica dell'ontologia del lavoro. Per cui rimaneva una prassi ideologica specifica dell'operaismo che portava all'estremo la comprensione tronca della teoria dell'azione, trasformando la relazione del capitale in pura soggettività, e a partire dagli anni '70 passava ad esercitare influenza nella "sinistra del movimento" di molti paesi. La vecchia idea relativa all'ontologia del lavoro, per cui la "classe operaia", come "soggettività proletaria e operaia", sarebbe una «esogeneità sempre presente nel sistema» (Negri, 1977) - ossia, esisterebbe simultaneamente, sia "all'interno del capitale", in quanto soggetto, sia "all'esterno" del capitale, in quanto ontologia del lavoro - esclude in partenza un concetto critico della costituzione del moderno patriarcato produttore di merci sovrastante le classi. Disconnesso dalla sua funzione limitata e reso storicamente superfluo come "lotta per il riconoscimento" nella relazione di capitale, il concetto di lotta di classe passa attraverso un processo di de-storicizzazione e, in maniera simile a quella dei filosofi della prassi, riceve una carica di mitologia del soggetto astratto, oltre il suo antico dominio dell'oggetto reale. Ora non "si ha" più nessuna oggettività (negativa) dello sviluppo capitalista, c'è solo la lotta di classe "da sola in casa". Come dice Mario Tronti; «Anche noi abbiamo visto prima lo sviluppo capitalista e poi le lotte operaie. Questo è un errore. Bisogna invertire il problema, cambiare il segnale, tornare all'inizio: e all'inizio c'è la lotta di classe del proletariato». Secondo Martin Birkner e Robert Foltin, nel loro lavoro sul tema ["(Post-)Operaismus. Von der Arbeiterautonomie zur Multitude"], sarebbe questo «l'elemento di connessione delle diverse sfumature operaiste ... che rappresenta la differenza di base in rapporto all'oggettivismo dell'ortodossia marxista». Tuttavia, l'oggettivismo della vecchia metafisica della legalità non viene criticato come intendimento positivista, e conseguentemente affermativo, dell'oggettivazione capitalistica pienamente reale; al contrario, tale oggettivismo viene semplicemente invertito nella teoria dell'azione soggettiva. Ciò, di per sé, non è affatto nuovo. L'operaismo, però, compie un passo avanti decisivo rispetto al marxismo occidentale. Non mette da parte le categorie della critica dell'economia politica (e, di conseguenza, le categorie reali); al contrario, le integra direttamente nella svolta verso la teoria dell'azione. Le classi sociali e la loro "lotta" immanente (il mero trattamento della contraddizione all'interno del capitalismo) non sorgono costituite dalle categorie della matrice a priori sviluppata ed oggettivata in un processo storico, come in Marx; ma si dà esattamente il contrario, poiché ora si considera che tali categorie sono a loro volta costituite soggettivamente dalla "lotta di classe" come principio, il quale primariamente ha generato e genera le "classi" ininterrottamente, come suo punto di partenza. Piuttosto paradossalmente: la "lotta di classe" dovrebbe quindi esistere prima, e indipendentemente dalle classi; essa viene elevata a condizione di "principio" metafisico costituente, prendendo così il posto della costituzione feticista. Tale "principio" viene positivizzato ed ontologizzato, esattamente come le vecchie "leggi sociali oggettive", ma in una funzione soggettivata, che si trova proprio nell'altro polo della metafisica reale capitalista. La dissoluzione dell'oggettivazione feticista in mere relazioni di volontà dei "soggetti" ontologici - di conseguenza insuscettibili di essere indagati circa la loro costituzione e finendo per tornare ad un a priori tacito - si riferisce coerentemente alla stessa forma di merce. Così, riferendosi alla teoria marxista, nasce « il famoso primo capitolo della prima parte sotto il titolo 'La merce' come analisi e critica del potere politico (!) di una classe sull'altra » (Birkner/Foltin). Quello cui si allude come posizione del "marxismo autonomo" nordamericano di Harry Cleaver è valido per l'operaismo nel suo complesso. In un certo modo, la critica marxiana dell'economia politica viene violentata dalla teoria dell'azione, e il punto di partenza della critica marxiana della forma merce, del denaro, e del lavoro astratto viene semplicemente capovolta e messa con i piedi per aria. Il risultato è la soggettivizzazione integrale delle categorie capitaliste, formulata "incoronando" la svolta verso la teoria dell'azione, celebrata dagli operaisti come "svolta copernicana" della teoria critica. «La rilevanza dei momenti soggettivi», afferma Toni Negri, «e l'insorgere del punto di vista soggettivo di classe diventano ora l'elemento più importante» (Negri, 1977). Così, mentre la costituzione feticista viene fatta svanire in modo conseguente, si chiude l'ultima via stretta verso la formulazione di una "rottura ontologica" in riferimento diretto alle categorie della riproduzione capitalista (che in Foucault vengono semplicemente offuscate e rese mute).
Nella lotta pura del "soggetto contro soggetto", il soggetto metafisico "classe operaia" ha, però, un vantaggio ontologico, in quanto ontologia del lavoro; in maniera assurda, questo viene nominato demiurgo sia della costituzione come dello sviluppo continuato del capitalismo. E' "ape" ed è "architetto", insieme, per tutta l'eternità. Tutta la "legalità" si dissolve nelle funzioni della "lotta di classe", che sia la forma merce in quanto tale, o il lavoro astratto ed il processo di valorizzazione, che sia la composizione organica del capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto ecc.. La "coazione muta della concorrenza" (Marx) sparisce come categoria sistemica sovrastante nella semplice "lotta di classe"; la concorrenza tra i capitali e le economie nazionali viene offuscata, o liquidata come mero fattore perturbatore, così come la concorrenza fra salariati. La "classe operaia" ontologizzata, vista sempre come "lottatrice", viene considerata come la "forza motrice" centrale "dello sviluppo" (Birkner/Foltin, id.), anzi, a dire il vero, come l'unica forza motrice. In fin dei conti, il capitale, visto come "contro-soggetto" (al posto della relazione sociale feticista), si suppone che reagisca sempre e solo alle "lotte", ed è da qui che risulta "tutto". L'esistenza di un'innegabile partecipazione della "lotta di classe" al processo di modernizzazione capitalista, in quanto "lotta per il riconoscimento" - e in quanto trattamento della contraddizione - non solo viene ipostatizzata a dismisura, ma viene anche assunta in modo del tutto acritico (ancora una volta, come i situazionisti) come identità positiva immediata dell'immanenza e della trascendenza. In tale costituzione si radica anche il concetto di falsa "autonomia", che dagli anni 1980 infuria nell'ideologia del movimento. Pertanto, il soggetto metafisico "classe operaia" è autore, non solo delle sue proprie attività, ma anche di quelle dei suoi oppositori e di tutto il processo storico-sociale in generale; da quel punto in poi, diventa "l'ultima istanza" soggettiva, al posto della "economia" oggettiva - un'interpretazione non meno ridotta ed unidimensionale, solamente invertita. "Siamo tutto", ecco come potrebbe essere formulata la professione di fede di questo meta-soggetto allucinato o, per meglio dire, paranoico; secondo il pensiero di Adorno, si tratta di un insediamento nel punto più alto della logica dell'identità, mentre è allo stesso tempo una deturpazione clownesca della critica marxiana dell'economia politica e un'incredibile espansione del potere della volontà, senza presupposti. In un certo qual modo, la "classe" appare - come in Lukács – come se fosse il soggetto-oggetto della storia, solo che, a differenza di Lukács, viene assunta anche come dissoluzione, più ampia dell'oggettività storico-sociale, nel soggetto senza presupposti. Il fatto che questa "classe operaia" demiurgica, in quanto superuomo della storia, sia in qualche modo incorporata e subordinata al suo stesso principio metafisico della "lotta di classe" (un prestito ottenuto di contrabbando dallo strutturalismo althusseriano), ricorda solo alla lontana il problema della costituzione feticista, per così dire, come "avanzo reificato". Non c'è da stupirsi che Negri, a somiglianza di Althusser, semplicemente dichiari la problematica feticista senz’altro obsoleta, arrivando persino a proclamare "la fine della validità della legge marxiana del valore" (Birkner/Foltin). Quello che rimane, come generalità sociale astratta, è l'eterno "parallelogramma di forze" delle mere relazioni di potere, come nei filosofi della prassi e in Althusser; e, in tal senso, il fluido di un'ontologia del potere, come in Foucault, la quale viene pensata ideologicamente emancipata dalle leggi categoriali della forma della relazione di capitale. Qui va ricordato che il vecchio marxismo del movimento operaio aveva già ridotto la relazione di capitale essenzialmente ad un potere giuridico-politico della "classe capitalista", determinata solo sociologicamente, sul soggetto ontologico del lavoro (in quanto "proprietà privata dei mezzi di produzione" ed "appropriazione del plusvalore" ecc.). Anche qui la famosa "svolta copernicana" dell'operaismo ha messo un punto finale alla teoria dell'azione, quando il concetto foucaltiano del potere è stato trasferito direttamente alla relazione di capitale, che in Foucault era diventata semplicemente senza alcun interesse: una comprensione che avveniva non sulla linea di Marx, ma su quella di Heidegger. Da molto tempo, il vecchio politicismo e "statalismo" marxista preparava questa dissoluzione, nel contesto della comprensione positivista dell'economia politica; a partire dalla concezione socialdemocratica del "capitalismo organizzato", creata da Hilferding nel periodo fra le due guerre, lo Stato non appariva più come fattore "relativamente non-autonomo" della riproduzione capitalista, ma come "sovrano" complessivo delle categorie, con un illimitato potere di comando. La teoria dello "statalismo integrale" e della supposta eliminazione della sfera della circolazione - idea creata da Horkheimer, sotto l'impressione dello stalinismo e dello "Stato pianificato" nazional-socialista - andava anch’essa nella stessa direzione; seppure implicitamente frustrata dall'insistenza di Adorno sulla tematica della "falsa oggettivazione" e sulla problematica del feticcio. Sebbene lo Stato regolatore keynesiano del dopoguerra non fosse niente di più che un debole riflesso di questo statalismo e doveva ben presto esaurirsi nella nuova dinamica del mercato mondiale, il politicismo di sinistra continuò in tale interpretazione ideologica, fino alla completa separazione dalla critica dell'economia politica. Nel momento in cui l'operaismo comincia ad alimentare questa corrente con l'ontologia heideggeriana del potere di Foucault, lo Stato aveva cominciato ad emergere totalmente in quanto espressione diretta del dominio del "potere", e non già come "sovrano" assoluto sulle categorie della riproduzione, ma come pura volontà del "soggetto" capitalista contro le "lotte operaie" e mosso da queste, quindi al di là di ogni oggettivazione feticistica.
Per Negri, con questo, lo Stato, sotto l'ipotesi della dissoluzione della relazione di capitale nella lotta immediata del "soggetto contro soggetto", smetteva di essere "regolatore interno", passando quindi ad affermare che "la sua funzione consiste nel sostituire la relazione automatica del capitale" (Negri, 1977). Il "soggetto automatico" sparisce e sparisce, perciò, anche la possibile critica di tale soggetto. Secondo Negri, "valorizzazione capitalista", «riproduzione del capitale, circolazione e realizzazione tendono ad identificarsi nella categoria del dominio politico» (id.); il capitalismo non sarebbe altro che una forma di "dominio diretto (!) del sistema statale", ed anche una "valorizzazione politica" (id.). Sparisce anche il concetto marxiano di crisi: « L'analisi della relazione tra sviluppo e crisi...si trasforma - senza residui di illusioni oggettiviste - nei concetti di una relazione interamente politica » (Negri, 1972). Nell'evoluzione che ne consegue, le crisi, per l'operaismo, sono solo «mezzi specifici della lotta di classe che partono dall'alto» (Biorkner/Foltin); la crisi economica mondiale del 1929 viene intesa, in una percezione che arriva ad essere grottesca, come «la risposta tardiva alla Rivoluzione russa dell'Ottobre del 1917 e alle lotte di classe degli anni '20» (id.), ossia, come funzione delle "lotte operaie" e come reazione a tali lotte che, si suppone, da sempre si sono posizionate «contro la relazione di capitale, portandolo ad una situazione di crisi» (Negri, 1977). Come per il giovane Claus Offe, la crisi appare come mera espressione dello scontro fra interessi di volontà soggettive. Di conseguenza, anche l'operaismo scioglie completamente, nell'elaborazione teorica sulle "lotte operaie" e la radicalizzazione, il postulato della "unità fra teoria e prassi" a priori, invece di metterlo in discussione. La teoria viene ridotta ad "analisi operaia", "scienza operaia" o "analisi militante" ridotta sociologicamente, che riflette eternamente, oppure pondera in modo riflessivo, i "cicli di lotte" e la "ricomposizione del proletariato", dove il risultante è la riconfigurazione del capitalismo, senza essere ancora in grado di sviluppare nessun concetto di rottura della relazione sociale di base, "all'interno" delle cui categorie avvengono le "lotte". Così, finiti i vecchi dibattiti sulla trasformazione oggettivista della teoria della struttura, il concetto di "superamento" del capitalismo viene reso totalmente vuoto e finisce per essere solo un'espressione sprovvista di contenuto. Dalle "lotte", che avrebbero potuto durare ancora mille anni, doveva venire qualche cosa; il "soggetto" ontologico avrebbe avuto bisogno solamente di farsi valere quanto bastava, quando invece nella realtà rimaneva annodato alle sue condizioni costitutive. In questo modo, la riflessione teorica rimane ancora legata, a parte il marxismo occidentale, alla routine dell'eterno trattamento della contraddizione, e degradata (più di una volta con un riferimento a Foucault) alla mera condizione di "mezzo e strumento di lavoro", in quanto "parte dell'organizzazione di classe" (Birkner/Foltin) nella "controprassi" immanente immediata. Con ciò, anche l'operaismo deduce, come "ragione strumentale", il carattere della riflessione critica suppostamente radicale, smentendo così, involontariamente, la sua critica superficiale della "legalità". Se, con la teoria dell'azione, l'operaismo ha dissolto le categorie storicamente specifiche del capitalismo in quanto tale - comprese le categorie economiche - nel soggetto e nell'ontologia (heideggeriane) del potere di Foucault, a questo punto rimane solo fin da subito - al contrario di Foucault e della sua atomizzazione della critica in "critiche locali", e a somiglianza del marxismo occidentale - il soggetto metafisico "di classe", come unico riferimento di tutta la società; cosa che viene inizialmente formulata alla maniera del marxismo di partito e in stretto legame con i tentativi di fondazione dei partiti. Tuttavia, nel processo della terza rivoluzione industriale, l'obsolescenza di questo vecchio meta-soggetto non poteva più passare inosservata. Attraverso diversi passi intermedi, nei quali l'ideologia operaista si perde il paradigma della produzione di fabbrica per ricadere nelle diverse "sfere sociali", essa finisce per trasformarsi gradualmente. La "adozione delle teorie post-strutturaliste", dentro le quali si possono citare tanto Foucault che Deleuze/Guattari, integra da allora l'ontologia generale del potere, anche attraverso una particolarizzazione ed una frammentazione del soggetto di classe, un tempo inteso come "unitario".
Il "post-operaismo", d'ora in poi così chiamato, non superando il vecchio paradigma della lotta di classe nel senso della critica del feticismo - ma solo disperdendosi in una pluralità superficiale di "situazioni sociali" immediate, e cominciando a pavoneggiarsi parlando di "ineludibile molteplicità di soggetti" - arriva, da un lato, all'atomizzazione foucaultiana della critica, la quale, dall'altro lato, continua sotto la cappa di un concetto della logica d'identità: nella loro disconnessione empirica (dove la connessione reale rimane, irriflessivamente, la relazione di scissione-valore e la concorrenza universale), le "soggettività" sociali indistintamente incorporate dovrebbero essere connesse, in maniera puramente esterna, nel nuovo meta-soggetto astorico e diffuso della cosiddetta moltitudine. Che siano migranti africani in cerca di possibilità capitalistiche di "lavoro" che affogano nel Mediterraneo, che siano prestatori d'opera di un servizio di "lavoro affettivo" con un sorriso forzato sulle labbra, che sia la "boheme digitale" del capitalismo via Internet, che siano salariati che difendono neo-nazionalisticamente la loro esistenza nell'industria delle armi, o la clientela del caudillismo basato sul petrolio di uno Chavez: sono già tutti sempre parte integrante della "moltitudine in lotta". Ed ora, dall'altro lato non si trova più lo Stato (nazionale), ma un Impero globale con un carattere ugualmente diffuso, dal momento che il nuovo "Imperialismo globale ideale" non viene analizzato nella dialettica di crisi tra Stato nazionale e globalizzazione capitalista nel corso della terza rivoluzione industriale, ma sorge immediatamente come espressione globale diretta dell'ontologia del potere. Partendo da questa posizione, la critica dell'ideologia, e anche perfino la teoria dell'ideologia positivista, diventano totalmente impossibili, come in Foucault, giacché smette di esistere un riferimento alla costituzione sociale, che si trasforma in una pluralità di meri atti di volontà, i quali hanno come sfondo l'ontologia del potere. Ciò nonostante, quando tale "molteplicità" empirica delle "soggettività", diversamente che in Foucault, torna ad essere sottomessa ad una connessione - all'espressione vuota di moltitudine, nella logica dell'identità - si rendono possibili incorporazioni non solo sociali, ma anche incorporazioni del tutto arbitrarie dal punto di vista del contenuto ideologico, compresi i soggetti islamici assassini. Non esiste più alcun criterio di distinzione dei contenuti. Tutto quello che si agita e che si muove, viene "accettato" quasi senza distinzione: anche gli antisemiti "critico-sociali" sono, nel caso ci sia qualche dubbio, figli della grande madre moltitudine! Nella mancanza di contenuto del concetto di moltitudine, si estingue ogni e qualsiasi differenziazione. In quest'assurda logica additiva, cosciente ed esplicitamente anti-dialettica, è irrilevante se il barbaro attentato terrorista dell'11 settembre sia stato perpetrato dalla parte islamica integrante la moltitudine o se (secondo la teoria della cospirazione) si è trattato della "reazione" dell'Impero, che avrebbe distrutto egli stesso le torri gemelle, come "risposta" alle gloriose "lotte": ora è la moltitudine stessa che sempre fa tutto e che provoca "tutto". "Siamo tutto" - il meta-soggetto allucinatamente destoricizzato diventa, nella sua molteplicità, definitivamente paranoico. Se l'operaismo ha trasformato le categorie della critica dell'economia politica nella mera soggettività della "lotta di classe", ed ha concluso la svolta nella teoria dell'azione, il post-operaismo continua su questa base ad "annodare" la teoria ad una prassi prestabilita, fino al completo disarmo davanti alle ideologie assassine, che sorgono nella multipla "diversità" delle "soggettività" di crisi. In questo processo, il vero punto cruciale è costituito dal ripudio esplicito del concetto di feticcio, che lo minaccia, come ultimo "fantasma di Marx", dopo la dissoluzione del contesto categoriale della riproduzione capitalista nella metafisica dell'intenzionalità. Dare il colpo di grazia, in questo scandalo, è stato l'obiettivo che si è assunto un'altra variante del post-operaismo, che ha come rappresentante soprattutto John Holloway. Nel suo libro "Cambiare il mondo senza prendere il potere" (2002), l'autore, in primo luogo, mette in contrasto, ancora una volta, per ricapitolare, la connessione marxista tradizionale della metafisica della legalità (oggettivismo), la conquista del potere politico e la pianificazione statale, contro la metafisica dell'intenzionalità dell'ideologia di movimento. Ciò nonostante, diversamente dal post-operaismo di Negri, l'autore fa uso del concetto marxiano di feticismo, come determinazione essenziale delle relazioni capitalistiche, e tenta di riformulare questo stesso concetto post-operaisticamente; e ricorrendo precisamente ad Adorno. Nell'argomentazione di Halloway, lo sviluppo del concetto di feticcio compie un percorso peculiare. Da un lato, così come fa tutto l'operaismo, estendendo il concetto tradizionale marxista di capitale nella teoria dell'azione, parte dal dominio giuridico-politico diretto dei soggetti capitalisti: «Questo è il capitale: l'affermazione del comando sugli altri sulla base della 'proprietà' di fatto e, di conseguenza, dei mezzi di produzione, è dal presupposto della condizione di fare che si comanda» (Holloway). In maniera molto proudhoniana, si parla di "furto" che viene perpetrato contro il lavoratori e le lavoratrici. D'altra parte, quasi in un solo respiro, egli constata in modo lapidario l'oggettivazione feticista in senso marxiano: «Nella società capitalistica, il soggetto non è il capitalista... Il soggetto è il valore» (id.). Entrambe le affermazioni rimangono senza interruzione e senza alcuna mediazione. Similmente ai filosofi della prassi, Holloway lavora con un concetto ontologico astorico del "fare" (sociale), il cui "flusso creativo" è stato permanentemente rotto nel capitalismo per il "potere strumentale". Questo "fare creativo" costantemente invocato si fonde, in principio, con il concetto di "lavoro", che in fin dei conti è fuori dalla determinazione della relazione feticista. Il feticcio della merce appare nel senso completamente tronco del marxismo del movimento operaio, come mero oscuramento dell'origine della formazione del valore nel lavoro perpetuo: "La merce assume una vita propria, nella quale si estingue la sua origine sociale nel lavoro umano". Come avviene in Negri & Co., Holloway tiene conto dell'ontologia del lavoro in maniera esitante. Ne consegue una formulazione dell'opposizione sociale che segue del tutto la comprensione giuridico-politica (poi, la comprensione dell'ontologia del potere) dell'ideologia della lotta di classe: "Il potere strumentale rompe il mutuo riconoscimento: coloro sui quali si esercita il potere non vengono riconosciuti". Involontariamente, Holloway fa allusione alla "lotta per il riconoscimento" nelle categorie capitalistiche, una lotta storicamente già senza più ragione di essere ed esaurita da molto tempo, la quale precisamente ha interrotto la percezione e la critica della costituzione capitalistica. La definizione deficitaria che Holloway dà del concetto di feticcio, continua un'ideologia positiva del soggetto che segue ugualmente lo sviluppo generale che va dal "soggetto oggettivo della classe" del marxismo di partito fino al soggetto puro, e alla fine frammentato, dell'ideologia di movimento. La critica del soggetto dello strutturalismo, insufficiente e inseguente un oggettivismo meramente particolarizzato, per una volta non viene superata dalla critica della costituzione feticista, ma viene semplicemente suddivisa, cercando di ottenere la "salvezza del soggetto"; in realtà essa lo comprendeva già, ma era stata coniata solo per il concetto borghese di soggetto, in quanto "identità" con il "potere strumentale", ed il soggetto non coincide con esso: «Se si identifica il soggetto borghese con la soggettività nel suo complesso, cioè, nel modo assassino (!), che butta via il bambino insieme all'acqua sporca". Ma cos'è che dovrebbe essere questa "soggettività nel suo complesso»? Holloway contrappone al soggetto costituito nella forma della modernità, un soggetto "esistenziale" che suppone giaccia in qualche modo "in basso", il quale appare al posto della "classe", ossia, una sorta di ontologia del soggetto con un conio più heideggeriano. Così, anche la "forma soggetto" viene esclusa dal concetto di feticcio; non stupisce che l'approccio di Holloway, basato sull'ontologia del lavoro del soggetto, rimanga nell'orizzonte androcentricamente universalista, e che la scissione sessuale a livello concettuale del "valore" (di conseguenza anche il capitalismo come patriarcato produttore di merci) sia per lui impensabile. La relazione capitalistica fra i sessi viene continuamente nascosta nei contenuti ed appare solo genericamente per mezzo del “femminile” usato come correttezza politica grammaticale, come un'appendice senza importanza. In questa linea di pensiero, il concetto di feticcio non solo rimane androcentricamente universalista; ma non richiede neanche un'analisi del contesto della forma feticista e delle sue leggi di movimento negativamente oggettivate, nel senso del "soggetto automatico" di Marx, che Holloway cerca accuratamente di evitare di tematizzare. Una volta che è stata abolita la mediazione fra oggettivazione ed intenzionalità, esattamente come nel resto del (post-)operaismo, il discorso delle "forme feticizzate, alienate, che definiscono il capitalismo", che tuttavia è un discorso elevato , rimane del tutto vuoto ed indeterminato. Da dov'è che si potevano vedere queste "forme alienate"? Erano state immaginate da "schizofrenici", provenivano dalla volontà di appropriazione dei soggetti non costituiti del dominio, o era il fatto che il soggetto "esistenziale"-ontologico dell'autenticità in qualche modo aveva ingannato sé stesso, in una sorta di incidente sul lavoro storico? Quando Holloway formula la critica tipicamente con il postulato per cui dovremmo "liberarci dall'incantesimo della strega" (vuoi vedere che sono le donne, le colpevoli di tutto?), con questo dimostra solo la sua completa mancanza di idee riguardo alla costituzione feticista, che in quanto tale non gli suscita alcun interesse.
Il "feticcio", qualunque cosa esso sia, rimane un'espressione vuota. In fondo, si tratta di un'altra cosa: secondo lui, l'oggettività negativa non dev'essere analizzata criticamente con la finalità del suo superamento storico, ma semmai "eliminata con un colpo di magia". Per questo viene ora strumentalizzata la critica che Adorno faceva della logica dell'identità e del "pensiero identificatore". In Adorno, la logica dell'identità, che viola ogni contenuto ed è negativamente "definitrice", deriva epistemologicamente dalla forma feticista del valore (ho già fatto riferimento alla riduzione ad ideologia della circolazione, che lì si verifica). Con una sorta di stratagemma ingegnoso, Holloway cerca ora di applicare la critica della logica dell'identità alla propria connessione costituente della forma: l'oggettività negativa, a sua volta, non dovrebbe essere "identificata" come tale, giacché questo sarebbe un "approccio dettato da rigido feticismo", una "feticizzazione del feticismo". In realtà, si tratta qui di "natura del feticismo in contraddizione con sé stesso". L'auto-contraddizione nel processo del capitalismo non viene percepita come tale all'interno della costituzione feticista (né, di conseguenza, all'interno della logica d'identità), ma, invece, viene divisa, da un lato, nella "forma alienata" e, dall'altro, nell'auto-negazione di questa, che è suppostamente immediata e si apre di per sé in modo emancipatore. Dopo aver "aperto", in questo modo, il concetto di feticcio per mezzo di riduzioni concettuali, Holloway prosegue nell'imbastardimento e nella retroflessione affermativa della critica adorniana della logica d'identità, volgendola contro ogni e qualsiasi "separazione fra la costituzione e l'esistenza": «La forma del valore, la forma del denaro, la forma del capitale, la forma dello Stato ecc. non non sono stabilite una volta per tutte dl principio del capitalismo. Al contrario, sono messe costantemente in discussione (!), sono costantemente contestate (!) come forme di relazioni sociali...». La costituzione storica del capitalismo, dal XVI al XIX secolo, è stata realmente una lotta di imposizione permeata da numerose rotture, che però ha portato nei due ultimi secoli ad un processo di interiorizzazione, nel quale la costituzione feticista moderna si è ancorata come "seconda natura" . Con falsa immediatezza, Holloway stabilisce un corto circuito fra la sofferenza incessante di questa socializzazione negativa e la "contestazione" suppostamente permanente della stessa, come funzione della mera "esistenza" nelle sue forme. Il fatto di collocare la "costituzione" storicamente "combattuta" ad un livello immediatamente identico a quello della "esistenza quotidiana" (di per sé sempre supposta come "resistente") si è imposto nel capitalismo, da molto tempo e fino ad oggi, allo stesso modo che la "esperienza (...) della feticizzazione e della defeticizzazione" - questa è una definizione al sommo grado della logica d'identità. Pertanto, nella misura in cui le categorie capitalistiche sono "intese come categorie in aperto ed ininterrotto oggetto di lotta", Holloway equipara lo strato profondo della costituzione a ciascun movimento superficiale attuale (per esempio, le trasformazioni istituzionali), ossia, equipara l'interpretazione reale e il permanente trattamento delle contraddizioni immanentemente capitalistiche, con la "trasformazione del mondo"; in un contesto del quale non ha la minima idea. Si illude con la lotta per l'interpretazione reale, come se fosse proprio un "essere in lotta" delle categorie stesse, cosa che, evidentemente, non è così. E' quello che vediamo anche nei suoi esempi abbastanza sciocchi: "Il valore, come forma nella quale ci relazioniamo reciprocamente", afferma Holloway, sarebbe già stato messo "in questione", "ogni volta che un bambino prende una caramella in un negozio senza rendersi conto che deve dare dei soldi in cambio, ogni volta che dei lavoratori si rifiutano di accettare che il mercato imponga che il loro luogo di lavoro debba essere chiuso o che loro debbano perdere il posto...". Né la socializzazione dei bambini dentro la forma del valore, né, tanto meno, la "lotta per i posti di lavoro" hanno minimamente a che vedere con la critica categoriale. Come per i filosofi della prassi, si interpreta o si suppone illusoriamente l'eterno trattamento della contraddizione come il "totalmente differente", le categorie non-superate che, dovendo rappresentare immediatamente sempre il loro proprio contrario, potrebbero essere arbitrariamente "ridefinite": "il denaro", afferma Holloway, "è (!) la devastante battaglia della monetarizzazione e dell'anti-monetarizzazione". Una volta che Holloway equipara, nella logica dell'identità, l'auto-mediazione contraddittoria della relazione feticistica con una contraddizione suppostamente in costante latenza contro le categorie di tale relazione, egli finisce per eliminare anche la mediazione della critica radicale, che sola può costituirsi in un contro-processo storico, a partire dall'esperienza di sofferenza. Per Holloway, in una sorta di concetto heideggeriano di "esistenza" come "resistenza diretta", "quotidianamente", e a qualsiasi ora, la "defeticizzazione" gira l'angolo in una "enorme tempesta di imprevedibilità". E' chiaro che questo può solo accadere perché Holloway, nonostante la dichiarazione, costantemente ripetuta, per cui non c'è alcun "soggetto innocente", in realtà presuppone, come osservato in precedenza, un soggetto-"esistenza" ontologico (che cela a malapena la sua mascolinità) nascosto "sotto" le categorie, e promettendo la sua "ricostruzione della soggettività perduta". Nella misura in cui "l'esistenza" nel capitalismo deve, di per sé, sempre portare con sé una "defeticizzazione", tanto più Halloway disarma la critica nei confronti delle ideologizzazioni assassine che emergono dal trattamento della contraddizione "esistenziale"; seguendo qui, totalmente, la linea del rimanente (post-)operaismo. "Lo sviluppo attuale del capitalismo", afferma Holloway quasi alla fine del suo saggio, "è tanto terrificante da provocare una risposta terrorista [...], risposta che, essendo abbastanza comprensibile (!), riproduce semplicemente i rapporti di forza che cerca di distruggere (!). Eppure è questo il punto di partenza (!), e non il rifiuto deliberato del capitalismo come forma di organizzazione (!)". Critica radicale e terrorismo islamico o d'altro tipo, emancipazione e barbarie sono già quasi identici nel "grido del no" esistenziale (come si evince dalle continue metafore vuote di Holloway), cosa che non può essere nascosta in alcun modo per mezzo di formulazioni-alibi.
Holloway mette un punto finale, ora davvero l'ultimo, nel lungo processo di trasformazione della teoria dell'azione, così come è stato realizzato dai filosofi della prassi, passando per l'offuscamento post-strutturalista delle categorie capitalistiche fino alla sua soggettivizzazione operaistica, soggettivizzando esistenzialmente lo stesso concetto di feticcio finora respinto. Con questo egli non rompe, come pretende, il vecchio dualismo della metafisica della legalità e della metafisica dell'intenzionalità, che designa, nelle sue parole, come dualismo delle "leggi oggettive" e delle "lotte sovversive", o del "determinismo e volontarismo", scaccia invece l'ultimo "fantasma di Marx" per mezzo di un volontarismo ideologicamente radicalizzato nella "esistenza" immediata. In questo modo, Holloway fornisce alla coscienza incolta del movimento una vera e propria teoria dell'ostilità verso la teoria, una volta che, oltrepassando il rimanente (post-)operaismo, smette di legare il pensiero teorico al trattamento della contraddizione immanente, ma degrada immediatamente la "parte di espressione della nostra esistenza quotidiana come lotta". Per Holloway, la teoria può essere già solo "riflessione diretta (!) della (e non 'sopra la') esperienza". In questo empirismo della "esistenza", "la conoscenza in cerca di" è, di per sé, "semplicemente l'altra faccia del potere strumentale". In realtà, anche qui rimane nella ragione strumentale, perché la riflessione non è più nemmeno manipolata da una finalità sociale immanente, ma è per così dire immediata. Anche l'altezza di volo di una gallina viene considerata una "ascesa" riprovevole, e la fatica del concetto, che non può coincidere con una "esistenza" trovata, rimane alla mercé della denuncia, in quanto pretesa suppostamente arrogante di "onniscienza". Così si chiude anche la "riflessione sopra" la stessa costituzione sociale, proibendo all'elaborazione teorica qualsiasi distanza.
- Robert Kurz - Tredicesimo capitolo di "Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde - Il problema della prassi, come evergreen di una critica tronca del capitalismo, e la storia delle sinistre -
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