«Chi non ha sentito leggere Gogol’ non conosce fino in fondo le sue opere.»
Uno dei più grandi scrittori russi dell’Ottocento, Nikolaj Gogol’, raccontato nella vita privata, sempre curiosa, inaspettata e a tal punto originale che è rimasta sempre difficile da spiegare con i comuni parametri. La raccontano a brani le persone più diverse, medici, contesse, attori, letterati o semplici ammiratori entrati in contatto con lui. Molto spesso in viaggio all’estero, non di rado spiantato, Gogol’ ha vissuto per lunghi periodi anche a Roma, dove ha scritto Le anime morte, capolavoro tra i capolavori, e che non ha saputo più continuare, con momenti di disperazione e vero delirio, anche religioso, tormentato alla fine pure dal diavolo. Una biografia di prima mano, come fossero foto a sorpresa, quando uno non sa di essere visto; molte testimonianze sono inedite in italiano; il tutto curato da Giovanni Maccari che ha scelto, tradotto e spiegato chi sono gli autori che narrano, in un’introduzione generale al libro e ai singoli brani.
(dal risvolto di copertina di: "Nikolaj Gogol’ nei ricordi di chi l’ha conosciuto", Quodlibet. A cura di Giovanni Maccari pagg. 464 €19)
Ti presento Gogol’
- di Michele Mari -
«In tutta la sua figura c’era qualcosa di legato, di compresso, di chiuso come un pugno. Nessuno slancio, nessun segno d’apertura. Gettava invece qua e là delle occhiate quasi oblique, sfuggenti senza mai guardare dritto negli occhi chi gli stava di fronte» (Berg); «la mattina si lavava a fatica il viso e le mani, portava sempre la biancheria sporca e un abito tutto impiastricciato. Nelle tasche dei calzoni aveva immancabilmente una provvista di dolci di ogni tipo» (Ljubic-Romanovic); mangiava «con straordinaria voracità, curvandosi a tal punto che i suoi lunghi capelli cadevano nel piatto» (Annenkov); scriveva «girando fra le dita delle pallottole di pane bianco che a suo dire lo aiutavano a concentrarsi. Un amico aveva raccolto un mucchio intero di queste pallottole e le conservava con venerazione» (ancora Berg); eccetera. Le bizzarrie del personaggio, le sue flagranti contraddizioni, enfatizzate e moltiplicate da una pletora di testimonianze spesso discordanti, hanno fatto sì che le raccolte di aneddoti relativi a Nikolaj Gogol’ costituiscano, nella bibliografia del grande scrittore, un genere particolarmente frequentato già a partire da metà Ottocento. Ultimo titolo in ordine di tempo, Nikolaj Gogol’ nei ricordi di chi l’ha conosciuto, allestito da Giovanni Maccari con una competenza e una passione degne delle curatele russe di Tommaso Landolfi.
Pur tenendosi lontano dagli opposti estremi dell’agiografia e della denigrazione, questa antologia sceglie di rispettare le regole di un genere che privilegia la vita rispetto alle opere: in questo modo corre consapevolmente e gioiosamente il rischio del pettegolezzo biografico, quello in cui, malgrado tutto, risiede l’interesse di un libro peraltro turpe come Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi di Antonio Ranieri. Al pari di Leopardi, Gogol’ era gracile e malaticcio, goffo e trascurato, sordido nel vestire e a detta di molti «ripugnante», sfuggente, furtivo, ipocondriaco. Ma tutto questo, scrive Maccari, non gli impediva «di coltivare un amor proprio tirannico che lo portava a elaborare progetti colossali e a concepirsi come un essere separato». Mi viene da pensare che questa scissione non sia estranea al surrealismo fantastico di chi ha incentrato un racconto sul distacco di un naso dalla faccia del proprietario (per la cronaca, stando a Panaev, il suo naso era «lungo, incavato e adunco come il becco di un rapace»): in ogni caso deriva da qui il leggendario istrionismo di Gogol’, il suo amore per i travestimenti, la ricerca quasi programmatica di un provocatorio cinismo, la fiducia nella sostanzialità comica dell’universo. E se fosse vero ciò che l’antologia suggerisce, e cioè che Gogol’ non sia esistito tanto in sé e per sé quanto nelle apparenze e nelle messinscene, significherebbe che il suo progetto di sottrazione è perfettamente riuscito.
Uno che lo conosceva bene come Aksakov (sua la testimonianza più lunga), pur non facendogli sconti intuisce che sotto quella maschera indisponente e quella subdola inaffidabilità si nascondeva una vocazione comica rabdomantica, come una forma di conoscenza e, di fatto, uno straordinario regalo ai suoi interlocutori: «Ho avuto modo innumerevoli volte di constatare come le stesse cose che raccontate da Gogol’ facevano scompisciare gli ascoltatori, ripetute da me o da chiunque altro non producevano alcun effetto». Analogamente, Panaev trova Gogol’ maleducato e artefatto, ma appena gli sente leggere qualche pagina delle Anime morte si sente pervaso da «brividi di piacere» (e così un po’ tutti, ad esempio Pogodin: «Ma come leggeva? È impossibile anche solo immaginarlo. Nessuno si muoveva, tutti restavano come incatenati ai loro posti. L’incanto della lettura era talmente forte che capitava che il pubblico restasse immobile, quasi avesse paura di respirare liberamente»). Le stesse Anime morte, pensa Aksakov, sarebbero state scritte per esorcizzare (o digerire) l’orrore della società russa, «spaventosa accozzaglia di mostri umani»: parole che sembrano scritte per il Pasticciaccio di Gadda, un altro grande nevrotico capace di suscitare ilarità dalla bruttura e dal dolore. Ma possiamo anche retrocedere nel tempo, e imbatterci in più di una figura (nel senso auerbachiano del termine) gogoliana: per esempio in artisti saturnini ed «astratti» come Piero di Cosimo o Pontormo, o come Leonardo, la cui favolosa capacità di astrarsi dal mondo torna in questa bellissima testimonianza italiana, per una volta di Gogol’ in persona: «Quando abitavo in Italia mi è capitato questo fatto: un giorno di luglio ero in viaggio fra i paesi di Genzano e Albano. Lungo la strada, su un’altura, c’è una trattoria polverosa con un biliardo nella sala principale, dove le palle rotolano costantemente . In quel periodo stavo scrivendo il primo volume delle Anime morte e non mi separavo mai dal quaderno. Non so perché, nel momento in cui entrai in trattoria mi venne voglia di scrivere. Presi un tavolo, mi sedetti in un angolo, tirai fuori la borsa e nonostante il rotolio delle palle sul biliardo, il baccano incredibile, il via vai del cameriere, il fumo, il caldo soffocante, sprofondai in una specie di sogno e scrissi un capitolo intero senza alzare la testa. Quelle pagine mi sembrano ancora fra le più ispirate che ho mai scritto».
- Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 20/8/2022 -
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