Una delle cose che più colpiscono il lettore quando entra in contatto con "I detective selvaggi" di Roberto Bolaño è l'intensità di ogni capitolo, soprattutto di quelli che danno conto delle testimonianze nella lunga sezione «I detective selvaggi (1976-1996)»: assai spesso le scene, le battute, i personaggi, i drammi si accumulano e si lanciano come in successione, in molteplici direzioni, senza che vi sia, alla fine, alcun tipo di qualcosa che assomigli a una rigorosa ricucitura che organizzi tutto questo sforzo; per l'esattezza, tutto questo è dell'ordine del carnevalesco (e della polifonia) di Bakhtin, o dello spossessamento di Bataille: qualcosa che non può essere spiegato né dalla somma delle sue parti, né da un qualche sistema pragmatico, o concatenato, di spiegazione narrativa.
Tornando a Jacobo Urenda che parla di Arturo Belano, c'è una frase che serve a miniaturizzare (Agamben: «la miniaturizzazione è la cifra della storia») l'ethos del romanzo: «La sua storia era abbastanza incoerente.» Un'incoerenza, tuttavia, anch'essa non omogenea o sistemica, e che non può essere presa come se fosse un possibile filo organizzativo; anche l'incoerenza è una maschera, una risorsa, un dispositivo della dinamica narrativa (parlando con Urenda, Belano commenta, dicendo che una volta ha fatto un duello, co un tal Iñaki Echavarne, e che è una rivisitazione di quella che è anche una delle scene più celebri del romanzo, la quale verrà poi raccontata nelle testimonianze di Susana Puig, di Guillem Piña e di Jaume Planells).
Già alla fine del suo racconto, Urenda racconta del momento in cui si sveglia e vede Belano insieme a un altro personaggio, che insieme fumano e chiacchierano. E dice: «Trascrivere quello che dissero significa in qualche modo alterare ciò che provai mentre li ascoltavo.» Ed è la cifra di un altro asse fondamentale del romanzo: lo scarto tra parola e scrittura, tra testimonianza e registrazione, tra idea e realizzazione (l'ambivalenza del romanzo, il quale, simultaneamente, "registra" idee, resoconti e sentimenti di una generazione, usando il medesimo gesto che li "distorce"). Il dilemma di Urenda di fronte alla possibilità di registrare il discorso di Belano, costituisce una miniaturizzazione del dilemma molto più grande relativo a quell'entità - Bolaño? - che imposta il romanzo "I detective selvaggi" sul "tema-rinuncia" (nel senso ambiguo dato da Walter Benjamin quando in «Die Aufgabe des Überstzers» [“Il compito del traduttore”] parla di registrare le testimonianze per iscritto.
fonte: Um túnel no fim da luz
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