Tutti i racconti di uno dei «cattivi maestri» della letteratura e della cultura italiane
Considerato da Borges e Calvino, come pure da Caillois, un maestro del fantastico, Papini si impose all’attenzione del pubblico come narratore fin dalla gioventù, con l’uscita delle raccolte Il tragico quotidiano (1906) e Il pilota cieco (1907). Da allora continuò a coltivare l’arte del racconto fino agli anni Cinquanta, proponendo uno stile limpido e allucinato al tempo stesso, che insinua l’ombra del mistero tra le pieghe della cronaca quotidiana. Dopo oltre sessant’anni di assenza dalle librerie, il lettore ritrova finalmente in un unico volume tutte le raccolte narrative di Papini e i suoi racconti dispersi. Ne emerge il profilo di un narratore di statura europea, da riscoprire anche per la sua capacità di prefigurare le inquietudini del mondo attuale.
L’edizione è accompagnata da un ampio saggio introduttivo, da un apparato ricco di dettagli storici e filologici, e da due brillanti interventi d’autore che rendono omaggio al grande scrittore oggi in gran parte dimenticato.
(dal risvolto di copertina di: Giovanni Papini, I Racconti. A cura di Raoul Bruni. Clichy. Pag. 720. €25)
Giovanni Papini. Lo scrittore indegno
- di Piero Melati -
Più che un eretico irriducibile, fu bastian contrario al modo del suo amato Michelangelo. Quando nel 1949, sette anni prima di morire, scrisse la biografia del genio rinascimentale, era già stato futurista in rotta con i suoi sodali, interventista poi pentito nella prima guerra mondiale, invischiato col fascismo dopo la conversione religiosa del 1921, che lo porterà a scrivere una Storia di Cristo, tanto irriverente da valergli quasi la scomunica. Ma fu nel lavoro su Michelangelo che il fiorentino Giovanni Papini decise di tagliare i ponti. Nel libro sullo scultore, dapprima, sposerà l’audace tesi michelangiolesca sulla Pietà, che vede nel celebre capolavoro esposto in San Pietro una Madonna raffigurata con il volto addirittura più giovane del Cristo suo figlio. Michelangelo, che per questo venne criticato in vita, aveva a suo tempo spento le accuse citando il canto XXXIII del Paradiso dantesco, dove San Bernardo definisce Maria “Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio”. Papini, dopo averlo condiviso, ne approfitta per rincarare la dose: in quella innaturale e giovane bellezza di Maria c’è “il riflesso di un mondo che non è ancora il cielo ma non è più la terra”. Insomma, prima che una “voragine” dottrinale teologica, la Pietà è una epifania del paradiso, una fessura apertasi verso altre dimensioni sconosciute. Così il vecchio ex futurista, alla velocità degli amati treni-icone della sopraggiunta modernità (un mito condiviso con Palazzeschi all’inizio del ’900) e con la stessa furia con cui Marinetti definì la guerra “igiene del mondo”, si tuffa in un volo magico come un mistico delle lettere. Se in punto di morte, tormentato da una sclerosi laterale amiotrofica, riceverà l’estrema unzione da terziario francescano, col nome di frà Bonaventura, in vita sceglierà la carta dell’opposizione totale del pensiero (decretando, per esempio, la morte della filosofia, usando Nietzsche come arma, salvo poi abbattere anche il maestro) e in letteratura (dismesse le scorribande futuriste e ripresosi dall’assalto della sua abitazione fiorentina dopo la Liberazione, da parte della brigata partigiana Garibaldi) esalterà il genere fantastico inteso come mistica.
Borges, c’è sempre Borges a redarguirci, ogni volta che dimentichiamo quanto in Italia — sin dai tempi di Ariosto e Tasso, e poi di Verga e Pirandello — questo “genere” fantastico, codificato in letteratura da Todorov e Callois, spinse anche Calvino (che certo non ne fu immune) a curarne una imbattuta antologia. E su Papini ci fu ancora Borges a dedicargli il secondo volume del 1975 della sua Biblioteca di Babele edita da Franco Maria Ricci, dal titolo Lo specchio che fugge. Lo scrittore argentino rivendicò l’oblio della memoria, a proposito di quei racconti di Papini mal tradotti e che avrebbe letto in gioventù, ma poi dimenticati, dai quali ricaverà comunque il celebre sospetto borgesiano: può essere il mondo — e nel mondo noi — niente altro che i sogni di un sognatore segreto che ci sogna? Il primo ad azzardare questa ipotesi fu proprio Papini. Oggi, per chi vuole riscoprirlo, viene in soccorso il volume I racconti edito da Clichy, a cura di Raoul Bruni. A partire da “L’ultima visita del gentiluomo malato”, inserito dallo stesso Borges nella Antologia della letteratura fantastica del 1940, e poi i quattro racconti dalla raccolta Il tragico quotidiano del 1906 e i sei dal Pilota cieco del 1907, selezionati per la Biblioteca di Babele. Roger Caillois, in proposito, ha più prosaicamente sostenuto che nel suo Rovine secolari Borges non avrebbe fatto altro che copiare Papini, in quel modo “intimo, nuovo e triste” con cui lo scrittore toscano ripropose la questione della “vita come sogno”. Sono stati citati Hoffmann e Poe, per cavare dal nido di ragno dell’autore i suoi stessi natali. Ma forse vi si celano piuttosto due filosofi, Berkeley e Schopenhauer. Il primo, teologo e vescovo anglicano irlandese, che con Locke e Hume costituisce la trimurti degli empiristi britannici, già nel Seicento ci confondeva sostenendo che noi, proprio come in un sogno, non possiamo essere certi delle nostre percezioni. “Le cose esistono anche quando nessuno le vede?” si chiedeva il vescovo filosofo. E Schopenhauer, dal canto suo, ha versato nell’alambicco di Papini quel tocco di metafisica orientale che spinse il nostro scrittore verso sponde teosofico-esoteriche.
A ben vedere, può darsi che Papini non abbia mai abbandonato le ispirazioni di quel movimento, il futurismo, che agli inizi del secolo scorso battezzò l’avvento della velocità come il “messia tecnico” di un nuovo mondo. La rottura con le culture precedenti (“Uccidiamo il chiaro di luna!” recitava il primo manifesto), la necessità di “strappare le anime dai solchi della vita comune”, “l’audacia di essere pazzi”, il motto di Rimbaud (“cambiare la vita”) da allora coniugato in una infinità di desinenze, compreso l’antiparlamentarismo, il culto della violenza, il generico anarchismo. Tutti atteggiamenti che a Papini valsero, tra l’altro, gli strali dal carcere di Antonio Gramsci. Si possono riproporre, per lui, gli stessi interrogativi che per Cèline, Malaparte o Ezra Pound. “Come vedete, cari amici, il mio spiritaccio scompaginatore non vuol lasciarmi in pace. Ma chissà che io non scriva apposta per mettervi una pulce nell’orecchio” annotò nel febbraio del 1914 nella rivista Lacerba. Subito dopo i suoi stessi compari d’avventura lo bollarono per la prima volta come “indegno”. Da allora è rimasto sempre tale.
- Piero Melati - Pubblicato su Robinson del 13/8/2022 -
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