Ricevo da Giordano Sivini, che ringrazio, un interessantissimo articolo sulla Cina odierna, in cui - a partire da "Il capitale mondo" di Robert Kurz, e dal libro sulla Cina dello stesso Sivini ("La costituzione materiale della Cina") - viene svolta un'ampia riflessione sulla "modernizzazione ritardataria" e sulle possibilità di crisi e di sviluppo che interessano alcuni di questi paesi orientali. Il preambolo all'articolo, chiarisce l'intento per cui, come sempre, è finalizzato a una miglior comprensione della realtà che, a partire dalle categorie marxiane e dall'analisi di Kurz, ci possa permettere di muoverci meglio in quella che è la crisi finale sistemica del capitale nella sua totalità.
Robert Kurz, il Capitale Mondo e la Cina
- di Giuliana Commisso e Giordano Sivini -
La pubblicazione in italiano di "Il capitale mondo" (Meltemi 2022) induce a riflettere sulle ragioni teoriche che avevano spinto Kurz nel 2005 a dare una interpretazione liquidatoria della Cina e delle sue prospettive di crescita. «La Cina - aveva scritto - è l’esempio più eclatante di come la periferia del mercato mondiale sia vincolata al capitalismo transnazionale di crisi generato dalla terza rivoluzione industriale e dal collasso, a esso legato, di tutti i progetti di sviluppo basati sullo Stato nazionale o sull’economia nazionale. In tutti i casi abbiamo a che fare con zone insulari più o meno vaste, in cui lo stock di capitale delle imprese transnazionali ha creato una peculiare struttura rizomatica all’interno di un territorio che ha totalmente perso ogni capacità autonoma di riproduzione capitalistica» (p. 219).
Al tempo della pubblicazione di Das Weltkapital (2005) la storia già consentiva di cogliere le specificità della Repubblica Popolare Cinese e le sue potenzialità di crescita rispetto agli altri paesi che avevano cercato di affrancarsi dall’imperialismo. Questo è documentato in "La costituzione materiale della Cina" (Giordano Sivini, Asterios, 2022). Per tentare di capire il diverso assunto di Kurz, è opportuno ripercorrere per sommi capi le tappe teoriche e storiche della sua esposizione, distinguendo, pur nella loro connessione, tra capitali individuali, capitale complessivo, contesti in cui essi operano - dalle economie nazionali a quella globale - e Stati come entità ad essi funzionali, per concludere con il capitale fittizio. Il capitalismo "con caratteristiche cinesi" andrà riletto con riferimento a questo quadro teorico.
La teoria di Kurz nel Capitale Mondo
«I singoli capitali aziendali (e quindi anche la somma di queste imprese poiché il capitale esiste solo al plurale) si comportano – scrive Kurz - in maniera caratteristicamente autoreferenziale ossia incosciente nei confronti di ogni totalità sociale; ma affinché il capitalismo sia possibile come rapporto sociale, esso richiede una tale realtà sociale» (p. 50). Non può fare a meno di riferirsi ad attività storicamente determinate, quelle dello Stato e dell’economia nazionale, necessarie per la riproduzione sociale che non è in grado di crearsi direttamente, poiché non si integrano nel sistema del "lavoro astratto".
Lo Stato deve provvedere ai suoi presupposti economici, operando in una prospettiva sociale complessiva che non può essere fatta propria dal singolo capitale. Deve considerare la popolazione come materiale della valorizzazione capitalistica; creare e gestire attività infrastrutturali impossibili o difficili da organizzare nella forma di imprese capitalistiche; organizzare il denaro come medium sociale, garantendolo nella forma della moneta nazionale; intervenire nelle crisi utilizzando i proventi delle imposte e accendendo crediti finanziari.
Al suo interno, il capitalismo assume la forma dell’economia nazionale, luogo che non è solo una sfera di scambio (mercato nazionale incluso quello del lavoro) ma condizioni infrastrutturali e presupposti della produzione di plusvalore, sia sul piano della composizione tecnica del capitale (sviluppo della scienza e della tecnologia per modificare la natura dei mezzi di produzione e la qualità della forza lavoro), sia sul piano della composizione di valore (rapporto tra plusvalore e capitale variabile come misura della crescita). Costituiscono lo spazio in cui si realizza la dinamica competitiva tra i capitali individuali, definendo quello che Kurz chiama la media sociale standard di produttività, che dipende dal tasso generale di plusvalore.
Lo standard si determina entro un quadro comune a tutti i capitali in competizione. Ad un primo livello è lo spazio di ogni economia nazionale, definito dall’insieme specifico dei fattori che influiscono sulla produttività. Al livello superiore è lo spazio del sistema mondiale, dove però, secondo Kurz, lo standard produttivo è definito dai paesi industriali avanzati, indipendentemente dalla condizione degli altri partecipanti al mercato mondiale. «Questo significa - aggiunge Kurz - che nei paesi capitalisticamente arretrati molta parte del dispendio di energia umana sotto forma di lavoro non viene riconosciuta come creatrice di valore» (p. 60). Il rapporto generale tra paesi avanzati e arretrati è tuttavia meglio definito, ricordando che il lavoro è validato come creatore di valore soltanto quando questo valore viene realizzato nella merce che lo incorpora. Infatti, dice Kurz, “una impresa sottoproduttiva (e analogamente un’economia nazionale sottoproduttiva) potrebbe tenere il passo solo facendo leva sulla bassa remunerazione e sull’immiserimento dei suoi lavoratori ma, anche in questo caso, solo temporaneamente” (p. 59).
Fin dall'inizio del capitalismo, e a prescindere dai limiti storici che incontra, la razionalità aziendale dei singoli capitali si impone come legge dell'aumento della produttività del lavoro vivo, che in una data quantità di tempo crea plusvalore incorporato nella merce realizzata come denaro. Fin quando il capitale denaro non riesce ad appropriarsi realmente del processo lavorativo l’aumento del plusvalore procede attraverso grandezze assolute: quantità aggiuntive di tempo di lavoro per ottenere quantità aggiuntive di merce e denaro. L’aumento del plusvalore assoluto è condizionato dall’aumento del capitale variabile, del numero di lavoratori e/o del tempo di lavoro.
Il passaggio alla dinamica del plusvalore relativo consente di aumentare il plusvalore riducendo il valore del capitale variabile. Da questo momento in poi la variabile determinante la competizione tra capitali individuali non è la quantità di plusvalore assoluto ma il tasso di plusvalore relativo che riflette un aumento della produttività, così che il valore creato in una unità di tempo si distribuisca su una quantità maggiore di merci, ciascuna con un contenuto inferiore di valore. Questo abbassa il valore della riproduzione della forza lavoro e del capitale variabile da essa estratto.
L’altezza del tasso generale di plusvalore dipende dal livello specifico di scientifizzazione del processo produttivo, e la sua applicazione da parte dei capitali determina la differenza del valore unitario delle loro merci. In generale, nella circolazione i capitali più produttivi realizzano nella forma denaro il valore incorporato nelle proprie merci che hanno singolarmente valori di scambio più bassi, mentre il valore creato dai capitali meno produttivi, incorporato in merci il cui valore non transita nel denaro, risulta improduttivo.
«La mediazione sociale della sostanza di valore - scrive Kurz - non si verifica certo sul livello della produzione di merce del singolo capitale, per quanto solo lì si abbia una reale formazione di valore, ma in virtù della concorrenza nella circolazione sul mercato. In pratica il singolo capitale non “realizza” mai la massa di valore che ha generato nel corso del proprio processo produttivo ma sempre una parte determinata della massa di valore della società complessiva attraverso la mediazione della concorrenza» (p.267).
In questo processo, da un lato l’aumento del tasso generale di plusvalore, rendendo più produttivo il lavoro vivo. ne riduce la massa mobilizzata, e dall’altro rende improduttivo il lavoro incorporato nella massa di merce che non transita nella forma denaro. Si fa così evidente, a livello del capitale complessivo, la tendenza logicamente contraddittoria tra il valore d’uso (lavoro vivo sempre più produttivo di valore) e il valore di scambio (capitale variabile sempre più svalorizzato) della forza lavoro. Questa tendenza emerge storicamente fin dalla prima rivoluzione industriale, ma viene compensata dalla segmentazione del capitale complessivo in economie nazionali, dall’intervento dello Stato per superare crisi contingenti di sovra produzione, e, in generale, dal suo ricorso al capitale produttivo di interesse per rilanciare gli investimenti.
L’economia nazionale è lo spazio in cui si manifesta materialmente la contraddizione tra il valore di scambio e il valore d’uso della forza lavoro, che la rende eccedente. Il regime di gold standard, con l’ancoramento all’oro del valore di scambio del denaro, agisce a lungo come dispositivo di sicurezza. Le valute nazionali possono rapportarsi reciprocamente come unità di conto del loro complessivo valore prodotto dal lavoro astratto. Quello reso improduttivo dall’aumento del tasso di plusvalore può essere recuperato con l’auto espansione della produzione. Altrimenti può intervenire lo Stato che lo rimette in moto sviluppando settori di attività non direttamente produttivi ma necessari per la riproduzione del capitale complessivo, oppure innescando processi di valorizzazione a basso valore aggiunto, che, pur contraddicendo la logica della competitività dei capitali individuali, compensano il deficit.
Questo avviene anche dopo l’abbandono del gold standard, fin quando lo Stato riesce a riequilibrare, all’interno dell’economia nazionale, il rapporto tra plusvalore e capitale variabile rastrellando con la tassazione il risparmio accumulato da imprese e famiglie, basandosi dunque ancora sul valore disponibile al proprio interno. Con la terza rivoluzione industriale il tasso di plusvalore relativo continua ad agire senza che le economie nazionali possano contare su alcun dispositivo in grado di assicurare un rapporto coerente tra valore e denaro. «L’effetto della
liberazione della forza-lavoro nella terza rivoluzione industriale microelettronica non si limita a sovracompensare ampiamente l’assorbimento supplementare di forza-lavoro necessario alle nuove tecnologie ma erode, per la prima volta nella storia del capitalismo, la produzione di plusvalore relativo» (p. 272).
Si dissolve allora il nesso competitivo che trattiene nei loro spazi i capitali individuali, liberando quelli capaci di realizzare tassi di plusvalore più alti. Lo Stato non si fonda più su un’economia nazionale coerente di cui rappresenta l’istanza sintetica, ma ha a che fare con un’economia aziendale dispersa nello spazio transnazionale. «A paragone con la sua funzione di un tempo, sostiene Kurz, appare come svuotato sul piano economico: si è trasformato in un flaccido involucro politico, che si affloscia su sé stesso sul piano socio–economico» (p. 126).
Nel tramonto del fordismo i capitali più produttivi, organizzati come multinazionali, avevano già iniziato ad oltrepassare lo spazio delle economie nazionali, delocalizzando le strutture produttive dove era possibile alzare il tasso di plusvalore. Nella terza rivoluzione industriale ridefiniscono invece strutturalmente il processo aziendale di creazione del valore come insieme concatenato di fasi che vengono esternalizzate nello spazio globale nella forma di imprese autonome. La riorganizzazione riduce le economie nazionali a spazi di consumo finale. Gli Stati si danno da fare per trattenere a sé i pezzi delle catene di valore che entrano nei loro territori, ciascuno «costretto a contare sempre meno sulla sua autorità politica, sul suo potere di comando (“sovranità”), non essendo più in grado di impartire ordini a un capitale aziendale, volatile, sfuggente, impossibile da incatenare a un determinato territorio, costretto anzi a sedurre mediante costi vantaggiosi e altre lusinghe» (p. 163).
«La qualità storicamente nuova della globalizzazione o della transnazionalizzazione dell’economia aziendale -scrive Kurz - consiste proprio nell’esportazione di capitale stimolata dalla crisi, sotto forma di investimenti per la razionalizzazione, che si differenzia dalla mera internazionalizzazione delle multinazionali degli anni Sessanta o Settanta» (p. 263). «La vecchia economia aziendale di un tempo, intesa come unità spaziale, organizzativa, istituzionale e giuridica, si sgretola, si decompone e si disperde. Adesso questa economia aziendale è solo un corpo virtuale, le cui parti smembrate conducono tutte un’autonoma esistenza spettrale mentre la loro riaggregazione e coesione si verifica solo attraverso l’unità del capitale monetario astratto (in ultima analisi al livello dei mercati finanziari)» (p. 109).
«Adesso - scrive Kurz - lo sviluppo sproporzionato delle forze produttive non si accompagna più a un’intensificazione dello sfruttamento redditizio della forza-lavoro, vale a dire a un’avanzata dell’accumulazione capitalistica reale. Viceversa, lo scatenamento delle forze produttive, ulteriormente accelerato nella sua essenza dalla microelettronica, si muove parallelamente alla riduzione su scala mondiale della forza-lavoro e si realizza nel contesto di una spaventosa contrazione del capitale globale reale, vale a dire della “sostanza” di forza-lavoro utilizzata» (p. 103). Si avvia a conclusione la produzione del plusvalore, in crisi dalla fine dell’espansione fordista e progressivamente privata di ogni dispositivo di recupero.
L’innalzamento ‘sproporzionato’ del tasso di plusvalore viene realizzato dai capitali individuali con il crescente ricorso all’indebitamento, e sopravvivono solo quelli che superano il livello di produttività che consente di far fronte agli interessi sul debito. Il capitale produttivo di interessi che eroga il credito si espande, contribuendo alla progressiva concentrazione dei capitali forti. Nello stesso tempo espropria quelli che sono incapaci di far fronte ai debiti. Arriva a dimensioni tali da non trovare impiego nell’economia reale se non in questa funzione espropriativa, che realizza agendo attraverso i titoli finanziari creati con la cessione dei crediti. Assume così la forma di capitale finanziario, da un lato espropriativo nell’economia reale, dall’altra speculativo nella finanza.
Kurz si interessa poco delle conseguenze sociali della funzione espropriativa, la quale trasforma il valore già incorporato nel capitale mondo in denaro, dal momento che questo finisce col concentrarsi nelle attività speculative che si sviluppano intorno alla circolazione dei titoli di credito. Citando Marx, ricorda che egli attribuisce alla sovra accumulazione di capitale l’origine del distacco del capitale produttivo di interesse dalla funzione produttiva, senza la quale diventa capitale privo di sostanza, capitale fittizio, e, in definitiva, privo di esistenza. «Nei periodi di prosperità - scrive Kurz - gli investimenti reali di capitale monetario nelle capacità produttive, compresa la forza-lavoro, superano le possibilità di assorbimento della produzione di valore, compreso il potere d’acquisto delle masse; nascono quindi capacità eccedenti (non relativamente ai bisogni quanto piuttosto ai criteri sistemici del capitalismo) e, di conseguenza, gli utili realizzati, ma impossibili da reinvestire nell’economia reale, rifluiscono ancora una volta come capitale monetario nei mercati finanziari, dove generano bolle speculative destinate a scoppiare conducendo a una svalorizzazione generale del capitale in quanto l’accumulazione di capitale, in ultima analisi, non può troncare davvero ogni legame con la sostanza di lavoro/massa di valore reale. In un ciclo normale la dimensione di questo processo è marginale. Ma alla fine di un grande ciclo strutturale questo fenomeno assume invece dimensioni clamorose» (p. 270). A queste dimensioni clamorose ha contribuito il capitale produttivo di interessi e quello fittizio che gli Stati indebitandosi hanno creato per supplire alle crisi del capitale. Secondo Kurz, sul piano della sostanza del valore non esiste più alcuna differenza tra l’economia reale e le bolle speculative; «una quota in continua crescita della presunta produzione reale è già, in realtà, un elemento del processo speculativo» (p. 289). La speculazione sui titoli può infatti alimentare all’interno dei mercati globali bolle di liquidità monetaria fittizia che producono investimenti nelle economie nazionali, i quali restano in movimento fino al disvelamento dell’inconsistenza delle basi della liquidità.
Le carenze analitiche di Kurz sulla Cina
Nel contesto del Capitale Mondo la Cina è considerata la forma paradigmatica che il sistema dei capitali individuali assume con la transnazionalizzazione che blocca ogni possibilità di crescita basata sull’economia nazionale. Lo Stato cinese abdica alle sue funzioni, concedendo ogni sorta di facilitazioni ai capitali transnazionali che approdano alle sue zone speciali, le quali «si espandono a una velocità vertiginosa mentre simultaneamente la coesione dell’economia nazionale va in frantumi» (p. 220). Viene meno ogni prospettiva di quell’industrializzazione che avrebbe potuto consentire ai paesi periferici di superare la posizione di fornitori di materie prime. «Non c’è un territorio che si “industrializza” ma solo specifiche attività economiche deterritorializzate, la cui coesione non viene realizzata dalla Cina o dagli altri paesi in quanto economie nazionali, neppure da regioni sub - nazionali, ma esclusivamente da specifiche funzioni aziendali« (p. 154), scrive Kurz.
La ristrutturazione transnazionale delle imprese dei paesi avanzati, in particolare gli Stati Uniti, alimenta questo processo. La Cina diventa la piattaforma di reti di produzione globali e di esportazione delle loro merci. Ma - precisa Kurz - non si può parlare di produzione orientata alle esportazioni, perché questo concetto implica una relazione tra economie nazionali, mentre ciò che avviene riguarda solo le relazioni interne al sistema aziendale transnazionale. «Produzioniindustriali insulari e isole high-tech esistono nell’ex Terzo Mondo (anche se concentrate in un numero relativamente esiguo di paesi) ma solo come settori separati dell’attività economica molecolarizzata delle compagnie transnazionali, non più come elementi di uno sviluppo sociale autonomo complessivo. È ciò che accade in Cina, in parte dell’India, nel Sud-est asiatico, in pochi centri dell’America Latina e nell’Europa orientale» (p. 155). In un articolo del gennaio 2007 Kurz ha ribadito questa posizione. «Sono soprattutto le grandi aziende americane, giapponesi ed europee a utilizzare la Cina come snodo della catena transnazionale di creazione del valore, grazie alle sue strutture a basso salario, e da lì rifornire gli Stati Uniti e altri mercati. Gli investimenti corrispondenti sono quindi limitati alle zone economiche di esportazione; e non hanno nulla a che fare con il tradizionale economico nazionale di Cina, India ecc.». La regressione si misura persino rispetto alle già limitate possibilità di sviluppo di un tempo, quando «i ritardatari storici, data la loro insufficiente base di accumulazione, sono come presi in una morsa: non sono in grado di produrre in prima persona e in misura congrua le strutture tecnologico-scientifiche e la logistica di cui necessita la produzione, né possiedono il capitale sufficiente per acquistarle all’estero. Per venire a capo del dilemma possono contare solo su due fattori, da una parte sull’isolamento relativo mantenuto da provvedimenti statali, dall’altra sull’impiego di materiale umano a buon mercato, da scatenare nella battaglia per il livello di produttività sul mercato mondiale» (p. 61).
In realtà, la Repubblica Popolare Cinese si discosta dal novero dei paesi che avevano cercato di liberarsi dall’imperialismo per tentare di imboccare strade di sviluppo capitalistico. Nei primi trent’anni sotto la leadership di Mao aveva puntato a realizzare alti livelli di coesione sociale dando priorità alla diffusione di rapporti sociali di produzione improntati al socialismo egalitario rispetto allo sviluppo delle forze produttive. Aveva puntato a migliorare l’utilizzazione delle risorse storicamente appropriate dai contadini, che costituivano il 95 per cento della popolazione. Aveva socializzato i mezzi di produzione, facendoli oggetto di appropriazione da parte dei produttori associati organizzati dal partito comunista. Aveva creato un’economia nazionale e un’area di accumulazione nazionale basata sull’espansione della ricchezza materiale di valori d’uso, attribuendo all’accumulazione monetaria funzioni limitate agli scambi e alla protezione del paese. L’imprenditorialità transnazionale che invade la Cina, descritta da Kurz, arriva in un contesto economico diverso da quello maoista, in cui lo sviluppo delle forze produttive è diventato prioritario e modifica i rapporti sociali secondo i dettami del mercato, ma sulla coesione sociale continua ad agire il partito comunista, che conta 50 milioni di iscritti e controlla i mezzi di produzione nel frattempo statizzati. L’afflusso di imprese multinazionali e transnazionali è - come scrive Kurz - fortemente stimolato dal governo centrale e dai governi locali, ma nello stesso tempo viene controllato, governato e finalizzato alla protezione delle industrie interne, all’acquisizione di tecnologie produttive, all’occupazione dei contadini, e alla esportazione, foriera di valute forti.
Di fronte alle minacce indotte dalla crisi finanziaria del sudest asiatico, che la Cina sperimenta e supera alla fine degli anni ‘90, l’economia viene rigidamente chiusa al capitale finanziario speculativo, e tale rimane fino agli anni recenti. Nel paese entrano solo capitali che contribuiscono alla crescita dell’economia reale. Le crisi finanziarie globali non lo toccano, se non per i riflessi sulle catene produttive e sul commercio internazionale. Questo, in sintesi, avviene in Cina prima che Kurz la consideri in termini liquidatori. Con la sua strana disattenzione evita di affrontare i problemi che il capitalismo cinese pone, rimasti anche in seguito quasi estranei alle tematiche della Critica del Valore. Si può provare ad affrontarli a partire dalla teoria che Kurz presenta nel Capitale Mondo.
Il capitale cinese e il capitale fittizio
L’accumulazione monetaria, precondizione per la nascita e lo sviluppo autonomo del capitalismo cinese, si realizza nella fase maoista. La popolazione viene complessivamente disciplinata a produrre per la sussistenza con i mezzi di produzione socializzati e il lavoro associato. Negli anni ’80 e ’90 le leadership comuniste rimuovono i vincoli della collettivizzazione e della pianificazione che impedivano alle forze produttive di svilupparsi. I produttori, privati delle garanzie maoiste per la sussistenza, sono proletarizzati e tenuti in condizioni di elevato sfruttamento, in buona parte legati ai villaggi di origine.
La ricchezza produttiva realizzata dal maoismo viene appropriata dallo Stato. Nella seconda metà degli anni ’90 le imprese statali vengono riorganizzate su basi azionarie per attribuire loro la forma di merce, ma resta determinante il controllo del partito. La terra diventa merce non in quanto proprietà ma in quanto possesso temporaneo. L’insieme d mezzi di produzione viene affrancato dai gravami sociali dell’eredità maoista e dalle inefficienze organizzative e gestionali che ne limitano le capacità produttive.
Deng Xiaoping negli anni ’80 crea le condizioni per la diffusione all’interno della Cina dei rapporti di produzione capitalistici. Zhu Rongji negli anni ’90 ridisegna l’assetto istituzionale, e riorganizza il sistema imprenditoriale per consentire alla Cina di essere in regola con i principi capitalistici dell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla quale viene ammessa alla fine del 2001. Fin dagli anni ’80 le imprese di rilievo strategico vengono selezionate, controllate, raggruppate, finanziate, protette, potenziate tecnologicamente e stimolate a crescere nella competizione. Sono i National Champions, capitali pubblici destinati a diventare competitors sul mercato mondiale. Accanto a questi, controllati dal partito, si sviluppano i capitali privati. Quanto all’organizzazione della produzione, già Kurz rileva che anche tra i capitali cinesi emerge una tendenza alla transnazionalizzazione. I capitali multinazionali e transnazionali che entrano in Cina contribuiscono in maniera significativa alla crescita economica del paese. Si tratta investimenti diretti dall’estero che, nella valutazione di Kurz hanno la consistenza del capitale fittizio; entrando in Cina mettono in moto l’economia reale.
Questo è, a grandi tratti, il capitalismo cinese, descritto - limitatamente alla sua formazione e crescita fino all’entrata nell’OMC - ne La costituzione materiale della Cina. Questo capitalismo si sviluppa e si afferma negli stessi anni in cui la terza rivoluzione industriale sta intaccando drasticamente le capacità riproduttive del capitalismo produttivo di valore, che viene rimpiazzato dal capitalismo fittizio generato nei mercati finanziari globali. Il capitalismo cinese invece si espande nella produzione di valore. Non viene messo in crisi dall’aumento della produttività, e non lascia inattivo il capitale produttivo di interesse, che perciò non trova spazio per trasformarsi in capitale finanziario espropriativo e speculativo. Siamo dunque in presenza di due sistemi capitalistici che seguono percorsi diversi. La leadership cinese ripete convinta che la costruzione di una futura società socialista è il traguardo finale. Il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao costituiscono le basi teoriche non discutibili per avanzare attraverso una quotidiana invenzione della storia, ma il percorso resta indecifrabile e gli scostamenti dalla teoria sono legittimati dal passe-partout delle ‘caratteristiche cinesi’. Nel quadro della teoria di Kurz, possiamo invece ipotizzare una loro convergenza tra i due sistemi capitalistici quando quello cinese incontrerà i limiti che da tempo hanno incontrato le economie nazionali del Capitale Mondo. Ma è anche possibile che già prima di allora la Cina diventi oggetto delle attività espropriative e speculative dal capitale fittizio globalizzato, se venissero rimosse le barriere al suo ingresso nel paese. Ci sono forti pressioni in questo senso da banche, operatori di borsa e manager di grandi capitali costretti a rinunciare a redditizie operazioni. Per il momento il capitalismo cinese si riproduce in modo efficiente con un alto tasso di plusvalore basato sul controllo della popolazione per contenere il valore unitario del capitale variabile, e sul contenimento degli effetti negativi sulla massa di forza lavoro espandendo la produzione e investendo sulle infrastrutture.
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