Il tempo è onnipresente e ineluttabile. Innanzitutto è ciò che non può essere afferrato. Ma pur essendo l'inafferrabile, gli uomini non hanno mai smesso di cercare di padroneggiarlo. Innumerevoli sono state le strategie messe in campo per comprendere il tempo, o per illudersi di riuscirci, dall'antichità classica ai giorni nostri, passando per il famoso paradosso di Agostino: finché nessuno ti chiede che cos'è il tempo, lo sai; ma appena te lo chiedono, non lo sai più. In questa ricostruzione storica e filosofica di uno dei misteri più affascinanti della realtà, François Hartog distingue diverse epoche: dai vari modi che i greci avevano di definire il tempo, alla particolare concezione cristiana di un presente compreso tra la nascita di Cristo e giudizio finale, dall'affiorare del tempo moderno, frutto del progresso, alle incertezze contemporanee. Oggi il futuro si è fatto incerto ed è sorta una nuova era, l'Antropocene, interamente governata dalla forza dell'uomo. Che ne è oggi dei vecchi modi di intendere chronos? Quali nuove strategie, irretiti come siamo nella dimensione evanescente e costrittiva del presentismo, dovremmo concepire per affrontare quello che ci appare un incommensurabile e minaccioso futuro?
(dal risvolto di coperrtina di: FRANÇOIS HARTOG, "Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo". EINAUDI. Pagine 328, €25)
Il nostro tempo non è più lo stesso
- di Mauro Bonazzi -
Il Tempo. Agostino sapeva che cos'è ma non sapeva come parlarne: «Se nessuno me lo chiede lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede non lo so» . Per Aristotele, come poi per Newton, invece esiste, e scorre inesorabile e silenzioso. O forse è soltanto un illusione, come sostengono molti fisici contemporanei? Di sicuro, spiegava Martin Heidegger, esso è decisivo per comprendere la nostra condizione, perché noi siamo esseri immersi nel tempo. Possiamo immaginarci senza? Il tempo rimane un enigma di cui non possiamo fare a meno, perché ci aiuta a dare forma alle nostre esperienze, individuali e collettive. Per questo dobbiamo continuare a pensarlo, per mettere a fuoco la nostra condizione. Così fa François Hartog, partendo dal cristianesimo nel libro Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo (Einaudi). Perché è la prospettiva cristiana quella che ancora domina la nostra concezione del tempo. All’inizio ci sono naturalmente i Greci, con una concezione sdoppiata del tempo, di chrónos, parola dall’etimologia sconosciuta, spesso confusa con Kronos, una divinità arcaica che divorava i suoi figli per evitare di essere detronizzato (da qui nasce l’immagine del tempo che tutto inghiotte). L’opposizione iniziale è quella tra un tempo originario, eterno, che si ripete ciclicamente identico a sé stesso, e un tempo umano, corruttibile. Di questa opposizione si approprieranno i cristiani, grazie alla mediazione di Agostino: da una parte Dio — il presente eterno di colui che è sempre identico a sé stesso («Io sono colui che sono») — dall’altro la corsa degli anni e il paradosso di un tempo che esiste solo nella misura in cui non esiste: il passato non è più, il futuro non ancora, il presente qualcosa che non c’è, ma sempre passa.
Ancora più decisiva è però un’altra coppia, in cui al solito chrónos degli uomini, che scorre e si misura, si oppone il kairós, il tempo opportuno, il momento propizio. È una distinzione decisiva, qualitativa e non quantitativa. Diversamente da chrónos, kairós è il tempo dell’istante e dell’inatteso. Kairós per i Greci è l’istante che cambia tutto, dividendo in un prima e in un poi, aprendo a nuove possibilità. Per i cristiani kairós è l’avvento del Cristo che sconvolge tutto e prepara la fine dei tempi, il giorno del giudizio (krísis, in greco): «È arrivato il momento (kairós), il regno di Dio s’avvicina, convertitevi», si legge nel Vangelo di Marco. Il tempo diventa storia, la storia del cammino degli esseri umani verso la meta. È una concezione che dominerà per secoli. Non un tempo che ritorna ciclicamente su sé stesso (il tempo dei Greci), non un tempo inteso come una sequenza di catastrofi che si ripetono sempre uguali sulla falsariga di un evento originario (il tempo degli Ebrei, a partire dall’esilio babilonese del 587 a.C.), ma un tempo lineare, che procede, progredisce, verso una destinazione, la fine dei tempi in cui tutto si riunirà. Non c’è bisogno di credere nel Dio cristiano per ritrovarsi nello stesso schema.
Il sogno dell’avvento di una società perfetta — sia essa il risultato di una rivoluzione politica (il comunismo) o dei progressi tecnologici (le moderne utopie tecnologiche e digitali) — che finalmente porterà gli uomini fuori dalle tempeste della storia in un regno di pace e benessere si modella secondo lo stesso schema. Il tempo dei moderni, come quello dei primi cristiani, è dominato dal futuro, risponde alle medesime logiche apocalittiche, in cui l’antico è sempre inverato dal nuovo, il passato dal presente in attesa del compimento futuro. «Dimentico quel che sta alle mie spalle», scrive Paolo, «mi slancio verso quello che mi sta davanti». Gesù, del resto, era stato molto più duro: «Lasciate che i morti seppelliscano i morti». È una chiamata alle armi, che richiede una conversione totale (il momento del kairós, della scelta decisiva), per prepararsi al momento definitivo (krísis, il giorno del giudizio), quando tutto cambierà, quando finalmente il bene e il male verranno divisi e la giustizia trionferà. «La notte è avanzata, il giorno si avvicina» (Pietro). Quella è la meta, la «dimora eterna», scrive Agostino, verso cui siamo in viaggio. O forse in fuga.
La fine dei tempi, però, non arriva, e piano piano la prospettiva cambia. È come in Aspettando Godot di Samuel Beckett: «Vladimiro: Ci impiccheremo domani. A meno che Godot non venga. Estragone: E se viene? Vladimiro: Saremo salvati». E se non viene? Per i cristiani il tempo umano, chrónos, deve risolversi e compiersi nella gloria dell’eternità divina, kairós: la speranza è quella di un’uscita dal tempo, insomma. Ma gli anni corrono, i secoli pure, e il giorno del giudizio si allontana sempre di più, fino a quasi sparire dall’orizzonte delle attese. Chrónos riconquista così il centro della scena, dilatandosi in spazi «interminati» (Leopardi): lo studio della geologia rivela che l’universo e la nostra Terra esistono da miliardi di anni, facendo saltare gli schemi angusti della narrazione biblica. Il passato si estende a dismisura: e il futuro? Dove stiamo andando? Senza più una meta a cui tendere (che non sia un progresso indefinito e inconsistente: inconsistente perché indefinito), il viaggio degli uomini si trasforma in un naufragio. Eccoci nella contemporaneità, il regno del presente. Mentre il passato si è ormai inabissato, e il futuro non ha più nulla da dirci, l’unica cosa che rimane è il presente, «un eterno presente che capire non sai» (come cantavano i Cccp-Fedeli alla linea), dominato da un senso di urgenza, in continua accelerazione, sempre a rischio di girare a vuoto. Fino ad arrivare alla crisi.
Riconsiderando tutto da un’altra prospettiva, in effetti, appare chiaro che questa organizzazione del tempo — questo modo di dare forma alle nostre esperienze — risponde e dipende da un sogno ricorrente: una liberazione dal mondo della natura, il regno dei bisogni e della fatica (i minacciosi «partorirai con dolore» e «con sudore mangerai il pane» rivolti contro Adamo ed Eva, quando sono espulsi dal paradiso). Mosso da questo desiderio, il nostro cammino è stato indubbiamente esaltante, portandoci fuori dalle secche di una vita animale, verso una realtà compiutamente umana. Con un paradosso finale, però, ad attenderci. Il cammino è stato così trionfale che ora rischia di ritorcersi contro di noi. Siamo stati capaci di incidere nelle strutture profonde della realtà che ci circonda — le tracce del nostro intervento (dalla plastica al calcestruzzo) sono destinate a rimanere per millenni, persino a livello geologico — producendo cambiamenti che si stanno rivelando esiziali. L’eterno presente in cui siamo immersi torna a essere, sempre di più, un tempo di crisi, della catastrofe climatica incombente. Una forma rovesciata di kairós, in fondo, che richiederebbe prese di posizione nette, e cambiamenti decisi, tanto a livello individuale quanto a livello collettivo. Non è più il momento di sognare improbabili fughe o liberazioni; molto più urgente sarebbe imparare a convivere su questa Terra, accettando che ci sono limiti per quello che possiamo fare. Non sembra stia succedendo.
- Mauro Bonazzi - Pubblicato su La Lettura del 10/7/2022 -
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