L’euforia liberale seguita al tracollo del comunismo ha completamente travisato la vera natura del socialismo reale e della sua crisi, identificandola con la fine ingloriosa di un’aberrazione storica cui avrebbe dovuto subentrare una nuova era di prosperità da economia di mercato. Ad un quarto di secolo da quegli eventi (e a cento anni esatti dalla Rivoluzione d’ottobre) sappiamo però che le cose sono andate in maniera molto diversa. Il presente volume, pubblicato in Germania nel 1991, si propone di analizzare il crollo del socialismo reale nel contesto di una crisi più ampia del sistema mondiale della merce (alias capitalismo), di seguirne le vicende allo scopo di individuare i lineamenti fondamentali di un processo di crisi che sta iniziando a colpire negli ultimi anni, in maniera convulsa, lo stesso Occidente.
(dal risvolto di copertina di: "Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale" di Robert Kurz, Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea)
L’anticapitalismo degli idioti storici
- di Riccardo Frola -
Il crollo del socialismo reale segnò davvero la fine di un’epoca? Con questa domanda, dall’aspetto docile come un pranzo in famiglia, si apre Il collasso della modernizzazione di Robert Kurz, un libro così spiazzante che sono stati necessari ventisei anni di difficoltosa digestione (il libro uscì in Germania nel 1991), e una crisi economica mondiale –largamente prevista dall’autore – perché qualcuno si convincesse a concedergli finalmente la pubblicazione anche in Italia.
Ventisei anni in cui, quasi di nascosto, le analisi di Kurz si sono nutrite di conferme, sono diventate ingombranti – impossibile ormai non notarle – giganti paradossali: anacronistiche alla nascita, si sono fatte attuali invecchiando; costruite sui rottami della dissoluzione sovietica, sembrano nuove rispetto agli edifici teorici appena costruiti, già pieni di crepe e infiltrazioni; dedotte da un reperto archeologico, la teoria del valore di Marx, che era stato considerato ferro vecchio persino dai marxisti, hanno l’ambizione di spiegare la contemporaneità; pensate infine come un attacco senza precedenti alla modernità capitalista, propongono una definizione di anticapitalismo così stringente, netta, da ridurre l’insieme degli anticapitalisti contemporanei all’insieme vuoto. “Nessuna rivoluzione, da nessuna parte”, recita il titolo di uno degli articoli di Kurz.
Ma torniamo alla questione: la fine del presunto “conflitto sistemico” tra Est e Ovest segnò la fine di un’era? Sì, risponde Kurz. Ma quale era?
Secondo il “florilegio delle citazioni giornalistiche” che si sono accatastate dal 1989 fino ad oggi, si tratterebbe dell’era dell’“economia di stato” dell’Unione Sovietica e delle regioni subordinate. Un’era consegnata alla Storia dalla malizia dei politici e degli imprenditori occidentali. Ma allora, obietta Kurz, perché fra quei trionfatori non ci fu traccia di autocoscienza? Perché le classi dirigenti occidentali furono “colte alla sprovvista dal crollo del loro acerrimo nemico (…) proprio come le gerontocrazie socialiste stesse”?
La verità “balena”, secondo Kurz, dietro il profilo nero di questa cecità condivisa. Est e Ovest procedevano insieme nel buio, prima che l’Est sbattesse per primo contro il crollo, perché entrambi condividevano lo stesso fondamento e la stessa ontologia, l’ontologia della modernità. Est e Ovest hanno rappresentato soltanto, in una determinata fase, i due poli -stato e mercato- che il capitalismo alterna sempre, in una continua oscillazione, per adattarsi alle diverse situazioni storiche e geopolitiche.
La miopia teorica è dunque fondata, secondo Kurz, sull’ontologia che il pensiero economico e quello politico moderno – di qualsiasi colore – sono disposti ad accettare, un’ontologia basata su un’inversione tra relazioni sociali e fatti di natura che ha lo stesso statuto scientifico della scolastica medievale. Banalmente, una peculiarità storica della società moderna viene presentata “come una qualità sovrastorica dell’uomo”. Così il lavoro salariato moderno, impiego di forza-lavoro, energia e materie prime secondo i criteri dell’economia aziendale, diventa una categoria eterna. La merce moderna, “completamente diversa dalla merce delle società premoderne”, il valore economico, il denaro come “cosa astratta” vengono considerati, anche dalla scienza economica, come fatti di natura da cui partire. Robinsonate, avrebbe detto Marx.
Ebbene, proprio gli oggetti definiti da questa ontologia erano il fondamento comune al capitalismo occidentale e al socialismo: per entrambi, esemplarmente, il “lavoro” era il principio supremo e indiscutibile.
Il mercato pianificato dell’Est - che non soltanto non fu mai anticapitalista, ma fu piuttosto un aspetto del sistema della merce nella fase della sua “travolgente ascesa”- non abolì, né mai avrebbe potuto abolire le categorie del salario, del prezzo, del profitto: si limitò ad abolire il meccanismo regolatore della concorrenza. E questo per solide ragioni storiche.
“L’umanità”, diceva Marx, “non si propone se non quei problemi che può risolvere”, e all’indomani della prima guerra mondiale, soprattutto in Russia, non potevano ancora essere risolti i problemi posti dal superamento del capitalismo. All’ordine del giorno c’era, piuttosto, per Kurz, “l’esigenza di un suo ulteriore avanzamento”. “L’alternativa”, per la Russia, “sarebbe stata solo il regresso a forme sociali di tipo agrario, caratterizzate da povertà di bisogni e rozzezza premoderna”. Un’alternativa che i bolscevichi consideravano – al contrario dei fondamentalisti ecologisti di oggi – giustamente demenziale.
Che cosa fu dunque il socialismo reale? Un “fossile”, un regime di transizione brutale, tipico di un paese arcaico, verso la modernità. Un processo non dissimile dall’accumulazione originaria verificatasi in Inghilterra nel periodo precedente alla sua industrializzazione. Una maschera di carattere arrivata in ritardo sulla scena. E nessuna rivoluzione proletaria in occidente, come credeva ingenuamente Trotskji, avrebbe potuto cambiare le cose: la rivoluzione non scoppiò mai in occidente perché i metodi della modernizzazione in ritardo sono inutili, e vengono abbandonati, dove lo sviluppo è già avanzato.
Nel “catalogo sterminato delle opere di Lenin – rileva Kurz – non si trova traccia della critica del valore economico, né della critica del feticismo di Marx”. Ecco perché l’intuizione dei menscevichi, secondo la quale la rivoluzione russa aveva un carattere “oggettivamente borghese”, era corretta “al di là delle loro intenzioni”.
La dissoluzione del socialismo sovietico non fu causata, allora, dai nemici capitalisti, ma “dal drammatico fallimento”, accelerato dal ritardo mai colmato, “dei suoi stessi meccanismi interni”. Gli stessi che minacciano oggi larga parte dell’occidente: gli stessi che impongono alla società, da un lato, un enorme aumento della produttività che porta all’espulsione dei lavoratori dal processo di produzione e, dall’altro, alla dipendenza assoluta del sistema proprio da quel lavoro che la sua stessa logica rende ogni giorno più superfluo. Questo fallimento ha messo oggi, secondo Kurz, l’umanità in grado di “risolvere” il problema del capitalismo. Risolvere non è sempre un vantaggio.
Kurz prevede nel libro un’apocalisse fatta di “umanità superflua” e di barbarie che si è in parte già verificata: “la spartizione della sempre più esigua massa di valore”, scrive, causerà tensioni e operazioni di polizia internazionale, “il fondamentalismo islamico conquisterà il potere” in molti paesi, “e non è affatto da escludere che possa entrare in possesso di ordigni atomici”. “Ben presto non vi sarà più una sola regione della Terra che non sia allo stesso tempo una regione di profughi”.
Ma di una cosa, secondo Kurz, si può essere certi, prima del crollo “la crisi causerà una nuova oscillazione storica dal polo monetarista a quello statalista, anche in occidente”, dove i due poli hanno assunto tradizionalmente la forma dello stato sociale keynesiano e del monetarismo. Si può dare, anche su questo punto, ragione a Kurz?
Le tendenze teoriche più in voga, anche fra i sedicenti “anticapitalisti”, sono incentrate sul ritorno del “primato del politico sull’economia”, questo evergreen della coscienza borghese, come lo definisce Kurz.
La “politica” moderna, che è solo un’anonima gestione statale del denaro creato nel processo di produzione, si dà oggi arie da Soggetto, si imbuca alle feste della storia dove dà del “tu” a tradizioni politiche che non sanno proprio chi sia e fanno finta di non vederla.
«Tutto ciò che fa lo Stato tramite la politica – spiegava già Kurz in un altro suo testo, La fine della politica –, lo deve fare con il mezzo del mercato (…) la sfera politica e statale non può creare autonomamente denaro (…) tutte le sue decisioni, risoluzioni e leggi (…) rimangono completamente inefficaci, se il loro funzionamento non è stato “guadagnato” regolarmente nel processo di mercato». L’autonomia della politica dall’economia è un ossimoro.
Se nei paesi dell’Est, la pianificazione “razionale” imposta da una struttura statalista di comando riuscì soltanto, prima di crollare, a sostituire la concorrenza di mercato con una ridicola “concorrenza verso la dissipazione”, testimoniata dai resoconti dell’epoca: “vengono sperperati il 20% del cemento, un quarto dei prodotti agricoli e metà del legname”, “siccome la produzione di lampadari viene valutata dal loro peso, esso aumenta in maniera non necessaria (…) siccome la stoffa viene misurata secondo la lunghezza, risulta sempre troppo stretta”.
Se il grande “stato razionale”, tutto nelle mani della “politica”, il sogno di Fichte realizzato, si rivelò, dal punto di vista economico, “un fordismo-bonsai (…) il cui simbolo erano (…) le maleodoranti automobili nane dell’industria tedesco-orientale”; da quello antropologico, una squallida caserma da cui orde di deprivati fuggirono, una volta aperte le frontiere verso occidente, soltanto per prendere “d’assalto le edicole delle città di frontiera per saccheggiare riviste pornografiche e scandalistiche”.
Allora i sostenitori del primato del politico sull’economia non sono anticapitalisti, ci dice Kurz, sono solo “idioti storici”.
Ma, allora, chi può definirsi anticapitalista? Soltanto chi rifiuti le basi della struttura sociale: la produzione di merci, il lavoro salariato, il denaro, lo stato, la politica moderna, liberale o populista che sia, il mercato. È una posizione che ha un solo nome: rivoluzione. Ma chi, oggi, tra chi si ritiene anticapitalista, sostiene davvero una posizione del genere?
- Riccardo Frola - Pubblicato l'11 febbraio 2018 su Alfabeta2 -
“Il collasso della modernizzazione” di Robert Kurz
- di Irma Loredana Galgano -
Gli effetti collaterali involontari del moderno «sistema della merce», durante la sua «fase storica ascendente», hanno eclissato per molto tempo «la sua natura negativa». Si è preferito vederne solo gli aspetti positivi al punto che le crisi apparivano, o volevano essere interpretate, come mere «interruzioni nel suo processo di ascesa» e considerate sempre «superabili in linea di principio». A cosa ha condotto questo atteggiamento protratto e diffuso è sotto gli occhi di tutti. Mimesis editore propone quest’anno, nella versione tradotta dal tedesco e curata da Samuele Cerea, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz. Libro uscito per Eichborn Verlag nel 1991 e, per certi versi, terribilmente profetico. Scrive infatti l’autore, ventisei anni fa, che se pure la crisi del sistema della merce non dovesse superare i limiti che ha finora raggiunto, «il subsistema occidentale non potrebbe sopravvivere al collasso globale». In alcune regioni dell’Asia, in Arabia e nel Nordafrica la reislamizzazione si è trasformata «nel surrogato di un’ideologia militante, diretta contro l’Occidente», che così sta alimentando «un becchino di tipo nuovo, privo di obiettivi trascendenti ma pronto a tutto».
Un estremismo che diventa «brodo di coltura per iniziative violente e suicide» che potrebbero diventare, e in realtà lo sono poi diventate, «aggressioni militari disperate su grande scala contro i centri del mercato mondiale». Un fondamentalismo islamico accomunato solo dal nome all’antica cultura islamica premoderna che mostra e ha mostrato per certo tratti barbarici ma che «non sono certamente più barbarici delle pretese che i signori ‘civilizzati’ delle istituzioni finanziarie internazionali avanzano, senza battere ciglio, nei confronti di una parte sempre maggiore dell’umanità». Un saggio, quello di Kurz, che fa rabbrividire il lettore e, al contempo, gli permette di comprendere i motivi reali per cui il filosofo tedesco, «assai poco incline ai compromessi» non poteva che «suscitare forti reazioni di amore e odio» nella comunità intellettuale internazionale, in quella economica e anche nel pubblico raramente incline ad accettare e metabolizzare il catastrofismo insito in alcuni ragionamenti, come quelli portati avanti da Kurz, anche e soprattutto quando corrispondono a realtà e verità.
Il collasso della modernizzazione è fuor di dubbio, come sottolinea Samuele Cerea nell’introduzione al libro, «un’analisi radicale e spietata della società capitalistica», ma lo è altrettanto del socialismo di Stato essendo «la differenza tra le forme dell’economia di mercato e quella dell’economia pianificata solo relativa». La loro base comune è il lavoro o, per meglio dire, «il lavoro astratto, cioè l’attività umana assoggettata all’automovimento del denaro».
Certamente è stato «un grossolano errore interpretare il tracollo storicamente asincrono dei paesi del socialismo di Stato e dei paesi del Terzo mondo come la prova di superiorità dell’Occidente, cioè dell’avanguardia storica del capitalismo globale, e del suo modello». Che poi è esattamente ciò che si voluto credere in tutti questi anni e allora non si può non chiedersi, insieme al curatore, fino a che punto «l’opinione pubblica, gli intellettuali, i media, ma soprattutto l’establishment politico ed economico» siano consapevoli «della catastrofe che incombe su di una società globale che sembra fare acqua da tutte le parti». Per Kurz l’Occidente è stato un «bizzarro trionfatore» frastornato dalla «sua stessa superiorità e dalle conseguenze del proprio trionfo». Questa vanagloria la si può facilmente ritrovare nella mancata oculatezza nell’analisi delle conseguenze della «crisi particolare del sistema perdente» che poteva, e in effetti lo ha fatto, innestare una «crisi globale in grado di minacciare anche il presunto vincitore».
Molto interessante risulta per il lettore la descrizione fatta da Kurz del paradosso insito quanto ignorato delle moderne economie. La produzione non è finalizzata al consumo personale ma a un «mercato anonimo» e il senso del processo non è la soddisfazione delle necessità concrete ma «la metamorfosi del lavoro in denaro (salario o profitto)». E così accade che «l’astratto interesse monetario» spinge ogni produttore verso quei prodotti e quelle forme produttive che gli garantiscono il massimo guadagno, nel modo più rapido e diretto, «a dispetto dei contenuti e delle conseguenze, per quanto deprecabili». Senonché lo stesso produttore «nel suo alter ego di consumatore» manifesta l’interesse precisamente opposto. Insomma, peggio di un cane che morde la sua stessa coda perché la ragione di tutto ciò è solamente il denaro.
Produttori e consumatori «si sfidano l’un l’altro in un confronto perpetuo», con il risultato che «ciascun produttore tende a tutti gli altri delle trappole» in cui tutti e ciascuno «finiscono invariabilmente per cadere a causa dell’universalità del legame sociale». L’Occidente – «che è ormai entrato nella sua fase di crisi» – e l’Est – «che si è convertito a discepolo della logica capitalistica della concorrenza dopo il suo tracollo» – alla fine «si ingannano vicendevolmente». L’Est guarda di continuo al «passato splendore» mentre l’Occidente attende il suo definitivo tracollo per poter fruire di «nuovi mercati che però esistono solo nella sua fantasia» e lo stesso accade per le «centinaia di milioni di individui in Africa». Ciò che tutti sembrano dimenticare e che Kurz invece sottolinea è che «necessità concrete e aspirazioni umane non possono generare nessun mercato», ossia alcun potere di acquisto produttivo. Quest’ultimo infatti nasce solo dallo «sfruttamento di forza-lavoro umana in forma aziendale» e per giunta a un livello «conforme allo standard mondiale di produttività».
Il Terzo mondo, che ha già quasi «ultimato la sua fase di collasso», rappresenta per Kurz «il modello autentico della modernizzazione di recupero». Le strutture interne della modernizzazione del Terzo mondo e quelle dei paesi del socialismo reale «si dimostrano, a posteriori, sorprendentemente affini». Soprattutto se si fa «astrazione dai camuffamenti ideologici e politici». A posteriori sembrano essersene accorti anche «gli istituti di credito internazionali, allineati all’economia di mercato occidentale», come la Banca mondiale o il Fondo Monetario Internazionale (FMI), ovvero «i principali creditori delle economie del collasso». Tuttavia anche qui, come per le nuove riforme di mercato nei paesi dell’Est, «la causa viene scambiata con l’effetto». Il FMI, la Banca mondiale e gli altri grandi creditori occidentali stanno «spingendo da tempo il Terzo mondo verso la destabilizzazione interna, sociale e politica». Cosicché «controreazioni violente, per quanto parossistiche e insensate, saranno inevitabili». La Storia recente e contemporanea ha dimostrato, purtroppo, la veridicità di queste affermazioni. Per la massa crescente degli «esclusi», la «barbarie ufficiale del denaro» appare ancor «più soggettivamente terrificante dell’aperto dominio della mafia».
Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz, nella versione in italiano curata da Samuele Cerea è un saggio da leggere assolutamente.
- Irma Loredana Galgano - Pubblicato su Articolo 21. Liberi di... -
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