Un’analisi originale del politicamente corretto come forma di comunicazione e come riflesso delle profonde trasformazioni all’opera negli ultimi decenni nel contesto delle società occidentali. A partire da una prospettiva originale come quella svedese, e da una serie di situazioni vissute in prima persona, l’antropologo Jonathan Friedman analizza il politicamente corretto come una particolare realtà sociale, e come uno strumento politico nelle mani delle nuove élite. Una realtà sintomatica di un insieme di fenomeni (l’immigrazione, il multiculturalismo, la segregazione sociale, il “declino” dello Stato-nazione, etc.) cruciali da comprendere per preservare uno spazio critico razionale e una sfera pubblica in cui sia ancora possibile discutere differenti interpretazioni della realtà. Una critica arguta del contesto moraleggiante in cui viviamo e della sua pretesa di neutralizzare il dibattito stabilendo ciò di cui si può, e ciò di cui non si deve, parlare.
Jonathan Friedman ha insegnato antropologia sociale alla Lund University, in Svezia, all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e all’University of California di San Diego. A partire dagli anni ‘70, assieme a Kajsa Ekholm-Friedman, è stato uno degli iniziatori dell’antropologia dei sistemi mondiali che ha contribuito a cambiare l’approccio allo studio delle trasformazioni delle forme della vita sociale e culturale, nell’antichità come nelle società contemporanee. Una sua raccolta di saggi, La quotidianità del sistema globale, è apparsa nel 2005.
(dal risvolto di copertina di: Jonathan Friedman, "Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime". Meltemi)
Politicamente corretto
- di Francesca Rigotti -
Vorrei avere la penna e l'estro di Flavio Baroncelli, per scrivere di «politicamente corretto». Vorrei avere il suo acume, la sua leggerezza e la sua ironia per commentare gli argomenti esposti da Jonathan Friedman in un saggio che esce in questi giorni (in lingua originale in un'edizione con copyright dell'autore, PC Worlds. Political Correctness and Rising Elites at the End of Hegemony e contemporaneamente tradotto in lingua italiana da Francesca Nicola e Pietro Zanini e a cura dello stesso, per l'editore Meltemi, col titolo Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime). Flavio Baroncelli era un filosofo intelligente e schietto oltre che un caro amico; insegnava Filosofia morale a Genova e aveva pubblicato nel 1996 presso Donzelli un volumetto sul politicamente corretto (Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del «politically correct»). Baroncelli sarebbe stato perfetto per fustigare col suo stile ironico e la sua scrittura effervescente le grevi e tormentate pagine che l'antropologo nordamericano Jonathan Friedman, che ha vissuto e insegnato in Svezia più di quarant'anni, dedica al politicamente corretto; Flavio però ci ha lasciati undici anni fa e così dovete accontentarvi di me. Aggiungo che il libro di Fredman è stato scritto negli anni novanta e aggiornato con un breve poscritto: esce ora con la motivazione che i fenomeni descritti hanno retto alla prova dei tempi e anzi si sono estesi a molti altri paesi oltre alla gelida e lontana Svezia.
Infanzia, vocazione e prime esperienze del politicamente corretto
Dunque la storia, nella ricostruzione di Friedman, così racconta: figlio di padre postmoderno e di madre costruttivista radicale, il «politicamente corretto» (d'ora in poi p.c.), nacque negli Stati Uniti ma ben presto si trasferì in Svezia proprio nel momento in cui la socialdemocrazia, fino a quel momento dominio dell'egualitarismo e del welfare, cominciava a disgregarsi. Così le élite svedesi decisero di adottare la linea del p.c. e di identificarsi come portatrici di un pensiero postcoloniale con decisi tratti multiculturali in cui i cittadini svedesi – sostiene Friedman – diventavano un gruppo etnico come tanti e l'emigrazione veniva istituzionalizzata quale categoria sociale. A quel punto il linguaggio del p.c., con le infamie e le carenze logiche e argomentative che Friedman gli attribuisce e di cui diremo, diventava il mezzo di soppressione di ogni dibattito basato su razionalità e realtà. Il nuovo eroe della saga del p.c. diventava – sostiene Friedman – il rifugiato (o il profugo o l'immigrato) contro il quale non si poté dire né fare nulla. Questo perché l'ideologia del p.c., che da allora domina in Svezia e che più di recente si sta spostando in tutta l'Unione Europea, afferma che l'immigrazione è fonte di arricchimento culturale e magari anche economico; e dunque il notare che all'occasione essa incrementa commercio illegale di armi, droga e persone, e che per questa e altre ragioni fortunatamente ben più miti può rappresentare un problema, è considerato – sostiene Friedman – razzismo. Anche accettare l'invito di andare a parlare, da accademico, presso organizzazioni sospette di razzismo attira l'accusa di razzismo nei confronti dell'oratore: è quello che accadde alla moglie dell'autore, anch'essa antropologa. Il racconto e la critica di quei fatti, oltre che di altri episodi verificatisi in Svezia negli anni '90, copre la prima parte del libro; la seconda esamina la trasformazione del contesto sociale e la ristrutturazione dei rapporti di classe e delle élite in occidente in relazione all'emergere del nuovo discorso, egemonico – sostiene Friedman – del p.c.
Logica e retorica del politicamente corretto
Per rafforzare la propria struttura l'ideologia del p.c. pensa bene di trovare un sostegno di ordine morale e lo fa incorporando un tipo di cultura della vergogna e della paura. Hai paura e ti vergogni se non aderisci alla cultura politicamente corretta del gruppo egemone, fondata – sostiene Friedman – non sull'argomentazione razionale ma sulla «associazione». Se ben capisco, ciò significa che dal punto di vista logico-argomentativo il discorso del p.c. soffre – sostiene Friedman – del fatto di procedere non legando le accuse al ragionamento razionale ma al pensiero associativo, alla logica della associazione tra fenomeni. Forse con questa terminologia l'autore intende denotare – mi dico – la figura retorica della metonimia. La metonimia infatti collega le parole e le cose per affinità, vicinanza e somiglianza, in quanto risulta «da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo aver mentalmente associato due realtà differenti ma discendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell'una a quella dell'altra» – sostiene l'Enciclopedia Treccani online, non Friedman, il quale però ci fa capire che l'uso della metonimia è tipico del ragionamento del p.c., anzi no, del procedimento bisogna dire, perché il p.c. non ragiona, associa.
Il politicamente corretto e la sua verità
Finito il turno della morale e della retorica, tocca all'ontologia. La struttura ontologica del p.c. si basa – sostiene Friedman – sull'ovvio e sullo scontato, e insieme si dedica alla progressiva decostruzione della Scienza e dell'Occidente in generale. Niente male per quella che doveva essere in una trasformazione eufemistica del linguaggio pensata per non offendere alcuni disgraziati (dire non vedente al posto di cieco) o alcune minoranze (scrivere neri al posto di negri). Che poi era di fatto degenerata, in alcuni aspetti, in «una sorta di Lourdes linguistica in cui il male e la sventura affogano nell'eufemismo», nelle parole di Robert Hughes in un feroce saggio contro il p.c. sul quale torneremo brevemente tra poco.
Insomma nella sua presa del potere assoluto il p.c. – sostiene Friedman – ha conquistato e asservito anche la nozione di verità, opponendo alla sua universalità e incontestabilità le parole associative del multiculturalismo, a sua volta parto mostruoso del p.c.
E qui viene applicato dal nostro autore, consapevole o meno, un altro procedimento retorico, ricordato da Franco Palazzi in un bell'articolo su Doppiozero, che là viene chiamato «fallacia dello spaventapasseri» e che io chiamerò più banalmente «argomento del fantoccio», il cui senso è però sempre lo stesso: caricare le posizioni dell'avversario di caratteristiche aberranti e distorte nonché fortemente caricaturali, per poi accanirsi contro queste per confutare quelle. In questo modo diventa motivo di critica e condanna da parte di Friedman la franchezza di chi ammette, ahimè incautamente e contraddittoriamente, che l'immigrazione arricchisce ma è anche un problema, e che l'immigrazione non è facilmente gestibile in tempi di crisi economica, e che sì, anche coloro che si pongono il problema dei migranti in maniera non razzista sono confusi e sprovveduti rispetto alla politica e alla filosofia da adottare, che non sia magari l'ipocrita «aiutiamoli a casa loro!» dopo che la casa è stata distrutta e non diciamo da chi altrimenti veniamo accusati di razzismo al contrario.
Un po' di razzismo
«Sarò mica diventata razzista?» si chiede preoccupata la pensionata danese in un aneddoto narrato da Friedman, la quale ritiene che lo stato dovrebbe occuparsi dei pensionati danesi e pensa male dei vicini immigrati che frodano lo stato sociale, ma ha paura e vergogna di dirlo forte perché contravverrebbe all'ideologia dominante e corretta. «Ma no signora, la capiamo», le risponderemmo noi. «Guardi però», aggiungeremmo, «che forse non è tutto derivato dal p.c., e anche la politica neoliberista con la demolizione dello stato sociale e molti altri provvedimenti adottati a cuor leggero anche dalla sinistra qualche responsabilità in questo senso ce l'ha». Il razzismo, la mentalità razzista, vorremmo però anche aggiungere, è una cosa seria e forse non è il caso di scherzarci sopra e forse il p.c. fa bene a ricordarlo. Eh, questo p.c. che ci toglie anche il piacere dell'ironia e delle barzellette etniche che ci facevano tanto ridere – sostiene Friedman – e che negli Stati Uniti si possono ancora raccontare ma in Svezia no, impossibile! Lì ti riempiono di paura e di vergogna se racconti la storiella del peccatore che si sente dire da San Pietro che potrà scegliere tra l'inferno italiano e l'inferno tedesco (l'esempio è mio, FR). «Che differenza c'è», chiede il peccatore? «In quello tedesco ci sono diavoli che ti infilzano col forcone e ti buttano nel pentolone di pece bollente». «E in quello italiano?», ribatte l'anima dannata. «In quello italiano pure, ma un giorno i diavoli scioperano, un altro qualcuno s'è fregato il pentolone...».
Ecco, in Svezia e ormai anche in Italia questo tipo di spirito – innocuo per quanto non eccelso – viene condannato, sostiene Friedman, talché la sua requisitoria a tappeto contro lo spaventapasseri del multiculturalismo e del p.c. ti porta non soltanto a rimpiangere le tue barzellette ma a rivalutare La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto di Robert Hughes (The Culture of Complaint. The Fraying of America, Oxford U.P. 1993, tradotto da Adelphi l'anno dopo). Si trattava di un testo che metteva in ridicolo il p.c., dichiarando gli eufemismi linguistici assurdi e controproducenti e le politiche di sostegno delle minoranze, i cultural studies e il multiculturalismo, tutti nello stesso pentolone, provvedimenti decadenti nati dalla carcassa in putrefazione del marxismo e diffusisi grazie alla scuola di Francoforte, da Adorno e Marcuse in particolare, a Michel Foucault e a Jacques Derrida. Anche nei confronti di Hughes Baroncelli commentava che chiamare i froci gay invece che froci sarà controproducente e decadente ma forse ai froci piace di più perché non è infamante come altri titoli. E che comunque la cosa più educata e civile sarebbe non chiamarli, catalogarli ed etichettarli, come se non fossero persone.
Destra, sinistra e politicamente corretto
Infine, ecco nella ricostruzione di Friedman i risvolti più squisitamente politici dell'egemonia disintegrante e democraticamente deficitaria del p.c. che pervade molti stati occidentali. Laddove le élite hanno sostituito alla difesa del proletariato locale quella degli immigrati, il progetto illuminista di progressismo, illuminismo e stato sociale è passato nelle mani della destra, mentre la sinistra ha abbracciato i valori del neoliberalismo e considera la classe operaia il suo peggior nemico. Conseguenza è che Marine Le Pen è ormai «l'unica rappresentante di ciò che resta della vecchia ideologia di sinistra, del suo repubblicanesimo, nazionalismo, antiamericanismo e laicismo». Un bel miscuglio, quello effettuato da Friedman, tendente a abolire la distinzione tra i valori della sinistra (primo di tutti l'eguaglianza) e quelli della destra (primo di tutti la gerarchia), sull'onda di un'operazione compiuta inesorabilmente dalla destra e che è una pratica quanto efficace cartina di tornasole per comprendere le tendenze politiche delle persone.
Devo chiudere e chiuderò col veleno nella coda, anche questa una figura della retorica classica (in cauda venenum), per pungere la casa editrice denunciando la presenza nel libro di decine e decine di refusi ed errori e di frasi che risultano incomprensibili se non errate. Cosa editorialmente scorrettissima, anzi, banalmente sciatta.
- Francesca Rigotti - Pubblicato il 30/1/2018 su DoppioZero -
La ricerca è sempre «scorretta»
- di Elisabetta Rosaspina -
Se Agatha Christie avesse intitolato il suo capolavoro Dieci piccoli africani, anziché Dieci negretti, come fece incautamente nel 1939, gli editori (in particolare americani) non si sarebbero dovuti arrovellare negli anni successivi per trovare un titolo meno datato e irriguardoso verso la popolazione di colore: E poi non ne rimase nessuno, scelsero alla fine negli Stati Uniti (e Arnoldo Mondadori, nel 1946) o Dieci piccoli indiani, si preferì infine in Italia, sulla traccia della filastrocca ottocentesca originale di Septimus Winner, a cui la romanziera si era ispirata. E «chi era il Capitano Achab?», si è chiesto sarcasticamente alla fine del secolo scorso Robert Hughes, autore de La cultura del piagnisteo (Adelphi, 1993): il «portatore di un atteggiamento scorretto verso le balene».
La questione, insomma, è antica; e, prima di tornare ad affrontarla dal punto di vista antropologico, l’americano Jonathan Friedman, docente alla plurisecolare Università di Lund, la «città delle idee» nel sud della Svezia, dove vive da 40 anni, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, sposato a una collega svedese, ci ha pensato su bene, consapevole di avventurarsi su un terreno minato. Il libro, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, è stato concepito nel 1997, quando la moglie dello studioso, Kajsa Ekholm, fu accusata di fascismo e razzismo per aver pubblicamente considerato «fallimentari» le politiche di integrazione degli immigrati nel suo Paese e i tentativi di trasformarlo in uno Stato multiculturale, in cui gli svedesi fossero un gruppo etnico tra tutti gli altri.
Terminato il suo saggio nel 2002, Friedman lo ha lasciato riposare nel cassetto per un’altra quindicina d’anni, dopo aver rifiutato di modificarlo su indicazione della University of California Press, pur interessata alla sua pubblicazione nella collana California Series in Public Anthropology. Finché, per una serie di rinvii negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le 324 controverse pagine, curate da Piero Zanini, non sono arrivate prima nelle librerie italiane, giovedì 25 gennaio, per Meltemi, editore di tendenze tutt’altro che reazionarie, al contrario della reputazione che circonda Friedman in Svezia.
Rosaspina: Professore, si è fatto una brutta fama...
Friedman: «Lo so, mi accusano di essere un fascista. Posso assicurare che non è assolutamente il caso: al contrario. Ma ciò conferma la tesi di fondo del mio libro: il politicamente corretto emerge in periodi storici di grande suscettibilità, quando sono in corso trasformazioni della società secondo progetti di alcune élite, come la sinistra borghese, insicure delle loro stesse posizioni».
Rosaspina: Per esempio?
Friedman: «La questione etnica è diventata un tema sensibile e chi osa sostenere che la politica migratoria porti conflitti nella società nazionale, diventa un fascista e un razzista. Basta, come nel mio caso, non essere d’accordo con il pensiero dominante».
Rosaspina: Si riferisce alla Svezia?
Friedman: «In Svezia questo nervosismo si percepisce nelle classi alte, nelle accademie. Ma anche altrove, la gente ha paura di parlare, teme di dire qualcosa di sbagliato. Questo condizionamento viene dai centri di potere».
Rosaspina: In altre parole, sarebbe in pericolo la libertà di espressione?
Friedman: «Professori e giornalisti sono intimoriti non tanto da veti o ricatti, quanto dal rischio di finire additati al pubblico ludibrio. In alcune università americane la situazione è diventata drammatica. Se uno studente contesta il libro di testo di un mentalità della gente basti cambiare il linguaggio o correggere Tintin in Congo, considerato razzista. Ma non funziona così».
Rosaspina: Un linguaggio più educato non può aiutare a migliorare anche il comportamento?
Friedman: «La gentilezza è un’altra cosa. Lo scriveva 70 anni fa George Orwell in Politics and the English Language, sul rischio di cancellare le parole. Il linguaggio è uno strumento per esprimere il pensiero, non per nasconderlo o impedirlo».
Rosaspina: Significa che l’umanità è congenitamente razzista?
Friedman: «Il razzismo è universale, così come l’imperialismo non è un’esclusiva dell’Occidente. Tutte le civiltà lo sono. I cinesi sono andati in Africa e importavano manodopera: gli africani, per loro, non erano neppure esseri umani. La schiavitù è esistita anche in Sudafrica e gli arabi hanno avuto schiavi per secoli».
Rosaspina: Quindi, secondo lei, non c’è nulla da fare?
Friedman: «Ci potrebbe essere. Ma occorre discutere il problema, non basta moralizzare il linguaggio. Le sit-com del commediografo statunitense Jerry Seinfeld sono state bollate come razziste e discriminatorie perché tutti i personaggi sono bianchi e non ci sono neri o latino-americani. Per anni ho creduto che il politicamente corretto sarebbe presto scomparso ma si è soltanto evoluto. Se prima chiudeva la bocca alle persone facendole vergognare, ora sta diventando violento. Quel che è accaduto alla redazione di “Charlie Hebdo” è un buon esempio».
Rosaspina: Può farne invece uno nel suo campo?
Friedman: «La ricerca. Non puoi fare ricerca se vuoi essere politicamente corretto, perché finisci per importi dei limiti nelle domande. Durante un seminario sull’etica del lavoro sul terreno, il sociologo Jack Katz, dell’Università della California, ci condusse nelle enclave di Los Angeles e alcuni dottorandi gli chiesero se fosse morale chiedere alle persone con cui lavoravano in alcuni quartieri di immigrati di Malmö, da dove veniva il loro denaro, visto che erano disoccupati. “Se non glielo chiedete, non siete etici come antropologi o come sociologi”, ha risposto lui».
Rosaspina: Il libro nasce dagli attacchi subiti da sua moglie, come antropologa, per aver criticato le politiche d’integrazione in Svezia. Vent’anni dopo come va?
Friedman: «Il numero degli stupri in Svezia è fra i più alti al mondo e nel 90% dei casi non si tratta di violenza domestica».
Rosaspina: Tutti migranti?
Friedman: «La stragrande maggioranza sono senza residenza o immigrati regolari».
Rosaspina: Sono dati ufficiali?
Friedman: «Le statistiche sul crimine in Svezia si possono trovare ma, dal 2005, non vengono più comunicate da organi ufficiali».
Rosaspina: Insomma sta dando ragione a Donald Trump?
Friedman: «Non è il mio eroe, ma se non altro dice quel che pensa. A volte è ridicolo, altre non tanto. Può essere un bugiardo, ma non un ipocrita. Se l’americano medio lo ha votato, è perché si è sentito ingannato negli ultimi 10 o 15 anni. L’elettorato non è politicamente corretto quando vota e la Brexit lo dimostra. In Francia, Marine Le Pen può diventare politicamente corretta, ma deve smettere di pensare. La questione non è se sia, o meno, una populista perché è stata un’élite politica a inventare il populismo che, inizialmente, era un movimento di sinistra».
Rosaspina: Pensa sul serio che si possano fermare i movimenti migratori?
Friedman: «No. Ci sono 60 milioni di persone pronte a partire. È un fenomeno storico comune nel declino dei Paesi egemonici imperialisti».
(intervista di Elisabetta Rosaspina – Pubblicata sulla Lettura del 28/1/2018)
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