domenica 4 febbraio 2018

Critica Profonda

kurz critica radical clovis renat1o

La nuova simultaneità storica
- La fine della modernizzazione e l'inizio di un'altra storia mondiale -
  di Robert Kurz

Il dibattito sulla globalizzazione sembra essere arrivato attualmente ad una fase di esaurimento. Ciò non è dovuto ad un'estenuazione del processo sottostante ma alla mancanza d'aria per nuove idee interpretative. Quasi nessuno osa parlare della fine della storia della modernizzazione. È certo che intanto sono state scritte intere biblioteche a proposito della globalizzazione del capitale (la dispersione transnazionale delle funzioni economiche) che dissolve la separazione tra economia nazionale e mercato mondiale, e, con ciò, tutto il quadro di riferimento anteriore. Ma finora le conseguenze da trarre da questo riconoscimento il più delle volte sono state ritardate. I vecchi concetti continuano a rimorchio, sebbene non corrispondano più alla nuova realtà.
Per molto tempo è stato considerato come la summa della riflessione teorica far valere la particolarità nazionale di fronte all'universalità astratta del moderno modo di produzione capitalista. Negli anni '70, il cosiddetto eurocomunismo affermava che la teoria marxista era stata spesso troppo universale e, quindi, doveva "essere finalmente concretizzata" in termini nazionali, allo scopo di creare un socialismo popolare con i "colori" della Francia, della  Germania, dell'Italia ecc. Ma quest'enunciato era già reazionario nel momento stesso della sua formulazione. Nel processo della globalizzazione la relazione è stata finalmente invertita. La particolarità nazionale stessa è diventata una vuota astrazione, ancora presente, certamente, ma come sedimento di un'epoca trascorsa. La storia è nazionale solamente a titolo di una storia del passato ma non più del futuro. D'ora in poi non ci sarà più una storia francese, tedesca, brasiliana, cinese... La concrezione storica nello spazio di riferimento immediato della società mondiale non si riferirà più nel futuro alle particolarità ed ai contesti nazionali, ma a quelli transnazionali. Ciò si applica anche (e direttamente) a identità culturali, movimenti sociali e conflitti "post-politici".
La comunità nazionale violentata non è, tuttavia, la sola essenziale caratteristica dell'epoca passata che diventa obsoleta. La struttura spaziale delle particolarità nazionali reciprocamente delimitate era incatenata anche ad una struttura temporanea di fasi dello sviluppo capitalista reciprocamente delimitate. L'universo delle nazioni era un universo di non-simultaneità storica. Dal momento che il moderno sistema produttore di merci non si estese gradualmente che a partire dall'Europa nei secoli XIX e XX, le diverse fasi del capitalismo si susseguivano immediatamente le une accanto alle altre.
Ciò che era ancora il futuro per gli uni, era il presente per gli altri o il passato immediato. Questo dislivello del tempo storico ha da sé prodotto il paradigma dello "sviluppo", che nelle categorie capitaliste si presentava come una corsa di recupero dei ritardatari storici. Gran Bretagna, Germania e altri paesi continentali europei sono passati nel XIX secolo per una "modernizzazione di recupero" simile; nel XX secolo, di fronte all'occidente, la Russia, la Cina ed i paesi ex coloniali del sud globale si sono limitati a ripetere la stessa cosa. La nazione qui era lo spazio specifico della non-simultaneità storica.

Anche il movimento operaio occidentale classico era determinato da un paradigma analogo; solo che qui la "modernizzazione di recupero" non si riferiva, o perlomeno non in prima istanza, alla posizione della propria nazione di fronte al le nazioni più avanzate, ma soprattutto alla posizione giuridica e politica del lavoratore salariato di fronte alle altri classi sociali all'interno della stessa nazione. Era in gioco il "riconoscimento" dei salariati come  soggetti giuridici della loro forza lavoro e come pieni cittadini. Il diritto di voto universale ed uguale, l'uguaglianza giuridica delle donne, il diritto di sciopero, la libertà di associazione, la libertà di riunione e l'autonomia nella negoziazione salariale erano contenuti importanti di questa "modernizzazione di recupero" legata alle relazioni sociali interne, che si conseguì solo, negli stessi paesi occidentali più avanzati, nel corso del XX secolo. Il riconoscimento esterno dei ritardatari storici dell'est e del sud come nazioni nel mercato mondiale corrispondeva al riconoscimento politico e giuridico interno dei salariati come cittadini e soggetti del diritto. Ma questo riconoscimento è stato, in un certo senso, una trappola storica. Man mano che le società delle diverse regioni mondiali venivano confermate e fissate come soggetti formali del capitalismo, i salariati erano intanto inevitabilmente condannati anche alle forme nazionali e sociali del moderno sistema produttore di merci. Così come gli Stati della "modernizzazione di recupero" anche i partiti operai e i sindacati nazionali patirono una mutazione, trasformandosi negli esecutori delle false "leggi naturali" di questo sistema. Sotto le condizioni della globalizzazione non resta a tutti loro niente più che amministrare in maniera più o meno repressiva la crisi capitalista. Quello che la socialdemocrazia aveva già esercitato a partire dalla Prima Guerra Mondiale si ripete ora su scala globale.
Talvolta si pensa che questo sviluppo negativo ha impallidito la gloria della "liberazione nazionale" e dei partiti operai nazionali. In un certo modo è anche così. In tutto il mondo arde una forte insoddisfazione verso le istanze politiche della sinistra tradizionale in quanto hanno perso completamente la loro qualità di opposizione esattamente nell'ora della nuova crisi mondiale, dal momento che permasero legate ai paradigmi della "modernizzazione di recupero", già svuotati di sostanza. Però questi paradigmi sono tanto profondamente radicati che continuano a essere effettivi anche tra gli insoddisfatti. C'è qualcosa di fantasmatico nel modo in cui la nuova opposizione dirigendosi contro la ex-opposizione entrata nella rappresentazione del sistema dominante, si attiene ciecamente ai modelli obsoleti del sommerso universo della non-simultaneità. La critica alla co-amministrazione della crisi, alla quale partecipano gli antichi movimenti di liberazione nazionale e i partiti operai tradizionali che hanno raggiunto la partecipazione al potere, si rivela così labile e non molto credibile poiché pretende ripetere nel contenuto, ancora una volta, ciò che è obiettivamente naufragato da molto tempo.
Questo è più vistoso nel movimento mondiale contro la globalizzazione, con le sue proteste, i suoi forum sociali e le sue conferenze a Porto Alegre, Parigi, Berlino ecc. Questo movimento, da un lato è organizzato in forma transnazionale, ma dall'altro, paradossalmente, conta da una parte dei suoi membri, con articolazioni partitiche nazionali prossime ai gruppi che operano nella sfera transnazionale; tra loro si trovano anche coloro le cui organizzazioni madri si trovano nel governo ed effettuano esattamente quelle "leggi economiche" contro i cui effetti lotta il movimento sociale globale.
Però è il contenuto della maggior parte delle rivendicazioni ciò che rimane completamente estraneo al processo della globalizzazione. Parzialmente transnazionale, perlomeno nella sua forma, il movimento vorrebbe raggiungere una "regolazione politica" dei mercati finanziari e delle condizioni generali della produzione di merci e della distribuzione, sebbene la logica di una tale regolazione era legata al quadro dello Stato nazionale.
Pertanto si chiede di rianimare, a partire da questo stesso momento nell'ambito globale, esattamente il procedimento che già è naufragato storicamente nell'ambito dello Stato nazionale, l'unico adeguato per questo. È un'opzione irrimediabilmente anacronistica e irreale.
 
Questa critica riduttrice parte implicitamente dal fatto che le società potrebbero ancora "crescere" nel quadro della modernità borghese, sebbene la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale abbiano già fatto esplodere questo quadro. Ciò si applica anche alle ipotesi economiche e filosofiche di fondo, che si rivelano anch'esse anacronistiche. Dal punto di vista economico, si tratta dell'aspettativa che la massa gigantesca di forza di lavoro globale ed economica rappresenterebbe ancora una riserva per la valorizzazione del capitale, non mantenendosi ora nella forma di uno sviluppo nazionale ma in quella del capitale globalizzato transnazionale. Gli uni sperano e gli altri temono che possa sorgere da qui ancora un'era di espansione tradizionale. In parte quest'alternativa poggia sul concetto di "media produttività sociale". Questa media di scientifizzazione della produzione è relativamente alta nei paesi capitalistici sviluppati e relativamente bassa nei paesi della periferia. Si spera quindi che con la globalizzazione crescente si produca una nuova media di produttività in ambito mondiale, che sia più basso comparato all'attuale media occidentale e più alto rispetto a quella dell'est e del sud. Sulla base di questo nuovo standard si crede possa essere possibile assorbire una parte considerevole della riserva momentaneamente inutilizzata della forza di lavoro globale nel processo di valorizzazione del capitale.
Ma questo calcolo non funziona. Come si misura la media della produttività? Esso si misura in accordo con il grado medio della scientifizzazione tecnologica della produzione. Tuttavia è decisivo il quadro a cui si riferisce questa media. È inequivocabilmente il quadro economico-nazionale della produzione sociale. Solo nello spazio interno di un'economia nazionale si applicano le condizioni-limite comuni che possono produrre, in modo generale, qualcosa di simile a una "media sociale". Ne fanno parte un livello comune di  sviluppo dell'infrastruttura, del sistema d'istruzione ecc. Nel quadro del mercato mondiale, tuttavia, non esistono condizioni-limite comuni di questo tipo. Per questa ragione non si può stabilire neppure un livello medio globale di produttività. La relazione delle nazioni o delle regioni mondiali nel mercato mondiale non presenta alcuna analogia con le imprese all'interno di un'economia nazionale. In questo modo, nel quadro globale si impone inevitabilmente il livello di produttività dei paesi industrializzati più vecchi d'occidente, i più sviluppati in termini capitalisti. Nella stessa misura in cui lo spazio nazionale diventa obiettivamente obsoleto a causa della globalizzazione, questo livello segna il criterio globale immediato e senza filtro per tutti i partecipanti del mercato. È illusoria la speranza che, in nuovo sistema transnazionale di riferimenti, la media di produttività sociale arrivi a diminuire e che la forza di lavoro non utilizzata si articoli di nuovo più facilmente nella produzione.
Nell'aspetto filosofico, un'aspettativa analogamente anacronistica determina il pensiero degli insoddisfatti. Perché la filosofia del cosiddetto Illuminismo, i cui fondamenti furono collocati nel XVIII secolo, è ancora considerata l'orizzonte insormontabile delle idee. Si pretende che il mondo possa, anche in questo senso, continuare ancora a svilupparsi nel quadro della modernità borghese. Quanto a ciò, la nuova opposizione non fa alcun decisivo passo più in là rispetto alla vecchia. Ma il paradigma dell'Illuminismo è esaurito quanto l'economia del sistema moderno produttore di merci, di cui era semplicemente l'espressione filosofica.
Le idee illuministe centrali di "libertà", "uguaglianza" e "auto-responsabilità" dell'"individuo autonomo" sono, secondo il loro concetto, ritagliate su misura per la forma capitalista del soggetto del "lavoro astratto" (Marx), dell'economia imprenditoriale, del mercato totalitario e della concorrenza universale. Libertà ed uguaglianza nel senso dell'Illuminismo furono sempre identiche all'auto-sottomissione degli uomini alle forme sociali del sistema capitalista.

La lotta del movimento operaio classico e dei movimenti di liberazione nazionale per il "riconoscimento" giuridico e politico poteva appellarsi alla filosofia dell'Illuminismo poiché non aveva altro obiettivo se non quello di entrare e crescere in queste forme, la cui condizione-limite sociale fu formata per mezzo della nazione esattamente come nell'aspetto economico. Ci sono soltanto sistemi nazionali di diritto borghese. All'esplodere del quadro nazionale, la globalizzazione rende obsoleta non soltanto la forma economica, ma anche la forma giuridica e politica del soggetto borghese. Con ciò la filosofia dell'Illuminismo è storicamente terminata. Non ha alcun senso invocare di nuovo l'idealismo borghese poiché per questa specie di libertà non c'è più alcuno spazio di emancipazione. Ciò si applica anche alle regioni mondiali che non sono mai andate oltre gli esordi dittatoriali dell'universalizzazione della forma moderna del soggetto. Così come la produttività economica anche la soggettività borghese si misura sullo standard globale omogeneo, dove la maggior parte degli esseri umani non rientra. Evidentemente il nuovo movimento sociale in tutto il mondo non ha ancora preso coscienza di queste condizioni. La costituzione delle strutture transnazionali del capitale è identica ad un'epoca di simultaneità storica. Malgrado le situazioni dal punto di partenza, ereditate del passato, siano distinte, i problemi del futuro possono essere formulati soltanto come problemi comuni a una
società mondiale immediata. D'accordo tanto con la forma quanto nel contenuto i vecchi paradigmi della sinistra sono obsoleti: nazione, regolazione politica, riconoscimento borghese, Illuminismo. La critica deve essere più profonda e comprendere i presupposti repressivi di questi concetti invece di reclamarne gli ideali. In caso contrario cade nel vuoto senza alcuno effetto.

- Robert Kurz - Pubblicato su Folha de Sao Paulo il 25 gennaio 2004 -

fonte: HomoLaicus

Nessun commento: