Razza più nera che bianca
–di Guido Barbujani -
Quando si dice la scalogna. Proprio nei giorni in cui Attilio Fontana, candidato alla presidenza della Lombardia, invocava misure contro l’immigrazione per proteggere quella che lui chiama «razza bianca» (ne abbiamo scritto sulla Domenica del 21 gennaio e il 23 gennaio è uscito sul Corriere della Sera un bell’intervento di Dacia Maraini), uno studio genetico molto ben fatto dimostra che sono state proprio due ondate di immigrati a introdurre in Europa i geni della pelle chiara (Torsten Günther ed altri, 2018, PLoS Biology 16: e2003703). Immagino sia dura da mandar giù, per Fontana, ma è andata così: niente immigrazione, niente pelli bianche.
È la melanina delle cellule a determinare il colore della pelle (e dei capelli, e in parte degli occhi). La melanina, in realtà, sono due pigmenti, non uno: la feomelanina, in diverse sfumature di rosso e giallo, e l’eumelanina, in varie tonalità brune. In generale, nelle pelli più chiare prevale la feomelanina, in quelle più scure l’eumelanina. Ma poi conta la quantità di pigmento, cioè quanti grani di melanina, e quanto grossi, si trovino nelle cellule alla base dell’epidermide. Nelle pelli molto scure c’è tanto pigmento, in quelle chiare ce n’è poco, e quelle chiarissime sono rosa per via del sangue che traspare. E poi, come sappiamo, al sole ci si abbronza.
Tutto questo dipende dall’azione di decine di geni. I loro nomi non vi diranno niente, ma eccone alcuni: MC1R, OCA2, KITLG, ASIP, SLC24A5 e SLC45A2. MC1R è il più importante perché controlla il funzionamento degli altri; quando MC1R non viene stimolato, le cellule producono soprattutto o soltanto il pigmento più chiaro, la feomelanina; quando viene stimolato, stimola a sua volta la produzione del pigmento più scuro, l’eumelanina. L’uomo di Neanderthal aveva un gene MC1R non funzionante, e per questo possiamo dire che aveva la pelle molto chiara.
Oggi riusciamo a leggere con molta precisione il DNA, e non solo quello di persone viventi, ma, appunto, anche quel poco presente nelle ossa fossilizzate di gente vissuta tanto tempo fa. E il DNA di un cacciatore mesolitico ritrovato in uno scavo archeologico a La Braña, nel nord della Spagna, fa pensare che, fino a 7mila anni fa, gli europei avessero una strana combinazione di pelli scure e occhi chiari.
Com’è andata, allora? Facciamo un passo indietro, qualche milione di anni. Ci sono molte ragioni per credere che allora i nostri antenati avessero, sotto lo spesso pelame, la pelle chiara: come, oggi, i nostri parenti, gorilla e scimpanzé. Col tempo abbiamo perso il pelo, ed è migliorata la nostra capacità di regolare, sudando, la temperatura corporea. Così, però, abbiamo esposto la pelle ai raggi ultravioletti, con conseguente rischio di tumori; chi aveva la pelle scura era più protetto, anche perché, in quella fase, stavamo tutti in Africa. Intorno a 100mila anni fa, però, comincia la migrazione più importante di tutta la storia dell’umanità: gruppi di africani si avventurano in Asia e in Europa e cominciano a stabilirvisi. In seguito, non sappiamo quando, sono comparse delle mutazioni, cioè delle varianti del DNA che provocano una pigmentazione più chiara. In Africa, e in generale nelle regioni dove c’è molto sole, queste varianti non aiutano la sopravvivenza, e sono state eliminate (si chiama selezione naturale). Ma dove c’è poco sole i raggi ultravioletti non costituiscono un problema, e anzi, favoriscono la sintesi di vitamina D, necessaria durante la gravidanza e l’allattamento. Così, la pelle chiara si è diffusa nel nord, sempre per selezione naturale.
Fino a qualche anno fa non c’erano semplicemente dati su cu ragionare; e quindi si ipotizzava che i primi europei, forse 50mila anni fa (o, per meglio dire, i primi europei della nostra specie, Homo sapiens; prima di loro c’erano i Neanderthal, ma questa è un’altra storia) avessero avuto il tempo per evolvere una pelle chiara nel corso del loro cammino dall’Africa. Invece non è così. L’uomo di La Braña aveva pelle scura, e come lui, altra gente che, nel Mesolitico, viveva in Svizzera e in Lussemburgo.
Le cose cambiano una prima volta con il Neolitico, cioè con lo sviluppo dell’agricoltura. Quaranta anni fa, Luca Cavalli-Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza hanno dimostrato che è stata una grande migrazione dal Medio Oriente a diffondere in Europa le tecniche di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali. Di recente si è riusciti a leggere nei geni di alcuni di quei primi agricoltori neolitici: si è visto che erano i primi a portare molte varianti che, in Europa, sono associate a pelli chiare (attenzione: chiare, non chiarissime) e agli occhi scuri, oggi comuni in tutta l’area mediterranea.
Le pelli chiarissime che troviamo nel nord Europa hanno un’altra storia. C’era gente con la pelle chiara già 13mila anni fa, ma stava nel Caucaso; più tardi, troviamo individui con gli stessi geni (forse loro discendenti, forse no) nell’Asia nord-orientale, in quella che oggi è Russia. E da lì, da est, questi geni si diffondono, attraverso la Germania e la Danimarca, nella penisola scandinava, fra 9mila e 6mila anni fa.
È una storia interessante e complicata, un passaggio non scontato del processo evolutivo che ha portato un piccolo gruppo di africani a espandersi su tutto il pianeta (insieme ai nostri compagni di viaggio, i topi), adattandosi ad ambienti differenti e modificando nel corso del tempo le sue caratteristiche ereditarie. E diventa più complicata man mano che lo studio del DNA dei resti fossili definisce meglio il quadro delle nostre migrazioni, e ci racconta come l’umanità si sia continuamente rimescolata.
Naturalmente tutto questo c’entra molto poco, anzi per niente, con le esternazioni sui pericoli che correrebbe la cosiddetta razza bianca. La razza bianca, è chiaro, non è mai esistita. Sono invece esistite tante popolazioni diverse e in continuo movimento. I loro scambi hanno generato l’infinita varietà di sfumature, nel colore della pelle, nelle stature e nel girovita, nella forma del viso, nella capacità di digerire il latte o di percepire i sapori, che chiamiamo biodiversità umana. Certo, capire la storia della nostra evoluzione non aiuta immediatamente a combattere il razzismo. Ma alla lunga può servire a combattere l’ignoranza, che da sempre genera chiusure, intolleranza, paura del diverso e, più in generale, paura pura e semplice: la paura che alla fine avvelena la vita, la nostra, e quella di chi cerca di vivere insieme a noi.
- Guido Barbujani - Pubblicato sul Sole del 6/2/2018 -
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