Cosa succede se un'intera generazione, nata borghese e allevata nella convinzione di poter migliorare - o nella peggiore delle ipotesi mantenere - la propria posizione nella piramide sociale, scopre all'improvviso che i posti sono limitati, che quelli che considerava diritti sono in realtà dei privilegi e che non basteranno né l'impegno né il talento a difenderla dal terribile spettro del declassamento? Cosa succede quando la classe agiata si scopre di colpo disagiata? La risposta sta davanti ai nostri occhi quotidianamente: un esercito di venti-trenta-quarantenni, decisi a rimandare l'età adulta collezionando titoli di studio e lavori temporanei in attesa che le promesse vengano finalmente mantenute, vittime di una strana «disforia di classe» che li porta a vivere al di sopra dei loro mezzi, a dilapidare i patrimoni familiari per ostentare uno stile di vita che testimoni, almeno in apparenza, la loro appartenenza alla borghesia. In un percorso che va da Goldoni a Marx e da Keynes a Kafka, leggendo l'economia come fosse letteratura e la letteratura come fosse economia, Raffaele Alberto Ventura formula un'autocritica impietosa di questa classe sociale, «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle». E soprattutto smonta il ruolo delle istituzioni laiche che continuiamo a venerare: la scuola, l'università, l'industria culturale e il social web. Pubblicato in rete nel 2015, "Teoria della classe disagiata" è diventato un piccolo culto carbonaro prima di essere totalmente riveduto e completato per questa prima edizione definitiva.
(dal risvolto di copertina di: Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, 2017 - 262 pagine)
Lotta di classe disagiata
- di Luca Mastrantonio -
Cos’hanno in comune il conte Mascetti di Amici miei, Walter White di Breaking bad, un precario in coda per il nuovo smartphone a rate e lo stagista che paga per lavorare? Sono, in contesti e a livelli molto diversi, esponenti della «classe disagiata», il ceto medio impoverito dalla crisi, che si percepisce persino più povero di quello che è realmente, perché gli era stato promesso — o si è auto-promesso — un radioso avvenire, di crescita, di successo. Questo disagio, dovuto ad ambizioni frustrate, è diffuso tra chi vive al di sopra dei propri mezzi, all’ombra di un’infanzia dorata o abbagliato da un futuro illusorio. Colpisce soprattutto le generazioni successive ai babyboomers, in particolare i millennials che, per altro, usano spesso come sinonimo di «che imbarazzo» l’espressione «che disagio». Vale per tutti, ed è magra consolazione.
Ad esempio. Sto scrivendo questo articolo su un treno dove ho trovato un’offerta per un biglietto premium; per chi vuole, è compreso un bicchiere di prosecco, che mette subito allegria e orienta già la risposta difronte al celebre dilemma da treno alta velocità: «Dolce o salato?»; la busta del «salato» è chiusa, e questo alza le mie aspettative che, però, vengono presto deluse: dentro c’è una confezione di tarallucci, di quelle da 40 centesimi al distributore automatico in ufficio. Non ho pagato abbastanza per avere uno snack «salato» più sfizioso? O è colpa del prosecco «offerto» che mi ha tratto in inganno? Così diffuso e a basso costo che può essere affiancato ai tarallucci... Trovo la risposta in Teoria della classe disagiata, un lucidissimo saggio di Raffaele Alberto Ventura, che ha in copertina un’immagine efficace: una bottiglia di champagne vuota, con dentro un tovagliolo, a suggerire la rabbia senza combustibile della classe disagiata. Una patetica molotov scarica.
Ventura (noto su Facebook come Eschaton, il libro è pubblicato da Minimum fax) capovolge con abilità la Teoria della classe agiata, di Thorstein Veblen (Einaudi), per cui l’appartenenza alla classe agiata si manifesta attraverso beni di lusso, status symbol, oggetti che si desiderano per emulazione dei vincenti e per distinzione dai perdenti. Lo champagne, ricorda Ventura, è il tipico status symbol dei ricchi, ma oggi grazie al progresso industriale può essere prodotto in quantità maggiore, con conseguente abbattimento dei costi, maggior consumo e perdita del valore simbolico. Il lusso, per l’effetto Veblen, deve costare, sennò non è lusso.
La spinta a desiderare alcuni beni costosi per il prestigio che offrono, la riconoscibilità, il posizionamento sociale è arrivata dal boom economico liberista ma pure dall’imperativo desiderante del ‘68, che ha creato uno strano cortocircuito: le élite culturali del Dopoguerra, di sinistra, reclamavano per tutti il diritto allo champagne e al caviale, ma se ne sono appropriati spesso solo loro. La doppia morale dei radical chic ha creato false aspettative sulla cultura e le possibilità di ascesa che offre.
Ma torniamo al conte Mascetti e White. Lello Mascetti è il nobile decaduto degli Amici miei di Mario Monicelli: fino ai vent’anni si faceva vestire e spogliare dalla servitù, da sposato si è fatto un viaggio di nozze di tre anni e mezzo, portando al guinzaglio un orso. Le cose hanno preso un’altra piega, ma lui fa finta di vivere ancora in quell’epoca d’oro, delira, al punto da chiamare «castello» la catapecchia in cui vive.
Simile, ma con dinamiche e motivazioni diverse, è il caso di Walter White, eroe del disagio contemporaneo, bianco arrabbiato. Nella serie tv Breaking Bad (dal 2008 al 2013), interpretato da Bryan Lee Cranston, White è un prof di chimica la cui vita viene sconvolta dal cancro; per far fronte alle cure, si mette a spacciare. Sinossi brutale, cui sfuggono dettagli importanti: White decide di non rivolgersi a un medico convenzionato con la sua assicurazione, rifiuta per orgoglio un’altra offerta di lavoro, non vuole che la moglie lavori e non vuole rinunciare alla casa con la piscina, simbolo di quella «american way of life» rappresentata dai vicini, dai colleghi, dal cognato poliziotto con cui entra in competizione dedicandosi al narcotraffico. Dunque, la povertà di White è una povertà relativa, scrive Ventura nel libro, come quella di molti americani che hanno votato Trump. Perché il populismo attinge soprattutto alla classe media che si sente disagiata perché vuole accedere agli oggetti simboli di uno status sociale superiore, ma che costano davvero troppo.
Gli esempi di Mascetti e di White sono presi dal libro di Ventura, perché sì, anche la cultura è uno status symbol: sì il valore di un libro aumenta se l’hanno letto le persone giuste (ah, se vi piace Brunori Sas, lui l’ha letto!) e rischia di diminuire se l’hanno letto in troppi; ma tranquilli, non è in classifica, purtroppo, e alcuni prodotti culturali hanno una particolarità: non basta acquistare un libro per appropriarsi del suo valore simbolico, va letto, fatto proprio e l’intelligenza che in tanti ne possono derivare, non si inflaziona come la versione invecchiata di un cellulare dall’obsolescenza precoce.
Quello di Ventura è un libro di cui questa epoca ha bisogno come il pane, andrebbe letto dalla classe dirigente che spesso non ha strumenti per comprendere il disagio profondo degli italiani esposti a illusorie promesse di benessere e in lotta con i loro desideri di affermazione. La scrittura è brillante e il ragionamento mescola teoria economica, sociologia e letteratura, con un capitoletto finale su Checov e Kafka da applausi. Sì, serve un pizzico di coraggio per leggere un libro che mette a nudo le nostre velleità. Il retrogusto è agrodolce. Ma almeno si va oltre il solito dilemma: dolce o salato.
- Luca Mastrantonio - Pubblicato sul Corriere dell'11 Nov 2017 -
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