Marxista tendenza Groucho
- di Pietro Citati -
Non saprei precisamente quando sia nato il cosiddetto umorismo ebraico, che ormai, almeno negli Stati Uniti, è la forma principale di comico. Bisogna attendere sedici o diciassette secoli dopo l'inizio dell'era cristiana: i tempi di Lurija e soprattutto quelli dello chassidismo, tra le plebi orientali sul punto di partire per gli Stati Uniti. Lì nacque, almeno in parte, il riso disperato e sottilissimo di Kafka. Gli ebrei ridevano e insieme piangevano: ridevano e piangevano perché le "Sefìrot", le emanazioni divine, erano sparse nel nostro mondo, in mezzo a noi, sotto i nostri occhi, vittime e prigioniere, ed essi potevano liberarle, lavorando amorosamente e precisamente la pietra od il cuoio, o qualsiasi oggetto. Oggi l'editore Adelphi ripubblica due bellissimi libri: Groucho ed io (traduzione di Franco Salvatorelli, pagine 316, euro 12) e Le lettere di Groucho Marx (traduzione di Davide Tortorella, pagine 376, euro 20): Groucho è il terzo dei cinque fratelli Marx, vissuto tra il 1890 e il 1977 negli Stati Uniti. Sono due libri deliziosi, follemente divertenti, che invito a leggere tuffandosi ora nella realtà più minuziosa ora nell'assurdo più inverosimile - le due strade che l'immaginazione ebraica ha sempre percorso. Sono impareggiabili giochi di teatro, scritti per venire recitati davanti al complice pubblico ebraico di New York: percepiamo quasi il suono di ogni battuta, il movimento di ogni gesto, e le risa che salgono irresistibili dalla platea.
Con infinito piacere, Groucho Marx racconta. Racconta i tempi del proibizionismo e la crisi del 1929: a tratti, sembra di leggere Fitzgerald. Un giorno il suo consulente finanziario gli disse: «Groucho, la festa è finita». I suoi amici si gettavano dai grattacieli: i gangster impazzavano per le strade; e lui fu travolto dall'insonnia. I Marx erano una famiglia povera, venuta dalla Germania yiddish: la madre «da un Paese di circa trecento anime, comprese quattro vacche, che c'erano arrivate per sbaglio». A Brooklyn Groucho si trovò amorosamente e ferocemente avvolto dalla famiglia: nessuna famiglia è più avvolgente ed amorosa di una famiglia ebraica. Aveva uno zio pieno di debiti: ottantaquattro dollari soltanto con suo padre: possedeva una palla di biliardo numero nove (rubata), una scatola di pasticche per il fegato e uno sparato di celluloide; viveva a sbafo, e fece di Groucho il suo unico erede. Un altro zio era pedicure: dopo essersi invitato a pranzo, asportava con garbo i calli accumulati dal padre di Groucho battendo i marciapiedi in cerca di lavoro: il suo onorario era modesto; venticinque cent per entrambi i piedi. Un terzo zio, che ebbe uno straordinario successo, stirava pantaloni in una ditta di Manhattan.
Come si conviene a un ebreo di Brooklyn, il padre faceva il sarto: o meglio immaginava di fare il sarto: non prendeva mai le misure a nessun cliente: gli bastava guardarlo; e i risultati delle sue previsioni erano più o meno esatti come le previsioni di Chamberlain sul conto di Hitler. Era facile riconoscere i suoi clienti: andavano in giro con un calzone più corto dell'altro, una manica più larga dell'altra, e il bavero della giacca incerto su dove posarsi. Non aveva mai due volte lo stesso cliente: doveva andare di continuo a caccia di clienti nuovi - sempre più lontano, a Hoboken, Pasaic, Nyact e altrove, finché molte settimane la spesa del tram superava il guadagno, e i suoi calli erano duri come pietre. Con la promessa di un gelato alla crema, Groucho era incaricato di consegnare il vestito, la domenica mattina, in tempo per la Pasqua, sulla Prima Avenue. Il reddito del padre oscillava tra diciotto dollari alla settimana e niente: Groucho non sapeva bene se se ne affliggeva; ma se si affliggeva non lo dava mai a vedere. Era un uomo felice: pieno della joie de vivre della sua Alsazia nativa. Amava ridere. Spesso rideva per una barzelletta che non capiva, e dopo che gliel'avevano spiegata rideva di nuovo fragorosamente. Sempre in attesa di miracolosi colpi di scena, un giorno, sfogliando la Bussola del sarto, vide l'annuncio di un nuovo tipo di macchina per stirare i calzoni. La comprò: era velocissima: stirava un paio di calzoni in quindici secondi, ed era pronta ad accogliere valanghe di calzoni. Soltanto che il padre non aveva clienti.
Questa parte dei due libri è bellissima, per verità, saggezza e divertimento. I libri vanno a zig zag, avanti e indietro, indietro e avanti, perché Groucho non ha la più pallida idea, come Sterne, che un libro debba portare a una fine e a una conclusione. Quello che gli importa è raccontare menzogne: menzogne e menzogne; una più grande dell'altra; perché non c'è nessuna differenza tra verità e menzogna o tra i suoi libri e quelli copiati dagli altri. Scriveva rapidamente: molto rapidamente, come i gesti e le frasi dei film di Chaplin, che adorava, e al quale credeva di assomigliare. Fu felicissimo il giorno in cui Chaplin, vincendo la propria abituale avarizia, lo invitò a pranzo: gli disse di non essere ebreo, sebbene gli sarebbe molto piaciuto esserlo. Era scozzese, inglese, gitano: non lo sapeva nemmeno lui; odiava gli inglesi ma sperava che vincessero la guerra. «È un tipo molto strano - disse Groucho - per un certo verso non ha nemmeno un barlume di senso dell'umorismo». Alla fine del pranzo avvenne qualcosa di sbalorditivo: Chaplin afferrò il conto (ammontava a trenta dollari), e lo pagò di tasca sua.
Sempre velocissimamente Groucho Marx parla di tutto. I libri che ha letto: Piccolo campo di Caldwell, Piccole donne di Louisa May Alcott, Ben Hur, Via col vento: Rembrandt, Beethoven e Van Gogh. Conosceva perfino Finnegans Wake: non era meno lontano dalla vita di quanto lo fosse Joyce. T. S. Eliot gli scrisse per mandargli un ritratto, «che faceva la sua debita figura accanto a quelli di altri amici - W. B. Yeats e Paul Valéry»: naturalmente la lettera di Eliot era falsa. «Quando ti chiamo Tom, vuol dire che sei un misto di peso medio-massimo, un gattaccio randagio e il terzo presidente degli Stati Uniti». «Eliot ed io abbiamo tre cose in comune: 1) la passione per i buoni sigari. 2) I gatti. 3) Un debole per le freddure - un debole che io cerco di vincere da molti anni, mentre Eliot è uno spudorato, un orgoglioso freddurista».
Non smetterei mai di citare Groucho Marx, con lo stesso piacere con cui ricordo le battute delle commedie di Shakespeare. Il varietà della sua giovinezza gli piaceva moltissimo: era molto più assurdo e svitato di quello moderno. Adorava far ridere: «a paragone dell'impresa di far ridere, le parti drammatiche del teatro sono come una vacanza di due settimane in campagna». Una volta la posizione dell'attore nella società era una via di mezzo tra una zingara chiromante e un borsaiolo. Poi il varietà scomparve, ucciso prima dal cinema, poi dalla televisione: mentre lui avrebbe voluto tornare ad immergersi nella meravigliosa e rarefatta atmosfera dell'antica Broadway.
Allora, in vetta a tutto, c'erano i fratelli Marx: Chico, Harpo, Groucho, Gummo e Zeppo. Groucho faceva gite ciclistiche al supermercato: appariva due volte alla settimana in televisione: scriveva lettere e, chissà perché, si faceva grattare i piedi. Gli altri lo descrivevano come uno sbragato pagliaccio, pronto a qualsiasi bassezza pur di strappare una risata. «In verità - diceva Groucho - io sono uno studente invecchiato, che ambisce alla conoscenza e alla solitudine, e conduco una vita esemplare e solitaria in un'atmosfera libresca e coltissima».
Della sua vita Groucho ricorda specialmente un evento. Un giorno, a Chicago, camminava per la State Street quando una coppia di mezza età gli venne incontro e si mise a girargli intorno. Fecero due o tre giri, guardandolo come se fosse una cometa venuta dallo spazio. Poi la donna gli si avvicinò titubante e chiese: «È lei, vero? È Groucho?». Egli annuì. Allora gli toccò timidamente un braccio e disse: «Per favore, non muoia, continui a vivere». Nelle ultime righe del libro, Groucho commenta: «si può desiderare di più?», Certo, non si può desiderare di più.
Pietro Citati - Pubblicato su Repubblica del 20 novembre 2017 -
Nessun commento:
Posta un commento