Per Borges Biblioteca Universale è un altro nome dell’Universo, per il Talmud l’Universo è l’Altro Libro di Dio: immagini impegnative per descrivere quell’atto personale, esclusivo, che spesso è la lettura. Ma ogni lettore ne riconosce la precisa verità. Nata ancor prima della scrittura, messa alla prova da incendi, censure e proibizioni, la lettura ha attraversato cambiamenti tecnologici (dalle tavolette ai rotoli, dai codici ai libri rilegati, fino agli ebook), sociali (dal manoscritto costoso e per pochi al libro stampato, economico e popolare), addirittura neurologici (dalla lettura silenziosa che rende possibile uno scambio privato col testo, a quella su schermo che plasma le reti neuronali). Scriverne la storia non è possibile, perché, per fortuna, la sua è una storia senza fine. Ma si può raccontare una storia della lettura, come ha deciso di fare Alberto Manguel in questo libro, ormai un classico, ora riproposto in una nuova edizione ampliata e aggiornata. Soggettiva e unica, questa storia ha la libertà propria di ogni lettore. Nessun tracciato cronologico, ma capitoli tematici ricchi di aneddoti, annotazioni personali, storie gustose e personaggi indimenticabili. Chiamando in causa Plinio, Cervantes, sant’Agostino, Colette, Kafka, Whitman e tantissimi altri scrittori/lettori che affollano l’Indice finale in una sorta di magnifico ‘catalogo degli affetti’, Manguel (e noi con lui) riconosce al lettore d’ogni tempo la sua primazia, il suo potere di leggere il mondo dandogli un senso e un ordine, e più d’un briciolo di follia. «Grazie a questa attività magica, senza tempo e senza limiti, quello che leggiamo e il modo in cui leggiamo diventano, in un senso molto concreto, ciò che chiamiamo Universo. Borges aveva avuto l’intuizione giusta».
(dal risvolto di copertina di: Alberto Manguel, "Una storia della lettura. Nuova edizione ampliata e aggiornata", Vita e Pensiero, pagg. 376, € 25)
Elogio della lettura (e del nuovo umanesimo)
- Dall’«humanitas» di Cicerone all’oggi: è necessario educare, come insegna James Baldwin, all’immaginazione e non sostituire le vecchie catene con le nuove, i vecchi pregiudizi con i nuovi -
di Alberto Manguel
La mia biblioteca è cambiata nel corso della mia vita, man mano che io stesso cambiavo. Sono cambiati i suoi contenuti, questo è ovvio, da un mese con l’altro e da un anno con l’altro, ed è cambiata anche la sua collocazione fisica mentre conducevo la mia vita itinerante. Ma cosa più importante, è cambiata la sua identità mentre cambiava la mia propria identità come lettore: la mia biblioteca, come ogni biblioteca, è un simbolo dell’appartenenza alla razza umana, il simbolo umanista per eccellenza. Descrivendo André Gide nel suo libro Two Cheers for Democracy, E.M. Forster affermò che Gide non era un eroe, ma un umanista.
«Un umanista», proseguiva Forster, «ha quattro caratteristiche principali: curiosità, una mente libera, la fede nel buon gusto e nella razza umana». Come definizione dell’uso comune del termine «umanista», potrebbe anche andare, ma purtroppo o per fortuna tale termine ha sofferto innumerevoli cambiamenti di marea, dato che una prima traccia del suo significato appariva già negli scritti ciceroniani. L’humanitas di Cicerone, radicata nel pensiero greco, richiedeva una combinazione di facoltà per definire l’animale umano: presciente, sagace, complesso, acuto, pieno di memoria, di ragione e di prudenza. Associato principalmente a una prospettiva razionalista, l’umanesimo divenne il pilastro di svariate teorie dell’educazione, sia nel Rinascimento italiano, grazie a luminari come Angelo Poliziano e Marsilio Ficino, sia nel Nord Europa, soprattutto con Erasmo. Più tardi, grazie alla teoria politica dell’Illuminismo e al materialismo nel XIX secolo, il termine umanesimo arriverà ad abbracciare ogni area di attività umana, dall’etica religiosa e dall’esistenzialismo all’ateismo e al movimento pacifista.
Come altri termini – democrazia, uguaglianza, razza, genere – l’umanesimo è arrivato a significare quasi qualsiasi cosa riguardi le opere umane, buone o cattive, a seconda delle opinioni di ognuno. In tal senso, parlare di un “nuovo umanesimo” è nel migliore dei casi ridondante, e nel peggiore dei casi falso. Ma da qualche parte, nei meandri di questa espressione, il vago senso di un’ottimistica fede nella triade ciceroniana è ancora indubbiamente presente: la memoria, la ragione e la prudenza sono qualità preziose anche oggi, almeno come aspirazioni redentive. Le nostre biblioteche celano pagine che narrano di imprese miracolose e idee temerarie, che potrebbero essere come quella manciata di anime in virtù delle quali alla nostra specie è stata promessa la salvezza eterna, e queste azioni e parole, se le prendiamo come prove di umanesimo, potrebbero giustificare la resurrezione di ciò che c’è di meglio nella razza umana. E allora invochiamo pure un nuovo umanesimo, se ciò significa diventare gli eredi e i rivali di Galileo e Dante, di Averroè e Maimonide, di Ugo di San Vittore e Ibn Tufail.
Sfortunatamente, la vista del mondo da questa terza decade del XXI secolo non è granché incoraggiante: la persistenza dell’avidità capitalistica, il disprezzo dei requisiti minimi per prevenire un catastrofico cambiamento climatico, l’incapacità – o il rifiuto – di gestire i trasferimenti involontari di massa, la reiterazione della schiavitù sotto nuovi nomi, il razzismo, il sessismo e l’omofobia radicati a fondo nella maggior parte dei nostri sistemi sociali, il ritorno trionfante del populismo di impronta fascista, lo sconcertante dilagare della stupidità di massa, della cultura antiscientifica e dell’ignoranza volontaria non fanno ben sperare per il nostro futuro, sempre che ne abbiamo ancora uno.
Cassandra ha gettato la spugna ed è pronta al pensionamento, mentre Giovanni Battista ha lanciato le sue ultime grida nel deserto. Cicerone inventò il termine humanitas per spiegare la sua idea di ciò che sarebbe divenuto noto, secoli dopo, come educazione umanistica, un’educazione che avrebbe nutrito le menti curiose con le intelligenze del passato e consentito alle generazioni presenti di eguagliare e perfino superare i loro maestri. Cicerone aveva in mente la formazione di cittadini capaci per la sua repubblica ideale. Due millenni dopo, anche tenendo conto dei valori e delle sfide di oggi, lo scopo dell’educazione dovrebbe essere ancora lo stesso: non addestrare i nostri giovani a diventare schiavi del sistema, ma insegnare loro a usare l’immaginazione per affrontarlo. Nel 1963 James Baldwin, in un discorso agli insegnanti americani, dopo aver dichiarato che «stiamo vivendo tempi molto pericolosi», riassumeva così il problema di una educazione autenticamente umanista: «Il paradosso dell’educazione è proprio questo: che più si diviene consapevoli, più si comincia a dubitare della società dalla quale si sta venendo educati».
Come Baldwin sapeva, si tratta di un paradosso inevitabile. C’è però una forma nociva di nuovo umanesimo che oggi sta, consapevolmente o meno, sovvertendo l’idea baldwiniana di cosa dovrebbe essere l’educazione: esigendo quote in luogo di prove di merito, imponendo restrizioni razziste pur dichiarando di voler eliminare il razzismo, esaltando lavori di infima qualità in nome della non esclusione, punendo i veri umanisti che hanno da tempo alzato la voce contro il pregiudizio e l’ingiustizia, sottoponendoli a un giudizio senza processo e accusandoli di essere come i nemici contro cui essi lottarono, questi inquisitori moderni stanno dando spago ai suprematisti e ai reazionari del nostro tempo. Baldwin parlava di educare l’immaginazione, non di sostituire le vecchie catene con catene nuove, gli antichi pregiudizi con l’autocensura. Il paradosso, sano e sovversivo, di Baldwin è l’ispirazione che ha originato il Centre for the Study of the History of Reading di Lisbona: costruito intorno alla biblioteca di 40mila volumi che io stesso ho accumulato nel corso di settant’anni, una collezione multilingue di opere letterarie e umanistiche che ho donato alla città di Lisbona.
- Alberto Manguel - Pubblicato su Domenica dell'8 ottobre 2023 -
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